Uno sguardo dall'Unione Europea. Le organizzazioni non profit sono giuridicamente caratterizzate dal divieto di distribuzione degli utili (non distribution constraint) e dal perseguimento di finalità di pubblico interesse. Ci si chiede allora: perché questi due elementi definitori non sono sufficienti per legittimare un trattamento diverso degli enti non profit tout court?
Per molto tempo “attratti” in una “zona franca”, i servizi sociali, in specie a livello comunitario, hanno cominciato ad attirare l’attenzione delle istituzioni europee soprattutto in materia di concorrenza. La Corte di Lussemburgo si è “dedicata” al tema, sottolineando che l’attribuzione di “diritti speciali” a favore delle organizzazioni non lucrative, cui nel caso di specie era stato affidato il servizio di trasporto malati in ambulanza, non impedisce di qualificare detta attività come attività economica e conseguentemente le organizzazioni dedite allo svolgimento di tale attività economica quali imprese, evidenziando, nelle proprie conclusioni, la compatibilità tra natura non profit di un’organizzazione e la qualificazione imprenditoriale della medesima. La Commissione Europea ha espresso il suo favore nei confronti di un approccio più liberale nei confronti dei servizi sociali e delle modalità gestionali ed organizzative degli stessi:
1. nel Libro Verde sui servizi di interesse generale del 2003;
2. nella Comunicazione intitolata “Attuazione del programma comunitario di Lisbona: i servizi sociali d’interesse generale nell’Unione Europea”. Preme evidenziare che in entrambi i documenti sopra citati, l’Esecutivo comunitario giunge a riconoscere che, ai fini, del corretto inquadramento “imprenditoriale” delle attività svolte, anche nel settore dei servizi sociali, si debba prescindere dallo status giuridico (rectius: non profit) dell’unità di offerta presa in considerazione nel singolo ordinamento nazionale. Ciò, inter alia, implica un’attenta individuazione della modalità di affidamento dei servizi (sociali) che, muovendo da un approccio “di mercato”, deve prevedere l’espletamento di procedure ad evidenza pubblica.
In dottrina, si è segnalato, al riguardo, che le istituzioni comunitarie asseriscono che “la quasi totalità dei servizi prestati nel settore sociale deve essere ritenuta “un’attività economica” conformemente agli articoli 43 e 49 del Trattato”. In termini tecnico-giuridici, detta impostazione definisce la rilevanza economica o meno dell’attività svolta e, quindi del servizio erogato, l’elemento che legittima la limitazione delle regole di concorrenza. Questo “orientamento”, pertanto, privilegia una prospettiva di analisi in cui la nozione di impresa, più che dal soggetto, derivi dalla specifica attività concretamente svolta secondo i parametri oggettivi indicati dal codice civile. E all’attività economica ha chiesto di guardare proprio il Consiglio di Stato che ha accolto con riserva l’ultima stesura del Regolamento riguardante l’IMU e la galassia del mondo non profit. Ora il tema che si pone soprattutto avuto riguardo alla possibile infrazione comunitaria è quello relativo all’esatta configurazione delle organizzazioni non profit, da un lato e del loro livello di “concorrenzialità” dall’altro. Perché è opportuno chiarire che qualora si introduce il tema della concorrenza, essendo questo uno dei pillars sui quali è costruito l’impianto dell’Unione Europea, con la concorrenza, ancorché “mitigata” da modalità e strumenti che tendono a valorizzare appieno le caratteristiche peculiari delle organizzazioni non profit (es. per tutti l’accreditamento), le organizzazioni non lucrative debbono confrontarsi. Conseguentemente, non si può temere una procedura di infrazione UE per eventuali aiuti di Stato che non si pongono laddove si apre al mercato di servizi erogati. Ma ben più importante forse, per l’ordinamento italiano, è la configurazione giuridica delle organizzazioni non profit, caratterizzate come è noto dal divieto di distribuzione degli utili (non distribution constraint) e dal perseguimento di finalità di pubblico interesse. Ci si chiede allora: perché questi due elementi definitori non sono sufficienti per legittimare un trattamento diverso degli enti non profit tout court? La risposta a questa domanda si trova nell’attività (economica) svolta dalle organizzazioni, ragione per cui il Consiglio di Stato non accetta che si estenda l’esenzione IMU a quelle realtà non profit i cui immobili servono una attività “mista” (non commerciale e commerciale). Ma a chi scrive il tema sembra impostato su una premessa non corretta. Si vuole con ciò intendere che laddove l’attività (economica) svolta risulta per se integrativa di un’azione imprenditoriale (quindi di un potenziale mercato) l’imposta trova applicazione. Quello che, invece, si vuole contestare è l’interpretazione delle organizzazioni non profit che operano in regime di “convenzionamento” e quindi di sussidiarietà orizzontale con gli enti pubblici. Si intende affermare, in questo senso, che per dette organizzazioni (così come sopra ribadito) l’esonero dall’imposta non costituirebbe una deroga al regime ordinario dell’imposizione. Si pensi, al riguardo, alla destinazione degli immobili nelle fondazioni: il cespite in questo caso è finalizzato alla realizzazione della finalità di pubblica utilità che il codice civile imprime proprio sulle fondazioni nel Libro I. Il presupposto tributario per l’applicazione dell’imposta attiene al rapporto tra ricchezza (prodotta) ed il soggetto passivo. In altri termini, deve sussistere un’autonoma disponibilità di potere economico su una determinata manifestazione di ricchezza. Ora osserviamo le organizzazioni in parola: uno degli elementi che le caratterizza, segnatamente, il divieto di lucro soggettivo, implica che dagli immobili essi non traggono un’utilità per se stessi, in quanto esse debbono essere reinvestite per il perseguimento delle finalità di pubblico interesse, peraltro riconosciute dall’ordinamento. Atteso il carattere non lucrativo delle organizzazioni e l’assenza di concorrenza (che debbono necessariamente collegarsi con una finalità di solidarietà sociale), gli immobili destinati ad attività – per usare i termini impiegati dal Governo Monti – in cui “siano assenti gli elementi tipici dell’economia di mercato” debbono essere esentati dall’imposta. A dire il vero, sarebbe più corretto parlare di esclusione e non di esenzione, in quanto il primo termine evoca l’uscita dal perimetro di applicazione dell’imposta per le organizzazioni che non svolgono un’attività di mercato. Invero, l’esclusione non sottende una portata derogatoria rispetto al regime ordinario di imposizione degli immobili, poiché si tratta di delimitare il campo di applicazione dell’imposta in parola, dal quale vanno appunto esclusi gli immobili destinati in concreto a finalità di pubblico interesse nelle quali siano presenti i due requisiti sopra richiamati (assenza di scopo di lucro e assenza di un mercato di riferimento). Sono poi queste fattispecie quelle che operano spesso in regime di convenzione con la pubblica amministrazione, che interviene a sostenere realtà della società civile che operano negli stessi ambiti di competenza e responsabilità degli enti locali. In questo senso, pertanto, laddove non si introducano meccanismi concorrenziali dovuti allo specifico settore di intervento o alle specifiche caratteristiche del servizio da erogare, non siamo in presenza di aiuti di Stato incompatibili con le norme del Trattato UE. Come ben sostenuto da Pietro Selicato (L’Imposta Municipale Unificata (IMU) e gli enti ecclesiastici: nuove norme per vecchi problemi, in www.federalismi.it, n. 22/2012, 14 novembre 2012) l’UE non potrebbe rilevare un fumus per comminare una infrazione al nostro Paese, in considerazione del fatto che “l’assenza del carattere derogatorio della disposizione, ne fa venir meno la natura “selettiva” costituente il presupposto di denuncia di incompatibilità”. Ma ancora più importante, sul piano soggettivo, ribadiamo la necessità di inquadrare gli enti non profit che svolgono attività “in nome e per conto” della pubblica amministrazione tra quegli enti che non si pongono sul mercato in un regime di libera concorrenza. Al riguardo è bene ricordare come nella direttiva europea sui servizi nel mercato interno del 2006 (c.d. “Bolkestein”) i servizi sociali e sanitari (in cui significativa è la concentrazione dell’attività delle organizzazioni non profit) sono espressamente esclusi dall’applicazione delle norme sulla libera concorrenza. Stessa deroga è prevista nel d.lgs. n. 59/2010 (artt. 3 e 7) che ha recepito la direttiva in parola nell’ordinamento giuridico italiano. Alla luce di quanto sopra descritto, in Italia dovremmo passare da una condizione di minorità delle organizzazioni non profit, coincidente con l’attribuzione di “privilegi” ad un riconoscimento pieno, civile e moderno delle loro funzioni sociali e, pertanto, valorizzate da parte degli enti locali che ad esse assegnano servizi per la realizzazione della sussidiarietà orizzontale e, a livello europeo, di una migliore e più efficace coesione sociale.
Alceste Santuari, Alessandro Venturi
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