Dopo la strage di Tunisi soffocare del tutto o parzialmente il mondo in cui crediamo, nel tentativo di fermare il terrorismo, equivale a consegnare tutto ciò che abbiamo costruito...
‚Äã«La vera minaccia per la vita della nazione, nel senso di un popolo che vive in conformità con le sue leggi tradizionali e valori politici, non viene dal terrorismo, ma da leggi come questa. Questa è la vera misura di ciò che il terrorismo può raggiungere. Sta al Parlamento di decidere se dare ai terroristi una tale vittoria». Era il 2004, e con queste parole di uno dei suoi più illustri rappresentanti, Leonard Hoffmann, la Camera dei Lords rispediva al mittente – il governo di Tony Blair – la controversa legge che, di fronte all’incubo-terrorismo rappresentato da al-Qaeda, sulla scia del Patriot Act di Geroge W. Bush, individuava nella limitazione "in alcuni casi" dei diritti civili un’arma adeguata a quell’emergenza.
All’indomani della strage di Tunisi, le risposte alle domande sollevate dalla nostra sempre più vacillante sicurezza vanno spesso nella direzione contraria a quella che, contro il governo e contro gran parte di un’impaurita opinione pubblica, i Lords ebbero il coraggio di indicare, e che terra terra, suona così: se per tentare di contrastare il terrorismo devo rinunciare, anche in parte, ai principi che fondano la civiltà che ho costruito e in cui credo, chi sarà alla fine il vincitore? Io o il terrorismo? La risposta culturalmente ovvia è una sola, ed è quella data da Lord Hoffmann; risposta che rimanda immediatamente a quella «bandiera della democrazia» che «proprio nei tempi più bui deve sventolare più alta», invocata da Winston Churchill nei momenti drammatici della Seconda guerra mondiale.
Come quella bandiera, da Guantanamo e Abu Ghraib, sia stata troppe volte ammainata in questi ultimi 15 anni lo sappiamo tutti. E quali siano state le devastanti conseguenze lo vediamo. La verità, infatti, è che se pure il principio affermato nel 2004 dai Lords era e resta sacrosanto, quella che continua a mancare è, per dirla in termini scacchistici, la contromossa. Che l’offensiva del cosiddetto Stato islamico rende di giorno in giorno più urgente. Infatti, soffocare del tutto o parzialmente la nostra civiltà aperta, il mondo in cui crediamo, nel tentativo di fermare il terrorismo, equivale a consegnare tutto ciò che abbiamo costruito nelle mani del fanatismo, perché è inevitabile che in quel modo si inneschi un gorgo che finirà con il risucchiarci tutti. Ma, appunto, qual è la l’alternativa? La prima è la prospettiva della guerra, di uno "scontro di civiltà" che non esiste, ancora, ma che finirebbe con il determinarsi senza possibilità di remissione cadendo in quel gorgo. Una prospettiva che conosciamo nella sua dimostrata inefficacia e che, pure, molti si dicono pronti a rischiare.
Ma l’altra strada qual è?
«Oggi da molte parti – ha scritto Papa Francesco nell’Evangelii gaudium – si reclama maggiore sicurezza. Ma fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza. Si accusano della violenza i poveri e le popolazioni più povere, ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità».
Belle parole, è stato detto, e viene detto. E molti però si affrettano a rilevare che «sbaglia», e a proporre correzioni. Eppure, la storia, quella storia più o meno silenziosa che ogni giorno riesce a costruire un domani migliore di ieri, ci dice il contrario. Agli inizi della sua missione a Calcutta, Madre Teresa ospitava i suoi moribondi nel Nirmal Hridy, la "Casa dell’amore puro" che altro non era che il vecchio ostello per i pellegrini che si recavano in visita all’adiacente tempio della dea Kalì. Un affronto, per i fanatici hindu, un candidato dei quali, alla vigilia di una tornata elettorale, promise ai suo sostenitori che, se avesse vinto, avrebbe cacciato di lì "quelle suore". Vinse. E, detto fatto, a pochi giorni dalla sua nomina si recò con uno stuolo dei suoi sostenitori davanti alla casa per occuparla e "restituirla" agli induisti. Madre Teresa lo accolse sulla soglia, lo prese per mano e lo accompagnò lei stessa all’interno, a visitare quei locali pieni solo di moribondi. Quando uscì, l’uomo si rivolse ai suoi sostenitori: «Vi ho promesso – disse – che avrei cacciato di qui queste suore, e lo farò. Ma lo farò quando le vostre madri, e le vostre sorelle, e moglie e figlie, faranno qui ciò che queste suore fanno».
Sì, va bene, ma Madre Teresa era Madre Teresa. Eppure – altro emisfero, altra epoca, altra scena, altri attori – è lo stesso che accadde nella Polonia di Karol Wojtyla, quando Solidarnosc, riuscendo a coagulare attorno a sé l’anelito di libertà della gente, seppe prendere per mano un popolo intero (nemici compresi, uno dopo l’altro) e riuscì a condurlo alla democrazia, senza mai imboccare la strada della violenza, e senza mai rispondere alla violenza subita.
Ma con l’Is, si dice, è un’altra cosa. Con l’islam è diverso, si dice. E si ignora deliberatamente la storia secolare di quei Paesi, che racconta chiaramente che l’Is (e al-Qaeda prima) sta all’Islam come le sette paracristiane che sparavano ai medici abortisti stanno al cristianesimo. Ignorando che dal Pakistan al Nord Africa i terroristi della bandiera nera sono denunciati come eretici e apostati.
E non è un caso che nelle cosidette "scuole" messe su dall’Is non si insegnino arte, storia, letteratura: perché il peggior nemico dello stato islamico è la cultura, è l’emancipazione dei popoli, lo sviluppo. Il premio Nobel per l’Economia Joseph Stigliz, in un libro scritto a quattro mani con Linda Bilmes (The Three Million Dollars War) già nel 2008 denunciava che per la guerra in Iraq negli Stati Uniti s’erano già spesi almeno 3.000 miliardi di dollari, ossia 12,5 miliardi al mese, e di soli costi operativi. E poi ci sono le spese in Gran Bretagna, Francia, Italia, Spagna... Di che cosa potremmo oggi parlare se una porzione di quei soldi fosse stata investita in sviluppo e lotta all’analfabestismo e alla fame?
Un mese prima della sua rinuncia, parlando per l’ultima volta davanti al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Benedetto XVI ammonì i suoi interlocutori affermando che «se preoccupa l’indice differenziale tra i tassi finanziari, dovrebbero destare sgomento le crescenti differenze fra pochi, sempre più ricchi, e molti, irrimediabilmente più poveri. Si tratta, insomma – aggiunse – di non rassegnarsi allo "spread del benessere sociale", mentre si combatte quello della finanza». E a Westminster, nel settembre di tre anni prima, con altrettanta cruda efficacia aveva osservato: «Quando è in gioco la vita umana, il tempo si fa sempre breve: in verità, il mondo è stato testimone delle vaste risorse che i governi sono in grado di raccogliere per salvare istituzioni finanziarie ritenute "troppo grandi per fallire". Certamente lo sviluppo integrale dei popoli della terra non è meno importante: è un’impresa degna dell’attenzione del mondo, veramente "troppo grande per fallire"».
Certo, tutto questo richiede pazienza, costanza, investimenti. Ma da Giovanni Paolo II, da Benedetto XVI e fino a Francesco, dietro l’insistita, invocata esortazione al dialogo, al tendere la mano all’aggressore – al fidarci, alla fine, della forza invincibile della misericordia di Dio – quale unico strumento efficace per prevenire e risolvere i conflitti, giace alla fine la stessa domanda di fondo: a cosa siamo disposti a rinunciare per un mondo finalmente umano? Ai princìpi della nostra civiltà, con tutte le conseguenze di una tale scelta? O alle illusioni di un’economia che ci promette tanto, ma ci fa solo più aridi e lontani e arma sempre nuove guerre?
Redazione Avvenire
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