La testimonianza di un sacerdote salesiano su come il Concilio abbia inciso sui suoi studi, sul suo ministero e sulla sua fede.
Trovarsi a Roma a 19 anni, quando nulla te lo aveva prospettato, può dare un nuovo senso alla vita. È stato come un fulmine a ciel sereno, perché, essendo arrivato solo tre anni prima in Libano, nel 1961, come missionario, ancora agli inizi della formazione salesiana e del cammino verso il sacerdozio, quella svolta nella mia vita non me la sarei mai aspettata.
Eppure, quella proposta dell’ispettore (così i salesiani chiamano il provinciale) don Francesco Laconi me la ricordo bene: “Te la sentiresti di continuare a Roma gli studi, prendere una specializzazione in filosofia? Questo fa prevedere che dovrai essere a disposizione dei superiori per essere inserito nei quadri formativi dell’ispettoria”.
Quale la mia prima reazione interiore, se non quella di pensare ai giovani: “Dovrei così in futuro lasciare l’apostolato fra i ragazzi e i giovani che tanto ho sognato? E l’essere missionario, e il darmi ai poveri...”. “Certamente no, sarai disponibile anche per questo. Ma il tuo primo compito saranno i candidati alla vita salesiana e al sacerdozio, nel campo dell’insegnamento e della formazione. Ti ricordo quello che diceva Pio XI: “Il dedicarsi alla formazione delle vocazioni è l’apostolato degli apostolati”.
Più o meno convinto da questo, ero ancor più convinto che l’obbedienza ai superiori era dovuta, tanto più che l’avevo promessa con voto a Gesù. E l’ispettore continuava: “Andrai quindi a Roma, al PAS (Pontificio Ateneo Salesiano; ora UPS, Pontificia Università Salesiana) per prendere la licenza in filosofia. Capisci che andare a Roma e starci per tre anni è un tesoro immenso, un privilegio che tocca a pochi. Sarà una grazia da sfruttare e poi da far fruttare”.
All’allora sede del PAS, Roma, in via Marsala, numero 42, appena fuori della Stazione Termini, cominciava la mia avventura romana come chierico salesiano di 19 anni, studente di filosofia. E cominciava anche la mia «avventura conciliare», perché il mio soggiorno romano è stato fortemente segnato dal Concilio Vaticano II.
Il mio primo compito, come studente universitario, era quello degli studi filosofici. Il mio primo impegno, come salesiano consacrato, era quello di coltivare attentamente la formazione e di prepararmi alla professione perpetua. Come aspirante al sacerdozio, tutto doveva tendere a prepararvisi il meglio possibile. E infine, come missionario, non dovevo perdere i contatti e l’interesse per il Medio Oriente. Sentivo interiormente che il Signore, con le sue vie misteriose, mi aveva condotto a Roma anche per realizzare questi scopi. Ambiente migliore non potevi offrirmi, da cogliere come occasione unica.
La Roma cristiana aveva un fascino speciale per me. Cuore della Chiesa cattolica, perla del cristianesimo, sede del Papa, gloriosa per il sangue dei martiri, colma della testimonianza di santi, centro di pellegrinaggi, disseminata di chiese... Oltre a tutti questi doni, la novità e la rarità di un concilio ecumenico, il Vaticano II, iniziato nel 1963, proprio un anno prima del mio arrivo.
A Roma si respirava l’aria del concilio. Il suo vento mi aveva toccato presto e cercavo di lasciarmene pervadere, un po’ come il vento impetuoso degli apostoli nel cenacolo, invasi dal fuoco dello Spirito. Cercavo di seguire quel grandioso evento ecclesiale. Proprio al PAS, che con tutte le sue Facoltà di allora (Teologia, Diritto Canonico, Filosofia e Pedagogia) era tutto concentrato negli edifici dell’istituto salesiano di via Marsala, avevo la fortuna di poter ascoltare alcuni docenti che erano inseriti da vicino nel mondo conciliare.
Non erano tra i 2.600 ca. padri conciliari, ma erano fra i periti rispettivamente nel loro campo: teologia, diritto canonico, liturgia, filosofia... Alcuni erano miei diretti professori di filosofia, come don Vincenzo Miano, don Giulio Girardi. Altri, come don Emilio Fogliasso e don Armando Cuva, potevo avvicinarli fuori della scuola.... Era un piacere passeggiare con l’uno o con l’altro, in gruppetto alla sera dopo cena nel cortile dell’istituto, e sentire dalle loro labbra le tematiche del concilio con tutti i loro risvolti, e cogliere dal loro cuore il clima di speranza, di apertura, di dialogo e di rinnovamento che si andava profilando nella Chiesa.
Altre volte alcune tradizionali «buonenotti», che, secondo la tradizione salesiana, facevano seguito alle preghiere della sera recitate insieme nell’ampia cappella dalle tre comunità (preti, teologi e filosofi: circa 200 in tutto), vertevano su argomenti ed eventi conciliari. Altre volte ancora era invitato uno o l’altro vescovo, o padre conciliare, a tenerci una conferenza.
Allora erano anche i tempi in cui ritornava il rito della «concelebrazione eucaristica» nella Chiesa cattolica. Era stato concesso un periodo di prova, prima di una prevista data ufficiale della sua reintroduzione. Una dozzina di sacerdoti delle tre comunità residenti al PAS (preti studenti, teologi, filosofi), ogni giorno officiava la messa concelebrata nella cosiddetta «stanza del vescovo». Gli altri chiamavano quei sacerdoti e professori «il gruppo del concilio» e io ben volentieri andavo a servire la messa come ministrante.
Non so come e perché, ma forse per il numero ristretto, forse per la stessa calma nel dover compiere riti nuovi, forse per l’intimità di essere tutti intorno a un grande tavolo, mi sembrava di partecipare meglio alla santa messa. Era già un preludio della cosiddetta «messa conciliare». Questa mi ha trovato ben preparato e disposto, oltre che un suo devoto e convinto assertore.
Per quanto potevo, cercavo di seguire gli eventi conciliari. Ero particolarmente desideroso di leggere i nuovi documenti del concilio, i discorsi del papa. Il 1964 è stato anche l’anno dell’enciclica Ecclesiam suam. Me la sono letta più volte, cercando di immedesimarmi nel pensiero del papa Paolo VI e nella sua ansia di apertura della Chiesa verso tutti.
Presentava il dialogo come desiderio e metodo di avvicinamento a tutti gli uomini di buona volontà, a partire dalla situazione concreta di ogni gruppo e comunità: Chiesa cattolica, Chiese cristiane, mondo e ogni suo ambito... Ti trascinava nella corrente di dialogo e annuncio, ti spingeva a camminare sui passi di san Paolo verso tutti, superando le mille difficoltà e accettando le sfide ricorrenti.
I primi documenti emanati dal concilio portano la data del 4.12.1963 (Sacrosanctum Concilium, Inter Mirifica) e del 16-21.12.1964 (Lumen Gentium, Unitatis Redintegratio, Orientalium Ecclesiarum). Mi davo da fare non solo per averne una copia personale, ma per procurarne anche una per tutti gli studenti della nostra facoltà di filosofia.
Quel primo mio anno, 1964-65, eravamo in tutto 47 studenti, suddivisi in tre corsi. Anche se ignaro o quasi di teologia (intendo: quella sistematica) e materie collegate, cercavo di leggere quei documenti (copertina color giallo), uno a uno, con molto interesse. Erano abbastanza corti e ciò mi spingeva a leggerli più di una volta. Erano ovviamente densi, e perciò mi sforzavo di rileggerli con calma, per penetrarli per quanto potevo.
La rilettura spesso diventava meditazione, illuminata dalla Bibbia. Provavo entusiasmo nel leggerli. Vi trovavo novità, bellezza, pensiero, pratica, spunti di meditazione e di vita. E mi meravigliavo che i miei compagni (almeno più d’uno fra loro) non provavano lo stesso entusiasmo, non li leggevano, non li sottolineavano, e tanto meno ne parlavano.
A me piacevano tanto che anche quando prendevo i mezzi di trasporto pubblico portavo con me quei librettini e ne leggevo qualche brano. Leggevo con l’occhio per scorrere le parole, con la mente per capire il senso, con la penna o la matita per sottolineare alcune frasi, con il cuore per farne tesoro, con la preghiera per renderle vita.
A tutto questo si aggiungeva la grazia di poter visitare Roma non di corsa, ma in modo programmato. Mi attraeva e mi interessava più la Roma cristiana che quella antica e imperiale. Specialmente nel primo anno mi ero proposto di visitare con cura i maggiori luoghi sacri legati al cristianesimo: basiliche, chiese, catacombe, monumenti, resti... Ovunque incontravo il Signore e sentivo la sua presenza.
Avevo la fortuna di avere alcuni bravi compagni che, conoscendo bene la città, mi accompagnavano volentieri e mi facevano da guida. E inoltre, non mancava la mappa turistica della città e nemmeno la guida stampata. Ogni giovedì pomeriggio avevamo quattro o cinque ore a disposizione per il passeggio. Uscivano insieme in gruppetti (il minimo a tre a tre; questa era la norma, ma… non sempre la pratica) e ci prefiggevamo un itinerario e alcune mete. Ci si accordava sui particolari: itinerari, trasporti, visite, soste. La merendina entrava anch’essa nel «menu».
Che gioia e stupore visitare e sostare in preghiera e ammirazione nella basilica di San Pietro per la prima volta! E chi conterà le altre volte? E via via a sostare nelle basiliche minori e maggiori, contemplando i misteri di Cristo, la vita di Maria, gli atti degli apostoli, anche attraverso tutti i tesori di arte e di bellezza conservati in quelle chiese meravigliose e negli stessi edifici architettonici.
E così si susseguivano le visite interessanti a tante altre chiese dedicate alla Madonna, ai martiri, ai santi, alle sante. E poi la carica di fede e di emozione data dalle catacombe, con il loro mistero di vita, di morte e di risurrezione. Tutto suscitava e accresceva in me un forte senso ecclesiale, una grande venerazione e ammirata invidia per i martiri, uno stimolo all’emulazione dei santi. Sentivo che l’appartenenza alla Chiesa era un grande dono di Dio, che mi univa al passato e al futuro, alla terra e al cielo, a Roma e al mondo, ai santi e ai peccatori.
L’evento conciliare che si svolgeva proprio in quegli anni aggiungeva fuoco e ardore a questo sensus ecclesiae. Mi era facile cogliere e vivere le quattro caratteristiche fondamentali della Chiesa, come una, santa, cattolica e apostolica. Non facevo che ringraziare il mio Gesù per l’immenso dono di avermi fatto figlio della sua Chiesa.
Nell’estate del 1965 avvenne il trasferimento del PAS alla nuova sede di zona Monte Sacro, allora in via Cocco Ortu, poi via Ateneo Salesiano. Nuovo anno, nuovi studi, nuovi programmi, nuova sede con spazi amplissimi; per me, nuovo ardore! L’attenzione al concilio non aveva perso nessuna tensione, anzi, aumentava man mano che mi si svelava nella sua ricchezza e grandiosità. Era veramente un evento unico!
Quello precedente, il Vaticano I, si era svolto quasi 100 prima, nel 1969-70. Quando sarebbe venuto quello prossimo? Quale pioggia di grazie lo Spirito Santo stava dando alla Chiesa con questa nuova pentecoste? Attento agli eventi conciliari, continuavo ad essere desideroso di leggere i nuovi documenti del concilio e i discorsi del papa. Man mano che uscivano i testi, mi facevo un impegno personale di leggerli personalmente più di una volta.
Che gioia scoprire il mistero della Chiesa nella sua meravigliosa realtà! Sentirmi membro vivo, in comunione con gli angeli e i santi del cielo, con le sante anime purganti, con i fratelli e sorelle della terra, con i profeti, i dottori, i martiri del passato, con tutti quelli del presente. E così approfondire nella Chiesa e vivere con la Chiesa tutte le sue meravigliose realtà: la bellezza della liturgia, la forza dell’apostolato, lo slancio della missione, la dignità e il servizio pastorale del vescovi, l’ansia e lo sforzo per l’unità cristiana, la luce sulle Chiese orientali, la stima e il dialogo con le religioni, la radicalità della vita consacrata, l’inserimento cristiano in tutte le realtà mondane per impregnarle del lievito di Cristo...
La grazia di Dio operava in modo che tutti i temi dei documenti conciliari trovassero in me una mente accogliente, un cuore vibrante e un’eco profonda. Mi infondevano tanto coraggio e tanto entusiasmo a vivere in pienezza la mia vita cristiana e la mia consacrazione religiosa.
Don Pier Giorgio Gianazza
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