Nell'Anno della fede occorre sviluppare l'orientamento di fondo ponendo al centro la questione di Dio e la questione di Cristo. Con questo semplice “Io sono” il Dio di Israele si contrappone agli dei, dimostrandosi come colui che è, al contrario di coloro che sono caduti e passano...
«In tutto il divenire e il passare, egli “è”. Questo “è” di Dio, che rimane come colui che è stabile al disopra di ogni inconsistenza del divenire, ovviamente pronunciato senza alcuna correlazione. Egli, piuttosto, è al contempo colui che si fa garante; egli c’è per noi, e a partire dal suo stare saldo dà stabilità a noi nella nostra instabilità. Il Dio che c'è, è al contempo colui che è con noi, non è solo Dio in sé, ma è il nostro Dio, il Dio dei padri…
La formula che in ebraico sembra dire misteriosamente solo “io-lui”, è stata tradotta in greco, in maniera certo oggettivamente esatta, con “Io sono” (egò eimi). Con questo semplice “Io sono” il Dio di Israele si contrappone agli dei, dimostrandosi come colui che è, al contrario di coloro che sono caduti e passano… Di conseguenza, il nome Jahwè, il cui significato viene così attualizzato, si apre la via ad un ulteriore passo verso l’idea di colui che ‘è’ pur in mezzo alla caducità delle apparenze a cui non spetta stabilità alcuna. Facciamo ancora un passo avanti, che ci porta ora nel Nuovo Testamento. Qui ritroviamo, infatti, la linea che tende sempre più a pensare Dio alla luce dell’essere, interpretando Dio col semplice “Io sono”; la ritroviamo nel Vangelo di Giovanni, cioè nell’ultimo interprete della fede in Gesù, che guarda retrospettivamente alla Bibbia e che per noi cristiani rappresenta al contempo l’ultimo passo compiuto dal movimento biblico sulla via dell’autointepretazione. Nel suo pensiero, Giovanni si ricollega proprio alla letteratura sapienziale e al Deutero – Isaia, e non può essere compreso se non su tale sfondo. Egli eleva l’“Io sono” di Isaia a formula centrale della sua fede in Dio. Ma lo fa trasformandolo in formula centrale della sua cristologia: passaggio, questo, decisivo per quanto riguarda l’idea di Dio, sia per quanto concerne l’immagine di Cristo. Quella formula, che echeggia per la prima volta nella scena del roveto ardente, che poi, sul finire dell’esilio, diventa espressione di speranza e di certezza di fronte al crollo degli dèi e mostra il permanere di Jahwè su tutte queste potenze., la si incontra ora anche qui al centro della fede in Dio, ma in quanto diviene testimonianza in favore di Gesù di Nazareth. L’importanza di questo processo appare chiarissima quando si tenga presente che Giovanni riprende, in maniera davvero sorprendente come nessun autore neotestamentario ha mai fatto prima di lui, il nucleo centrale del racconto biblico sul roveto ardente: l’idea del nome di Dio. Il pensiero che Dio comunichi il suo nome, che Dio possa essere chiamato con un nome, con l’“Io sono” si pone al centro della sua testimonianza. In Giovanni, Cristo viene messo in parallelo con Mosè anche sotto questo aspetto; l’evangelista lo descrive come colui nel quale l’episodio del roveto ardente raggiunge il suo vero significato. L’intero capitolo 17, che costituisce la cosiddetta ‘preghiera sacerdotale’ e forse il brano centrale di tutto il suo vangelo, ruota attorno al pensiero di Gesù ‘rivelatore del nome di Dio’, formando così il contrapposto neotestamentario del racconto del roveto. Nei vv. 6,11,12,26, ritorna come un ritornello il motivo del nome di Dio. Scegliamo solo i due versetti principali: “Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dati, scelti di mezzo al mondo” (v. 6). “Ho fatto conoscere a loro il tuo nome e lo farò conoscere ancora, affinché l’amore col quale hai amato me, sia in essi ed io in loro” (v.26). Qui Cristo stesso ci appare, per così dire, come il roveto ardente, dal quale proviene agli uomini il nome di Dio. Mentre, però, nella visione del quarto vangelo, Gesù applica a sé l’“Io sono”, unificato da Es 3 e Is 43, risulta al contempo evidente che egli stesso è il ‘nome’, ossia la possibilità di invocare Dio. L’idea del nome entra qui in uno stadio decisamente nuovo. Il ‘nome’ ora non è più una mera parola, ma una persona: Gesù stesso. La cristologia, e rispettivamente la fede in Gesù, vengono pertanto elevate integralmente ad interpretazione del nome di Dio e di ciò che esso intende… Dopo tutte le considerazioni fatte, dobbiamo ora, alla fine, chiederci, in modo del tutto generale propriamente, che cos’è un nome? E quale senso ha parlare di un nome di Dio?... Innanzitutto possiamo dire che esiste una fondamentale differenza fra l’intenzione perseguita da un concetto e quella perseguita dal nome. Il concetto mira a conoscere l’essenza di una cosa, comprendendola com’è in se stessa. Il nome invece non si fa questione dell’essenza della cosa, così come essa sussiste indipendentemente da me, ma è finalizzata a rende la cosa nominabile, ossia appellabile, e ad allacciare una relazione con essa. Anche qui, certo, il nome deve cogliere la cosa stessa, ma allo scopo che essa entri in rapporto con me, divenendomi così accessibile. Chiamiamo con un esempio: quando io so che qualcuno entra nel concetto di ‘uomo’, ciò non è ancora sufficiente per instaurare una relazione con lui. Soltanto il nome lo rende nominabile; tramite il nome, l’altro è entrato, per così dire, a far parte del mio prossimo, io lo posso chiamare. Come si vede, il nome significa e realizza l’inserimento sociale, l’inserimento nella struttura delle relazioni sociali. Chi viene considerato come un semplice numero è estromesso dalla struttura relazionale della fraternità umana. Il nome, invece, fonda proprio la relazione inter-umana. Esso dà a un essere la possibilità di essere chiamato, dalla quale nasce la con-esistenza con colui che ti chiama per nome. Da questo dovrebbe apparire chiaro che cosa intende la fede veterotestamentaria allorché parla di un nome di Dio. Essa persegue con ciò qualcosa di ben diverso dallo scopo che si prefigge il filosofo quando cerca il concetto dell’essere supremo. Il concetto è un risultato del pensiero che mira a sapere come sia l’essere supremo in se stesso. Non così il nome. Allorché Dio, secondo l’autocomprensione della fede, si denomina, non esprime tanto la sua essenza intima, ma si rende piuttosto nominabile, si abbandona agli uomini al punto che essi lo possono chiamare (pregare). E facendo questo, egli entra in con-esistenza con gli uomini, lasciandosi da essi raggiungere, egli c’è per loro. In questo, però, consiste anche l’approccio a partire dal quale dovrebbe risultare chiaro perché Giovanni ci presenti il Signore Gesù Cristo come reale e vivo nome di Dio. In lui, infatti, si è adempiuto ciò che una semplice parola, in ultima analisi, non avrebbe mai potuto realizzare. In lui il senso del discorso sul nome di Dio ha raggiunto il suo scopo e ha conseguito il suo fine anche tutto ciò che si è sempre inteso e voluto con il nome di Dio. In lui – ecco ciò che vuol esprimere l’evangelista con questa idea – Dio si è fatto realmente colui che si può chiamare. In lui Dio è entrato per sempre nella coesistenza con noi: il nome non è più soltanto una parola a cui ci aggrappiamo, ma è divenuto carne della nostra carne, ossa delle nostre ossa. Dio è uno dei nostri. Così, ciò che era anticipato sin dalla scena del roveto con l’idea del nome, si compie veramente in colui il quale in quanto Dio è uomo e in quanto uomo è Dio. Dio è divenuto uno di noi, e in tal modo veramente nominabile e nostro compagno di esistenza. Se cerchiamo di dare uno sguardo panoramico al tutto, emerge che nel concetto biblico di Dio resiste pur sempre una duplice componente. - Da un lato sta l’elemento della dimensione personale, della vicinanza, dell’essere invocabile, dell’auto-concedersi, che trova sintesi nel nome dato, si annuncia già prima nell’idea di “Dio dei padri, di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”, e si concentra più tardi in quella di “Dio di Gesù Cristo”. Si tratta sempre del Dio di uomini, del Dio caratterizzato da un volto, del Dio personale, su di lui si sono polarizzati il riferimento iniziale, la scelta e la decisione della fede dei padri, a partire dalla quale una via in realtà lunga, ma diretta, avrebbe condotto al Dio di Gesù Cristo. - Dall’altro lato sta il fatto che questa vicinanza, questa accessibilità, costituisce un libero dono di ciò che sta al di sopra dello spazio e del tempo, che non è vincolato a nulla, mentre tutto vincola a sé. La componente della potenza non soggetta al tempo è una caratteristica di questo Dio, essa si concentra sempre più incisivamente nell’idea dell’essere, dell’enigmatico quanto profondo “Io sono”. Facendo leva su questo secondo elemento Israele ha sempre chiaramente cercato, nel volgere dei tempi, di trasmettere ai popoli la diversità della sua peculiare fede. Ha contrapposto l’’è’ di Dio al divenire e al passare del mondo e dei suoi dèi: dèi della terra, della fertilità, della nazione. Esso ha opposto agli dèi particolari il Dio del cielo, che sta al di sopra di tutto, al quale tutto appartiene e che non appartiene a nessuno. Ha sempre accanitamente sostenuto che il suo Dio non è un Dio nazionale d’Israele, alla maniera in cui ogni popolo possedeva la propria divinità. Israele ha sempre sostenuto di non avere alcun dio privato, ma di venerare soltanto il Dio di tutti e di tutto; ha sempre nutrito la convinzione che solo così è possibile adorare il vero Dio. Si ha veramente Dio soltanto quando non si possiede alcun dio privato, ma ci si affida unicamente al Dio che è ugualmente il Dio dell’altro e il mio Dio, perché ambedue apparteniamo a lui. Il paradosso della fede biblica di Dio sta proprio nel legame e nell’unità dei due elementi così descritti, ossia nel credere che l’Essere è persona e la persona è l’Essere, che solo colui che è nascosto è il totalmente vicino, che solo l’inaccessibile è l’accessibile, che l’Uno è l’Unico, il quale è per tutto e per il quale tutti sono» [Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, pp.120-127, Brescia 2007].
Don Gino Oliosi
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