«Ciao Rosa, sono Don Roberto. Ho bisogno di una mano. Tra i ragazzi delle superiori del mio oratorio, ci sono alcuni che si svestono in chat. Puoi aiutarci?».
“Ciao Rosa, sono Don Roberto. Ho bisogno di una mano. Tra i ragazzi delle superiori del mio oratorio, ci sono alcuni che si svestono in chat. Puoi aiutarci? L’ideale sarebbe che tu venissi ad uno dei nostri incontri. I ragazzi sono una cinquantina dai 14 ai 18 anni. Possiamo metterti a disposizione due ore di tempo.”
Il primo pensiero che si è affacciato alla mia mente nell’udire queste parole è stato: “Santa pazienza! La realtà è sempre più creativa ed originale dell’immaginazione. Ma allora queste cose accadono davvero!!!”.
Il secondo pensiero, invece, è stato estremamente operativo: “Perché dei ragazzi dovrebbero svestirsi in chat? Che cosa stanno cercando? Quale bisogno stanno manifestando?”. Per poi proseguire con: “Che cosa si aspetta Don Roberto? Di cosa mi sta chiedendo di parlare? Posso dire ai ragazzi ciò che il Don mi ha detto?”
Tutte le volte che devo preparare un’attività con adolescenti so bene che è fondamentale trovare il modo di discorrere insieme. Per cui, individuato l’obiettivo, capire con loro perché fanno ciò che fanno, recuperare l’immagine di uomo e di donna cui stanno facendo riferimento e capire a quali domande stanno cercando di rispondere con il loro comportamento. Comincio a cercare di comprendere quale strategia possa essere più opportuna per catturare la loro attenzione ed aiutarci a condividere un piccolo viaggio.
In primis chiamo un mio amico sacerdote, visto che l’intervento si terrà in un oratorio con dei ragazzi adolescenti.
Ho bisogno di sgombrare il campo da alcuni fraintendimenti: infatti può capitare che, quando si cerca uno psicologo, si fatica a distinguere i piani cui possono fornire risposte passando dal piano umano e psicologico a quello spirituale trascendentale. Ma se questi ragazzi stanno sottovalutando il proprio valore arrivando anche a svendere l’immagine del proprio corpo, noi abbiamo bisogno di recuperare tutte le dimensioni del loro essere: fisica, psichica, intellettiva e spirituale, distinguendo anche coloro che si occuperanno di affrontarle.
Tutto questo è fondamentale, soprattutto quando si effettua un intervento in un contesto religioso, perché si corre il rischio di “sposare” l’implicito della domanda cui i ragazzi si opporranno fin da subito. Anni di catechismo hanno insegnato loro a costruirsi degli ottimi schemi difensivi a tutto ciò che viene detto e che può aver il retrogusto di una regola che piove dall’alto e porta con sé il sapore di una norma rigida.
Or bene, tutte le volte che dobbiamo lavorare con degli adolescenti dobbiamo ricordarci che per loro l’esperienza è fondamentale. Inoltre la loro è un’età critica nella quale il gruppo vince tutta la loro attenzione e a tratti diviene anche l’unico scopo per cui vivere. Pertanto abbiamo bisogno di coinvolgerli fin dall’inizio, rompendo gli schemi degli incontri cui loro sono abituati.
Ho bisogno di rendere evidente l’esperienza del pudore e dell’imbarazzo, per poterne parlare dopo, senza “offendere” o “ferire” la loro sensibilità. Così, decido di iniziare l’intervento presentandomi, come una psicologa e quindi “come una un po’ folle” che chiederà loro di fare una cosa apparentemente senza senso. Avrò bisogno della loro fiducia e di creare i presupposti legati alla curiosità.
I cinquanta ragazzi verranno disposti in cerchio, così da potersi vedere “faccia a faccia” tra loro, in questo modo sarò facilitata nell’individuare sia i leader del gruppo che i gregari, e poi uno alla volta dovranno fare una sfilata, ovvero a turno dovranno, attraverso una camminata che sceglieranno, esprimere un’emozione. Durante la sfilata nessuno potrà fare battute ed i modelli dovranno esprimere la loro emozione senza nessuna parola e in assenza di gesti particolari.
Sfilare davanti a coloro che conosciamo e con cui condividiamo buona parte del nostro tempo è un’esperienza che può far rivivere imbarazzo, timore, pudore. Sicuramente io dovrò iniziare la sfilata per prima, così da dare il via al gioco e, una volta finita la mia passeggiata, dovrò comprendere chi sono i leader del gruppo, così da chiamarne uno immediatamente dopo di me.
In questo modo l’attenzione dei ragazzi sarà catturata e si potrà dare il via alle danze.
In queste situazioni occorre preventivare facili trasformazioni al gioco iniziale, per stemperare emozioni legate all’imbarazzo che possono andarsi a creare: come il passare dietro il cerchio composto dai ragazzi e dare loro il via alla sfilata, attraverso il semplice tocco della spalla, dopo che per alcuni istanti nessuno di loro abbia il coraggio di chiamare uno dei compagni; così come il fornire loro la possibilità di, eccezionalmente, sfilare in due o tre, là dove la timidezza, impedirebbe loro di partecipare.
Occorrerà aiutare e sostenere i ragazzi favorendo la costruzione di un clima sereno, giocoso e non giudicante. Ogni tanto potrebbe essere utile alternare ai ragazzi i loro animatori e educatori e poi chiedere al mio amico sacerdote di partecipare anche lui.
A questo punto, senza troppe parole avremmo creato un’esperienza comune legata al sentirsi dinanzi agli occhi di tutti, tra timore del giudizio e il desiderio di piacere e potremmo passare agli stereotipi legati alle camminate, alle emozioni manifestate ed alle parti del corpo che avranno attirato maggiormente la nostra attenzione, per poter passare ad evidenziare alcuni paradossi legati alla maggiore sicurezza che regala il giocare a scambiarsi foto, immagini e video in rete, in antitesi con il mostrarsi con persone conosciute o con cui ci si trova dal vivo. In questo modo possiamo andare a sottolineare le differenze tra una comunicazione “vis a vi” ed una a distanza. Per quanto possa essere paradossale il secondo tipo di comunicazione sembra rispondere al bisogno di sicurezza, attraverso la distanza fisica, favorita dall’ausilio telematico. Così si può comunicare, senza troppo coinvolgimento intimo, di dimensioni più “discrete” e più profonde, vivendosi come “al sicuro”, a differenza di ciò che avviene in una comunicazione dal vivo, dove il potersi toccare, il vedersi in tempo reale, il sentire il suono della voce, il condividere lo stesso spazio fisico, ci espone nelle situazioni comunicative ad uno spazio relazionale intimo che può risvegliare il bisogno di difendersi.
Da parte mia avrò bisogno di lasciar vivere una profonda serenità comunicativa, non provare imbarazzo e non avere pregiudizi, altrimenti rischierò di sabotare il clima della serata e non sarà possibile giungere là dove desideriamo.
Dopo aver delucidato i vantaggi e gli svantaggi legati ad una comunicazione a distanza ed una dal vivo avremo bisogno di andare “a bomba” a scoprire cosa si cela dietro una condotta del genere. Perché ci si può svestire dinanzi ad una telecamera? Penso che mi lascerò aiutare dal video di Miley Cyrus, Wrecking Ball, i ragazzi lo conosceranno sicuramente ed il video è un misto di provocazione e nudo, scevro dal testo del brano che viene cantato. Potrebbe essere utile dividerli in piccoli gruppi e chiedere loro di individuare i tre messaggi che più li colpiscono del brano. In questo modo giungeranno loro stessi ad individuare la dissonanza tra testo e video. Per poter introdurre il passaggio legato al “che cosa comunica di sé” questo video, cosa aggiunge al messaggio comunicativo la nudità della protagonista e noi, entrando in intimità relazionale ed in un gioco seduttivo dinanzi alla telecamera, cosa stiamo comunicando? Cosa stiamo cercando? In fondo non sappiamo chi c’è al di là del video e non possiamo controllare cosa farà delle nostre immagini, non possiamo condividere lo spazio ed il tempo dell’eccitazione perché non abbiamo l’altro con noi.
Forse potrebbe essere utile qui lasciare poi la parola al Don, in modo che racconti lui dell’esperienza concreta con una ragazzina, figlia di suoi amici.
Sì, in questo modo potrà raccontare della sete di amicizia e di affetto di quella ragazza, del suo bisogno di evadere la sensazione di vuoto e di solitudine, attraverso le modalità già descritte.
In questo modo potremo accompagnare quei ragazzi a recuperare i loro spazi di solitudine, senza parlare direttamente di loro e sfruttare il momento fattosi “più intimo e caldo” per restituire loro uno sguardo anche un po’ spirituale. In fondo siamo fatti di carne, ma di una carne che non è solo istinto e pulsione, è una carne intelligente e sensibile, è una carne che rinasce dall’esperienza dell’incontro con Dio, un Dio capace di farsi sangue e corpo, un Dio capace di farsi nutrimento: quindi siamo un’anima con le vesti di carne.
Abbiamo quindi, tutti, un denominatore comune, ma il nostro, personale, numeratore, ci consente di essere unici ed originali.
A questo punto sarebbe bello chiudere con una bella metafora che consenta ad ognuno di prendere e portare con sé ciò di cui ha bisogno e lasciare il resto.
Ah! Mi stavo dimenticando, serve sempre uno spazio per le domande dei ragazzi, sia in chiusura del gruppo, davanti a tutti, che a posteriori, individualmente. Quindi dovrò ricordarmi di considerarmi occupata per almeno 45 minuti dalla fine dell’incontro, diversamente rischierò di negare con il mio modo di fare, scappando subito, tutto ciò che ho cercato di dire e vivere con loro: la comunicazione efficace porta a costruire un legame ed i legami hanno bisogno di tempo per crearsi e per sciogliersi, questo è il bello dell’intimità.
Ora sono pronta, chiamo Don Roberto: “Ciao Don, ci sono. Possiamo vederci mezz’oretta per capire se ciò che ho pensato per la serata può funzionare?”.
Rosa Il Grande
Versione app: 3.25.3 (26fb019)