In questa lunga intervista l'atleta paralimpico che ha perso le gambe in un tremendo incidente automobilistico, racconta cosa lo motiva a superare continuamente i suoi limiti...
del 20 febbraio 2019
In questa lunga intervista l'atleta paralimpico che ha perso le gambe in un tremendo incidente automobilistico, racconta cosa lo motiva a superare continuamente i suoi limiti...
Alex Zanardi è un volto conosciuto e amato, per le sue imprese, per il suo sorriso e la sua simpatia. Malgrado il terribile incidente nel 2001 durante una gara automobilistica che gli portò via le gambe, è tornato presto alla guida in competizioni su pista e ha da poco corso la 24 ore di Daytona. Campione olimpico di handbike, lo scorso agosto ha compiuto l’ennesima impresa: nella competizione chiamata Ironman, che vede gli atleti cimentarsi nel triathlon: 3,86 km di nuoto, 180,260 km in bicicletta e 42,195 km di corsa. Ebbene, su tremila concorrenti disabili e normodotati si è classificato al quarto posto assoluto. Un risultato davvero eccezionale
Dove ha trovato la forza di presentarsi al mondo in una veste sempre così trascinante e positiva?
«In realtà non credo si tratti di forza. Semplicemente di potersi dedicare a cose molto appassionanti, che ho la fortuna di poter incrociare facilmente nel mio percorso. In alcune occasioni sono serviti un pizzico di curiosità e di ottimismo e anche un po’ di lungimiranza nel riuscire a trasformare cose che non sono nate per essere appassionanti in cose che mi sarebbe piaciuto fare. Su tutto ritrovarsi su un letto di ospedale senza le gambe e dire “adesso si riparte da qui, adesso come la mettiamo?”. Anche nel mio percorso di riabilitazione dover capire come adattare il funzionamento di un ginocchio protesico e la sospensione di un’ auto da corsa mi ha portato a instaurare un dialogo con i tecnici ortopedici, che poi sono diventati la mia squadra e che sono diventati miei amici, con cui conservo un rapporto ad anni dalla mia riabilitazione. Questo è stato gettare il seme per quello che è arrivato dopo. Credo che il comune denominatore nelle cose che faccio al meglio delle mie capacità sia la parola passione».
Lei ci ha abituato a grandi imprese. Ma sicuramente ha dell’incredibile l’ultima, la vittoria all’ironman, dove si è classificato quinto, battendo molti normodotati. Anche per lei è stata una sorpresa?
«Ammetto che sicuramente serve lavoro, impegno, preparazione, tutte cose che ho messo in campo per centrare un grande risultato di cui vado orgoglioso, non è una cosa facile, ci vuole la testa dura. Ancora prima di disputare il primo triathlon della mia vita, che tra parentesi era al mondiale di Kona nel 2014, io confessai che secondo me dopo aver studiato con attenzione anche solo a livello teorico questo tipo di cimento per una persona diversamente abile ci sono delle semplificazioni. Venivo guardato come un marziano. Va bene essere un po’ modesti ma ci vuoi raccontare che per un uomo senza gambe è più facile? Sì, perché la maratona, che è la parte conclusiva della gare è una prova sovrumana se la fai dopo che hai nuotato per 4 chilometri e essere andato in bicicletta per 180. Invece io scendo dalla mia handbike e salgo su una carrozzina, che va spinta a forza di braccia, ma che comunque ha le ruote. Quindi in quel momento per me è più facile concludere quella prova, e in determinati percorsi posso avvicinarmi tantissimo al limite complessivo degli atleti normodotati. In tutto ho disputato cinque ironie, e a Barcellona nel 2017 sono stato il primo disabile a scendere sotto il muro delle 9 ore».
Lei è spesso all’estero. In questo momento in che cosa è impegnato?
«Spesso faccio interventi di carattere motivazionale su richiesta di grandi aziende. E questa attività mi serve per sostenere dei progetti di solidarietà. Poi sono un ambasciatore del brand di varie aziende e la mia agenda è parecchio densa di impegni. Il mio vero lavoro in realtà sarebbe essere ancora uno sportivo a dispetto dei miei anni. Nel paraciclismo, me la cavo ancora, sono convinto di poter andare a disputare la mia terza paralimpiade a Tokio da protagonista, anche se sarà difficile confermare il titolo olimpico. Credo davvero che la vita perfetta non debba essere riempita di grandi risultati, ma di grandi tentativi per produrli, e fare le cose è la cosa più bella. Nell’attimo in cui si riesce è bellissimo tagliare il traguardo davanti a tutti, ma è un momento effimero che è destinato a perdersi subito nella storia dei ricordi, e i ricordi appartengono al passato. Ma siccome la vita è una, cerco di vivere nel presente e di proiettarmi verso il futuro. Porto ogni giorno a casa un risultato che è fare le cose che amo».
Da poco è salito di nuovo alla guida di un’auto da corsa…
«Sì, la 24 ore di Daytona. E fare una loro gara ufficiale alla mia età è bello ed è una sfida tecnologica importante perché in quel tipo di gara si corre con un equipaggio di 4 piloti e avrò tre compagni normodotati con cui condividere l’abitacolo. Con delle complicazione come l’alternanza alla guida nei tempi strettissimi del pit stop».
Lei ha anche un’associazione che aiuta i bambini. Bimbi in gamba. Di che cosa si occupa?
«Poco dopo il mio percorso riabilitativo ho avuto l’idea di creare un gruppo di lavoro per fare protesi a bambini. Non essendo una terapia salvavita è spesso una chimera per bambini dove il sistema di assistenza sanitaria non è il nostro. Sono ausili molto costosi perché necessitano di tanta manodopera. Per esempio negli Stati Uniti se non hai un’assicurazione medica devi adattarsi ad andare sulla sedia a rotelle o sulle stampelle. Molto più frequentemente ci vengono fatte segnalazioni di casi in territori di grande difficoltà come il centro Africa o i paesi dell’est Europa. Occorre affrontare anche delle difficoltà burocratiche per far arrivare i bambini all’ Rtm, il centro ortopedico di Budrio (Bologna). Abbiamo aiutato più di 200 bambini. Recentemente abbiamo avviato il progetto Obiettivo 3 per avviare allo sport persone disabili dando loro attrezzature, per esempio. Comperare un handbike come la mia è molto costoso. Ci piacerebbe anche selezionare dei partecipanti alle olimpiadi di Tokyo. La cosa bella è restituire il sorriso alle persone e lo sport ha questa potenza. Tanti dei ragazzi che abbiamo aiutato sono diventati degli ambasciatori del nostro messaggio, capaci di ispirare gli altri».
Malgrado l’incidente in cui ha perso le gambe lei è tornato quasi subito alla guida di un auto da corsa. Mai avuto paura?
«Non ci sono poi così tante ragioni per non tornare a guidare. Che cosa c’è di diverso tra me e chi non ha ancora fatto un incidente? E statisticamente è molto più probabile che accada a un altro. Ci sta provare un po’ di paura, però io sapevo che il mio mestiere era comunque abbastanza pericoloso, ma credo di essere stato sfortunato, anche guidare normalmente un’auto è rischioso. Io sono l’unico pilota vittima di una dinamica così pazzesca come quella che mi ha portato via le gambe».
Nella sua vita quanto è stato importante il sostegno della famiglia?
«Moltissimo. La famiglia, in particolare mia moglie, è stata un po’ la regista, con alcune scelte che ha fatto e che sono state tutte migliori di quelle che avrei preso io. Quando sono tornato a casa dopo la mia degenza a Berlino di 40 giorni, nel garage c’era già un’auto con i comandi al volante. La mia famiglia mi si è stretta attorno permettendomi di rimanere concentrato su me stesso. Avevo voglia di ritornare il più rapidamente possibile a essere il miglior padre per mio figlio Niccolò, perché mi faceva male non poter fare con lui le cose che avevo fatto fino a quel momento. Ora mio figlio ha 20 anni e dopo la maturità e dopo aver tentato l’ingresso a medicina si è preso una pausa ma mi auguro che voglia continuare a studiare, perché è un ragazzo in gamba».
Lei va anche nelle scuole a parlare con i ragazzi. Che messaggio comunica loro?
«Io rispondo alle loro domande non mi sento docente di nessuna materia. Spesso i ragazzi quando si rendono conto della naturalezza con cui accetto di parlare di certe cose spostano il loro interesse su temi come le prospettive, il loro futuro, come si fa a realizzare i propri sogni, perché vedono che sono una persona che ha fatto le cose che voleva. Io cerco di convincerli che sono loro i fortunati, perché hanno tutto davanti. Io ho ormai quasi tutta la carriera alle spalle. Nell’attimo in cui ho vinto le olimpiadi di Londra mi sono rimbalzati davanti agli occhi tutti i tre anni precedenti in cui avevo inseguito quel traguardo. Ed ero un po’ triste perché quel capitolo così entusiasmante si era concluso. Faccio capire ai ragazzi che si può, mio papà mi diceva “fai quel che puoi ogni giorno e ricordati che se ogni giorno fai un passo prima o poi le cose accadono”. I ragazzi mi vedono come una persona autorevole per parlare di questi temi. Cerco di far loro capire che se ti metti al lavoro prima o poi qualcosa accade e ci sono alcuni ragazzi a cui brillano gli occhi».
Negli ultimi anni sempre più persone disabili si sono rese protagoniste di grandi imprese, umane e sportive. È radicalmente cambiata la mentalità nei confronti dei disabili? Lo sport in particolare è vissuto come una rivalsa sulle proprie condizioni?
«È cambiata tantissimo la sensibilità delle persone oggi. Credo che la disabilità sia una condizione e non un limite e lo sport è in grado di raccontare tutto questo in modo molto efficace. In particolare la paralimpiade di Londra ha segnato questo cambiamento. Prima di allora le attività paralimpiche era viste come attività di carattere partecipativo più che competitivo, e forse anche i miei risultati hanno contribuito nel cambiare la percezione del pubblico. Se tu sai guardare un grande atleta e riflettere su quanto lavoro c’è dietro alla sua prestazione non puoi non sentirti ispirato, ma se è un colosso tutto muscoli con un fisico pazzesco pensi che è un fenomeno, ma se vedi un disabile che magari ti supera in bicicletta allora ti dici “mamma mia quanto lavoro ci deve essere”, perché capisci che per quel disabile c’è stato un punto della vita in cui si è trovato terribilmente indietro. Di fronte a un ragazzo che a forza di braccia fa i 42 chilometri all’ora ti togli il cappello».
Il paraciclismo, l’automobilismo, la conduzione televisiva, il doppiaggio: sembra che non ci siano limiti per lei. In quale altre imprese vorrebbe cimentarsi?
«Quello che ho fatto in realtà non è stata un’impresa. Credo di essere una persona sufficientemente saggia per capire quali sono le cose che davvero mi interessano. Non scelgo seguendo la mia ambizioni, la visibilità per farmi dire bravo. Io faccio una cosa al meglio delle mie capacità, e poi la gente vedendo l’amore che ci metto mi riconosce anche il successo. Ho un ego molto sviluppato, lo ammetto, ma anche se la conduzione televisiva mi era stata offerta a più riprese, mi sono lasciato convincere perché Sfide era un progetto che mi appassionava molto. Mi gasavo, mi entusiasmavo, ritrovavo nei personaggi tratti del mio percorso. Sono certo che nel momento in cui non mi divertirà più fare sport mi verrà naturale girare la testa altrove e scoprire altri progetti interessanti da abbracciare».
La fede ha un ruolo nella sua vita?
«Perbacco! Non ho mai chiesto a nostro Signore di aiutarmi per problemi in cui potevo cavarmela da solo, ma ci sono stati dei momenti di confronto in cui sono certo di essere stato ascoltato. Mi rifiuto di credere che la nostra presenza in questo mondo sia solo il risultato di una combinazione chimica. Tutte le religioni hanno un punto di contatto con quanto abbiamo dentro, la nostra coscienza, che ci ha donato nostro Signore e che dovremmo consultare quando dobbiamo prendere decisioni importanti».
Fulvia Degl'Innocenti
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