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Invidia: il tormento dell'impotenza

Per l'invidioso vi è delusione anche quando fosse capace di condurre a compimento la propria strategia di distruzione. L'invidioso che distrugge impoverisce il mondo senza riuscire in alcun modo a valorizzare se stesso.


Invidia: il tormento dell'impotenza

da Quaderni Cannibali

del 19 gennaio 2011

 

 

Il tormento dell’impotenza

          L’esistenza è puntuazione di forza e come tale non solo tende a conservarsi ma riesce a conservarsi solo se è capace di espandersi. Nel contempo ogni puntuazione di forza è sempre una forza limitata.

 

 

          Da qui discende che il bisogno d’espansione genera insofferenza non solo nei confronti di quel che ci limita, ma anche rispetto al proprio limite. In questa dinamica risiedono le condizioni strutturali per l’impiantarsi dell’invidia. Ora, le condizioni strutturali a partire dalle quali prende avvio l’invidia sono in sé positive, e da esse si genera l’invidia, ma egualmente l’agonismo, la competizione che sono istanze di vita, sono sviluppo e crescita. In questo quadro l’invidia viene a configurarsi come un’alterazione di qualità strutturali positive e questo avviene, in genere, in tutte le passioni.

 

          A questo punto bisogna analizzare quali sono gli elementi che determinano un processo degenerativo nello svolgimento della potenza: in breve, per comprendere adeguatamente che cos’è l’invidia bisogna analizzare il contesto della sua genesi e i fattori che ne innescano la dinamica. Uno dei fattori per lo scatenarsi dell’invidia è l’impotenza sia come impotenza di fatto che come sentimento d’impotenza. L’impotenza rende impossibile o comunque difficile il giusto rapporto tra bisogno d’espansione e insofferenza del limite. L’insofferenza del limite è razionale solo in quanto è proporzionata all’effettiva capacità di espandersi. Proprio per questo la cognizione di sé è una condizione necessaria per orientare la propria crescita e per non trasformare l’insofferenza del limite in delirio di onnipotenza. C’è dunque impotenza laddove il grado della propria potenza non è sufficiente per attingere la meta del desiderio.

 

          Quel che infatti è desiderabile non è perciò stesso ottenibile. In questo caso si ha a che fare con uno stato naturale di impotenza di cui bisognerebbe prendere atto senza con ciò dover perdere la stima di sé. Se la meta è troppo alta per la propria forza vale la pena rinunciarvi e la rinuncia non è sconfitta, ma è misura, atto di ragione.

 

          Ma l’equilibrio razionale che proporziona il bisogno di sviluppo al limite non è facile da attingere e non solo perché non si è sempre nelle condizioni di valutare adeguatamente il peso della propria forza rispetto all’oggetto del desiderio, ma perché la rinuncia alla meta del desiderio è vissuta come sconfitta in confronto alla medesima meta attinta da altri. E ciò avviene perché gli uomini sono per lo più valutati per le mète che essi raggiungono e poco considerati per quello che in se stessi sono.

 

          A questo punto l’impotenza di fatto si tramuta in sentimento d’impotenza e in invidia dell’altro. L’invidia è quel sentimento che non sopporta il proprio limite naturale in forza di una ragione sociale, poiché è la società che decide del valore degli individui e assume come termine di valore proprio quegli individui che hanno successo. Questo accade prevalentemente nelle società contemporanee.

 

          Ogni individuo potrebbe forse accettare il proprio limite se il giudizio sociale non lo alterasse in un inevitabile confronto che, in taluni casi, se non è denigrazione, certamente viene a coincidere con l’irrilevanza. In queste condizioni il limite pesa e si fa intollerabile. Ma se l’invidia è tormento, a differenza di ogni altro vizio è un vizio che non dà piacere. Nell’invidia l’individuo logora se stesso senza alcun beneficio e si consuma nel desiderio inestinguibile della distruzione dell’altro. E quand’anche l’altro fosse distrutto, la soddisfazione non sarebbe egualmente raggiunta poiché la fine dell’altra non procurerebbe in alcun modo l’accrescimento di sé.

 

          Per l’invidioso vi è delusione anche quando fosse capace di condurre a compimento la propria strategia di distruzione. L’invidioso che distrugge impoverisce il mondo senza riuscire in alcun modo a valorizzare se stesso. In una società in cui l’ineguaglianza è assunta come un dato naturale e intrasformabile, si sarà indotti ad accettare più facilmente la supremazia dell’altro e perciò stesso sarà più facile tollerare il proprio limite.

 

          Non così, evidentemente, in una società in cui la diseguaglianza la si ritiene innaturale e ancor più prodotto del disordine e dell’iniquità sociale. Se si ritiene che la diseguaglianza è frutto del disordine sociale, si riescono a trovare buone ragioni per trasformare l’invidia in virtù travestendo il sentimento di distruzione dell’altro in istanza di giustizia.

 

Ancora una volta risulta vera la formula illuminista «vizi privati pubbliche virtù».

          Tutto ciò mostra come la santità dei principi abbia nascita bassa e quanto di «umano, troppo umano» sottendano gli ideali.

          Nietzsche contro Kant, anche se in taluni casi Kant torna così utile che bisogna prenderlo per vero. nella società antica la diseguaglianza tra gli uomini era un dato indiscutibile che da un lato consentiva la sottomissione, ma dall’altro favoriva l’ammirazione. Nietzsche alludeva proprio a questo secondo aspetto quando affermava che il mondo antico conosceva la capacità di venerare. La capacità di venerare, così come Nietzsche l’intende, è tutt’altro che passività e asservimento, ma scaturisce dal riconoscimento di ciò che è grande.           Ora, coloro che sono nelle condizioni di riconoscere ciò che è grande (e per questo venerano), non solo non limitano ciò che cresce ma cercano di adeguare, per quanto loro è possibile, la grandezza riconosciuta. Si capisce allora perché il riconoscimento di ciò che è grande, lungi dall’essere paralizzante, è incentivante, e assumere qualcuno a modello non significa per nulla subirne il giogo. Al contrario, solo se si elegge per sé un modello si è capaci di realizzare sé come forma. Solo chi non riconosce subisce, ed è proprio del servo identificarsi e insieme maledire.

 

          Chi riconosce la grandezza si fa diverso proprio in grazia del riconoscimento, e nella distanza cresce. La capacità di venerare resta comunque un modo possibile di concepire, e tutto ciò è magnificamente espresso da Goethe quando nel suo romanzo Le affinità elettive scrive: «Contro la grande superiorità di un altro non c’è mezzo di salvezza all’infuori dell’amore». E proprio per questo può, per converso, affermare: «Nessuno è più schiavo di chi si ritiene libero senza esserlo».

 

          Lo Stato moderno nasce all’insegna dell’eguaglianza che garantisce nel diritto e promuove nel fatto. Ora, per quanto gli uomini siano diversi in forza e ricchezza, sono comunque da ritenersi uguali quanto meno in base alla comune cittadinanza. In tale frangente non si è facilmente disposti a concedere credito agli altri e ad approvarne il successo come conseguenza del merito.

 

          Nella logica dell’eguaglianza diviene normale chiedersi: quali sono i suoi meriti perché ottenga quei benefici che io non possiedo? La prossimità favorisce l’invidia e, difficilmente, si invidia chi è troppo lontano da noi. L’invidia – si è detto – è il tormento dell’impotenza che si consuma in se stessa e che desidera costantemente la distruzione di colui che viene invidiato. In questo senso, l’invidia ha effettivamente a che fare con il non videre nel doppio significato che non sopporta la visione della gloria dell’altro, ma anche nel senso che l’altro, a cagione del suo successo, gli risulta inviso vale a dire odioso. In breve, ciò di cui non si sopporta la vista deve scomparire e deve scomparire nel senso realissimo d’essere distrutto. La tradizione metaforizza perfettamente l’invidia quando la rappresenta nella forma dell’accecamento e del livore.

 

L’invidia, in quanto tende a sminuire, non sa godere di ciò che riesce.

          A questo punto vale la pena ricordare quella parabola del Vangelo di Matteo in cui si narra di quei vignaioli della prima ora che si lamentano con il padrone del campo perché sono stati pagati allo stesso prezzo di quelli giunti all’ultima ora. A uno di essi il padrone risponde: «Voglio dare anche a quest’ultimo quanto ho dato a te. O non mi è permesso di fare quello che voglio della mia roba? O il tuo occhio è invidioso perché io sono buono?» (Matteo 20, 14-15). Bisogna allontanare da noi ogni invidia non foss’altro per l’egoistica ragione di poter fruire dei benefici comuni che quel che è buono ed eccellente di per sé dispensa. Chi ha risentimento non solo non possiede la virtù che dona, ma si impedisce di beneficiare dei doni della virtù. In tutto ciò che riesce vi è sempre qualcosa di eccedente e di gratuito e, a suo modo, d’imponderabile. In fondo non bisogna dimenticare che ogni bellezza è grazia e se qualcuno si avvantaggia sugli altri senza che ciò divenga ragione per privare gli altri di quel che a essi conviene, ciò non può che ridondare a beneficio di tutti. 

 

Salvatore Natoli

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