Incontrarsi a tavola

I consumi alimentari come occasione di elaborazione delle differenze, capace di promuovere l'incontro interculturale e con interessanti risvolti economici: un fenomeno che, grazie agli immigrati, è sempre più frequente in Italia. Non senza resistenze e chiusure...

Incontrarsi a tavola

da Un Mondo Possibile

del 28 ottobre 2009

 

La tavola è per definizione il luogo della condivisione e dello scambio e dunque l'acquisto, la preparazione, il consumo del cibo possono essere una modalità di comunicazione di saperi e di confronto tra mondi e orizzonti culturali diversi: per gli immigrati, non meno che per gli italiani, la cucina costituisce un tratto identitario forte e un indizio per rintracciare e conservare le proprie radici, benché, d'altro canto, il suo rapporto con l'identità collettiva sia continuamente ridefinito. In una società, come quella italiana, solo da pochi decenni interessata da consistenti fenomeni migratori, queste dinamiche innescano interessanti cambiamenti culturali ed economici.

 

 

DOMANDA E OFFERTA

 

Da alcuni anni i consumatori italiani dimostrano una maggior apertura verso i cibi «esotici», in linea con la tendenza in atto da tempo nelle grandi capitali europee, che hanno una storia di immigrazione meno recente e più radicata. L'aumento dei viaggi all'estero si traduce, una volta rientrati a casa, sia nella ricerca di sapori di altri angoli del mondo sulle proprie tavole, sia nella propensione per la ristorazione etnica. Si tratta di un consumo complementare, non alternativo, alla riscoperta delle tradizioni alimentari italiane, dei prodotti Dop e Igp, delle eccellenze regionali.

 

Va aggiunto che l'imprenditoria straniera legata al cibo è un'opportunità per le economie urbane, sia perché è competitiva in termini di prezzo - e questo può risultare decisivo in un tempo di crisi, quando mangiare fuori casa diventa un lusso -, sia perché in alcuni quartieri crea e attiva una nuova industria dell'intrattenimento e del turismo collegata alla ristorazione.

 

Al tempo stesso, sempre sul fronte della domanda, l'incremento dei residenti stranieri in Italia e il consolidamento delle comunità immigrate hanno fatto aumentare le importazioni di cibi dai Paesi d'origine, fenomeno che ha attivato quello che Manuel Orozco, politologo esperto di migrazioni e relazioni internazionali, definisce il «nostalgic trade»: non è raro per un ecuadoriano mangiare platanos fritti a Genova come a Guayaquil, o per un'immigrata nigeriana cercare al mercato la yucca per preparare il garri come in patria.

 

Come risposta alla domanda di cibi etnicamente connotati, sia da parte degli italiani, sia da parte degli immigrati è aumentato il numero di operatori economici stranieri nella produzione e commercializzazione di alimenti e nella ristorazione. Secondo i dati di Unioncamere, il numero di imprese individuali con titolari stranieri è cresciuto nel 2008 a ritmo più sostenuto (+12,5%) rispetto a quelle amministrate da italiani: lo scorso anno sono state 36.694 le imprese individuali aperte da stranieri, portando il totale a 240.594 (il 7% delle imprese individuali esistenti in Italia).

 

Per quanto riguarda i settori che più qui ci interessano, il «commercio» (in cui rientrano ad esempio macellerie islamiche, asian market, ma anche «normali» panetterie, gastronomie, piccoli supermarket) è al primo posto, potendo contare su 103.468 imprese con titolare extra-comunitario (il 43% del totale), mentre il settore «ristoranti» (ristoranti etnici, pizzerie e fast-food gestiti da stranieri, ecc.) rappresenta una quota minore (6.230 imprese, il 2,6%, che comprendono anche gli alberghi), ma in crescita (+12% dal 2007 al 2008).

 

Alla conduzione di questi esercizi partecipa una rete di persone (perlopiù uomini) accomunate dalla parentela o dall'identità linguistica, che collaborano nei processi di reclutamento del personale, di formazione e di avvio di nuove attività; si tratta di famiglie della piccola borghesia commerciale, non sempre con una lunga esperienza di soggiorno in Italia, ma disponibili ad aggiornare le proprie competenze.

 

Nella strategia degli imprenditori immigrati si fondono iniziativa economica e gioco identitario. Infatti, da un lato si rivolgono a un pubblico di connazionali e di immigrati di altra provenienza, allo scopo di riprodurre, conservare, rinegoziare la loro cultura e la loro identità, dall'altro coinvolgono anche i consumatori italiani, attraverso una contaminazione di prodotti, sapori, odori, suggestioni. Così, sugli scaffali dei supermarket cinesi, insieme all'asian food si trovano prodotti latinoamericani e nordafricani; nelle panetterie marocchine si può acquistare il pane italiano, quello arabo e la pasticceria maghrebina. Alcune attività, seguendo le tendenze, hanno optato per un vero restyling: è il caso dei ristoranti cinesi riconvertiti in giapponesi e sushi bar.

 

KEBAB O POLENTA?

 

È indubbio che la nascita e lo sviluppo di queste attività abbiano prodotto una trasformazione dei luoghi, delle scelte architettoniche, del paesaggio urbano nel suo complesso. Con il sostegno delle amministrazioni locali e della rete del volontariato, in molti comuni italiani sono stati realizzati interventi di riqualificazione urbana e interi quartieri sono stati «ripensati» alla luce di una popolazione etnicamente più composita.

 

Sono sorti così esercizi commerciali e spazi per la ristorazione e il divertimento gestiti da immigrati, punti di riferimento per le comunità straniere, ma anche luoghi attorno ai quali gravitano gli italiani più incuriositi: è il caso di San Salvario a Torino, borgo multietnico che a partire dagli anni Novanta, con il fiorire di attività commerciali e ristoranti gestiti da immigrati, ha saputo dare una risposta a situazioni di disagio e di degrado e oggi rappresenta una delle zone di maggior attrattiva per i giovani torinesi; o di Milano, dove si possono rintracciare veri e propri quartieri etnici, da Chinatown alla zona peruviana di via Padova a quella eritrea di Porta Venezia; o di Mestre, in via Piave, luogo di incontro tra immigrati e residenti, dove il successo dei locali etnici ne ha confermato la vocazione multiculturale.

 

Vecchi e nuovi cittadini si confrontano e si contaminano, le tradizioni si reinterpretano e si rinnovano: allo storico mercato di Porta Palazzo, a Torino, un tempo c'erano i banchi dei contadini piemontesi, negli anni '60 a loro si sono sostituiti i commercianti provenienti dal Sud Italia e oggi si assiste a un nuovo ricambio con i venditori immigrati.

 

Non mancano forme di resistenza: gli esempi più noti sono le misure restrittive adottate dal Comune di Lucca per la chiusura delle attività etnicamente connotate in contrasto con le tipicità storiche, la normativa varata dalla regione Lombardia per vietare il consumo di cibi per strada, ribattezzata «legge anti kebab», o ancora lo «sciopero dell'ananas», invocato dal ministro dell'Agricoltura, il leghista Luca Zaia, per promuovere il made in Italy durante le festività natalizie.

 

Resistenze che nascondono curiosi paradossi. Lo slogan - di cui facilmente si presume l'ideazione - «Sì alla polenta, no al cous cous: orgogliosi delle nostre tradizioni», in nome della tutela del prodotto tipico italiano rimanda a una presunta tradizione alimentare «padana», che però non si potrebbe realizzare senza l'ingrediente principale, ovvero l'etnicissimo mais: come noto, quest'ultimo è stato introdotto in Occidente attraverso i commerci con le Americhe, insieme ai pomodori e alle patate, cambiando profondamente le nostre abitudini alimentari. E così il risotto alla milanese non esisterebbe se lo zafferano non fosse stato portato da qualche mercante lungo la via delle spezie, né a Napoli si gusterebbero i babà, una creazione presumibilmente polacca.

La verità, dunque, è che siamo in presenza di «intolleranze alimentari», perché attraverso l'accettazione o il rifiuto del cibo si crea o si nega la relazione con l'altro.

Ma nell'Italia di oggi ci sono anche atteggiamenti e reazioni diverse. Inevitabilmente attraverso il cibo si costruiscono relazioni e quello che può essere ghettizzante per target definiti e per minoranze chiuse, come nel caso delle proibizioni religiose islamiche ed ebraiche della carne di maiale, al contrario può essere uno strumento per facilitare l'accoglienza, l'integrazione e anche interessanti sinergie a livello economico tra imprenditoria locale e straniera: nel 2003 un'industria casearia torinese ha prodotto il latte fermentato per la comunità maghrebina, accolto con entusiasmo anche dai salutisti italiani; ricordiamo anche il caso del cous cous «a chilometro zero», realizzato a partire dal grano biologico coltivato nella zona di Argenta, in provincia di Ferrara, o i diversi esperimenti di kebab sempre «a chilometro zero», prodotti con carni bovine degli allevamenti italiani.

 

LOCALE-GLOBALE

 

Alla luce di queste considerazioni, non appare eccessivo sostenere che le scelte alimentari si rivelano un vero e proprio vettore di rinnovamento nella percezione del mondo e di se stessi: la pizza, ad esempio, tradizionalmente un prodotto della cucina napoletana, è stata incorporata nella dieta delle regioni del Nord ed è poi diventata per estensione il simbolo della cucina italiana nel mondo.

 

Talvolta, addirittura, i cibi originari di un luogo diventano caratteristici di un altro: la pizza, nuovamente, per molti bambini statunitensi è considerata un prodotto tipico nazionale; il Piemonte, la Svizzera e la Savoia francese ancora si contendono la paternità della fonduta, così come Milano e Vienna quella della celebre cotoletta. Che dire poi della storia del kebab? In Italia è arrivato attraverso la Germania, dove lo hanno introdotto gli immigrati turchi, ma gli immigrati di seconda generazione nel nostro Paese ritengono il kebab un cibo internazionale, non certo identitario.

 

Per tornare a esempi nostrani, gli emigrati italiani hanno saputo in varie occasioni reinventare il proprio gusto e costruire una nuova identità alimentare: a La Boca, quartiere di Buenos Aires nell'Ottocento molto popolato da liguri, il pesto si preparava senza timo, maggiorana, origano e le altre erbe aromatiche della riviera, ma con abbondante aglio e cacio. In modo speculare si parla talvolta di «invenzione della tradizione» per indicare il fenomeno con cui gli immigrati, attraverso il linguaggio del cibo, intendono dare voce al rapporto affettivo con persone e luoghi lontani, spesso costruendo o ricostruendo un ricettario ideale, che immaginano possa risalire a un passato immemorabile: se i figli degli immigrati biellesi in Argentina cucinavano l'asado, la tipica carne alla brace argentina, credendo di dare continuità a una tradizione tipicamente piemontese e italiana, molti argentini oggi gustano la bagna caoda convinti che si tratti di una ricetta autoctona e ignorando che sia stata invece portata nel Paese dagli immigrati piemontesi.

 

L'etnicità dei consumi alimentari, insomma, da un lato esige dall'altro stimola la propensione a una ridefinizione dei confini culturali. È interessante - e lo è soprattutto oggi, nel villaggio globale - pensare alle tradizioni non come a ricette cristallizzate nel tempo, ma come allo spazio del métissage, dove imparare significa rinunciare a rintracciare il particolare nella confusione, ma essere disposti a cogliere i segni sempre nuovi di un mondo in movimento.

 

Elisabetta Gatto

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