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Incredibile quel che è successo a scuola!

Non pensa che quando non si riesce a trovare una risposta certa alle domande fondamentali della vita, alla domanda di felicità, si finisca inevitabilmente per arrendersi, per rassegnarsi a pensare alle piccole cose di ogni giorno?”


Incredibile quel che è successo a scuola!

da Quaderni Cannibali

del 24 novembre 2010

        

         Questa mattina in terza ho parlato delle università medioevali, sottolineando come in esse la fede costituiva un orizzonte unitario per comprendere il significato di tutta la realtà. La preoccupazione di chi insegnava era quella di offrire ai giovani la cultura primaria, cioè un punto di vista che li aiutasse ad affrontare e a rispondere alle grandi domande della vita, su questa cultura primaria si innestava la cultura secondaria, che affrontava i diversi campi del sapere in modo ampio, organico e approfondito.

 

         Ho chiesto ai ragazzi di confrontare la situazione delle università medioevali con quella attuale, ho fatto loro notare che l’insegnamento della cultura primaria oggi è scomparso, sostituito da una enorme frammentazione del sapere. Un'alunna ha detto che sua sorella è tornata dalla università statale di Milano con un libretto di presentazione delle diverse facoltà; quel libretto conteneva la descrizione di decine e decine di indirizzi e di un numero impressionante di corsi, segno appunto della frammentazione della cultura attuale.

         Ho aggiunto che la situazione delle scuole medie superiori non è molto diversa: il sapere è suddiviso in tanti indirizzi e discipline ed è rarissimo incontrare qualche insegnante che offra qualcosa che, sia pur lontanamente, assomigli all’insegnamento della cultura primaria medioevale. Ho chiesto quale fosse a loro parere il rischio di questa situazione.

         Mi è stato risposto che il rischio è che un giovane di oggi sappia tutto di un particolare aspetto della realtà, ma non sappia nulla relativamente alle grandi domande della vita e quindi non sappia rispondere all’interrogativo sul significato di sé, della vita, sulla sua origine e sul suo destino, vivendo così una drammatica condizione di limitatezza e povertà di conoscenza, di estraneità rispetto a se stesso, agli altri e alla vita in generale e un terribile senso di solitudine, di vuoto, di non senso, di scetticismo.

         A questo punto una alunna ha alzato la mano e ha fatto due domande che mi hanno colpito tantissimo.Ha detto: “Prof, in fin dei conti, nessuno ci ha mai promesso di avere la certezza di una risposta alle grandi domande della vita, nessuno ci offre più delle risposte certe, allora perché noi giovani dovremmo continuare a porci delle domande?

         Non pensa che quando non si riesce a trovare una risposta certa alle domande fondamentali della vita, alla domanda di felicità, si finisca inevitabilmente per arrendersi, per rassegnarsi a pensare alle piccole cose di ogni giorno?”

         Mi colpiscono alcuni aspetti di queste domande: la coscienza chiara della drammaticità della condizione umana attuale che queste giovani dimostrano, del disagio che sperimentano in un mondo di adulti e in una cultura che non considera neanche i loro grandi interrogativi. In secondo luogo la libertà che hanno nel comunicare in modo esplicito questo loro disagio. In terzo luogo il fatto che questo loro dire contiene un grido, una domanda: c’è qualcuno che mi può aiutare, mi può dare una mano? Ma dove sono finiti gli adulti che possono e sanno offrire una ipotesi di risposta e sono disposti a coinvolgersi con chi la sta cercando?

         Mi sono venute in mente alcune riflessioni ascoltate qualche anno fa. La nostra cultura ha fatto fuori l’immagine del padre e l’ha sostituita con altre immagini. Non c’è più nessuno che si metta di fronte al figlio, al ragazzo, allo studente col desiderio di educarlo, ma da adulto, non da amicone, da compagno. La figura del padre è decisiva per la formazione e la crescita del tipo umano del figlio, del ragazzo, perché è una struttura costitutiva dell’umano: o svolge l’umano o lo blocca.

         Basta pensare alla funzione che svolge nell’esistenza l’avvenimento di Gesù Cristo che ci apre alla paternità di Dio. Questa paternità ci costituisce, è l’argine contro tutto lo scetticismo che ci circonda ed è la speranza che uno può offrire a chiunque incontra.

         Stando nel nesso con Cristo che mi apre alla paternità di Dio accade in me la scoperta e l’esperienza di un senso profondo dell’io e della vita, che va ben oltre l’apparenza del reale. Oggi invece tutti vivono di apparenza: il figlio, la persona amata, il compagno sono solo e semplicemente lì, è tutta apparenza.

         Mentre con la piena consapevolezza del proprio nulla, ma insieme della propria totale dipendenza da Colui che è l’Essere, la vita diventa veramente religiosa, cioè carica di senso, molto diversa da una vita intesa come pura applicazione di norme, di regole o di ricerca della tranquillità.

         A noi educatori che abbiamo ricevuto il dono di questa paternità che ci fa guardare oltre l’apparenza delle cose per cogliere il valore di segno del Mistero, dell’Infinito, della Misericordia di tutta la realtà, il compito di rispondere con una proposta chiara e una compagnia fedele al grido che insistente si alza ogni giorno dentro le aule scolastiche, un grido di giovani alla ricerca di padri veri.

         Ho citato alle mie alunne la frase di Pavese: “Che cosa terribile è il pensiero che nulla a noi sia dovuto: forse qualcuno ci ha promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?” E ho detto: voi aspirate alla bellezza, ammirate la bellezza e desiderate che permanga, come quando siete innamorate e dite al moroso: 'Ti amo infinitamente, ti amo per sempre”. Non potete resistere se non avete la sicurezza di non perdere per l’eternità chi amate. Pensate se non è più ragionevole ritenere che la vostra vita sia una promessa.

         Un dialogo affascinante, una battaglia contro lo scetticismo imperante, un tentativo di riportare quelle persone dentro la realtà, di far diventare l’ora di lezione un’esperienza, un dialogo che continua, non finisce mai!

         Un’ultima osservazione. I giornali hanno riferito degli slogan scanditi da studenti e professori durante le manifestazioni di protesta nelle principali città italiane, slogan che dicono che la scuola non va bene per colpa della riforma Gelmini, dei tagli di Tremonti, dei soldi che vengono dati alle scuole private, dei precari che restano precari, delle diarie delle gite che non esistono più ecc.

         Sarà, ma per la mia esperienza la scuola non funziona, non educa non per questi motivi, ma perché non ci sono più “padri” desiderosi di ascoltare, di fare proprie le domande dei giovani e di coinvolgersi con loro, giocarsi con loro in un lavoro culturale serio, forse perché gli adulti di oggi non hanno più niente da dire e da proporre, forse perché è più comodo andare a scuola come si fa oggi, senza nessuna proposta educativa, fatto salvo protestare contro i tagli all’istruzione, come se una scuola con più soldi e risorse fosse quella che chiedono le mie alunne di terza.

         E’ terribile questo “gioco” a scaricare le colpe sempre sugli altri, sulla politica, senza mai decidere di giocarti nel quotidiano, nel rapporto quotidiano con le persone che incontri, senza farti carico delle domande drammatiche di chi ti sta davanti. Cercansi dei “padri”, disperatamente!

Franco Bruschi

http://www.culturacattolica.it

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