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Io sono (l’)altro

Bellissima invenzione, lo specchio. Senza specchio non riusciremmo a guardarci così limpidamente, non sapremmo come siamo fatti, di che colore sono i nostri occhi.


Io sono (l’)altro

di Anita Marton

 

Bellissima invenzione, lo specchio. Senza specchio non riusciremmo a guardarci così limpidamente, non sapremmo come siamo fatti, di che colore sono i nostri occhi. Ci riconosciamo in quel riflesso, capiamo che “l’altro” davanti a noi è un’immagine della nostra persona. “Chi è quel bel bambino?”, chiedono le madri ai propri figli. Quelli si indicano e sussurrano un timido “Sono io”. Sono io, quello sullo specchio.

 

Sì, ma oltre, cosa c’è? Può una persona essere solamente l’immagine che viene riflessa da un pezzo di vetro? No, no di certo, questo lo sappiamo tutti. Eppure ogni volta, pur consapevoli di quel mondo che ci portiamo dentro, di quello che siamo oltre a quello che appariamo ( e guai se qualcuno ci dice il contrario), facciamo difficoltà a vedere questo tutto nell’altro. Le fatiche, i sogni, le emozioni, le ambizioni di chi ci troviamo di fronte non esistono. Vediamo solo la scorza, i suoi vestiti, e ci sembrano dannatamente migliori dei nostri, o drasticamente e miseramente stracciati, logori, inutili.

 

Nel mondo greco, molte delle persone cieche avevano doti soprannaturali. L’indovino dell’Odissea, Tiresia, in grado di pre-vedere il futuro; il cantore Demodoco alla corte dei Feaci, che racconta con straordinaria maestria le vicende della recente guerra di Troia, diventando così custode della memoria del popolo. Capacità di vedere oltre e di ricordare la storia propria e degli altri. Eppure ciechi. È straordinario: nonostante vengano privati della vista, sono coloro a cui molti si affidano per conoscere, per sapere, per guardare oltre. Questo sguardo diverso è proprio quello che ci manca. Più il mondo si rimpicciolisce, più le distanze tra noi e gli altri aumentano, diventando infinite, eterne, quasi vivessimo in due universi separati. Io e la mia vicina di casa, io e la signora delle pulizie, io e il professore, io e quel bambino che gioca in strada. Le vite degli altri ci sembrano sempre così perfette o così miserabili, ci basta una sola occhiata per giudicare, o ti elogio o ti condanno. Cosa penso io, però, non è quello che l’altro mi racconta con la sua vita, con le sue parole, i suoi occhi parlano più di mille specchi. Pregiudizio è ciò che io penso e ritengo vero ancor prima di avere la possibilità concreta di giudicare, di conoscere bene le cose, la realtà. È quello che ho nella mia mente prima di poter parlare, di poter conoscere; prima che qualcuno, prima che tu mi racconti quello che hai passato. Prima di ridere con te, abbracciarti e sentire, in fin dei conti, che non siamo poi così lontani.

 

Ci vediamo troppo bene e troppo ci guardiamo allo specchio. Avessimo l’umiltà di metterci da parte per un istante e guardare e vedere l’altro! Niccolò Fabi, nel suo disco uscito da poco, “Tradizione e Tradimento”, canta una poesia dedicata a tutti. Che tutti interroga, che a tutti dice qualcosa, smuove una consapevolezza, una coscienza. Ci svela essere persone di fronte ad altre persone, e  non a piatti specchi vuoti. Noi – e dico me, te, e ciascun essere umano – siamo l’altro di chi ci guarda, e chissà cosa pensa. Eppure, siamo tutti così uguali, così preziosamente diversi. “Io sono l’altro, dice,  puoi trovarmi nello specchio, la tua immagine riflessa. Sono quello che hanno assunto quando ti hanno licenziato. Quello che dorme sui cartoni alla stazione, sono il nero sul barcone. Sono il donatore che aspettavi per il tuo trapianto. Sono il chirurgo che ti opera domani. Quelli che vedi sono solo i miei vestiti. Adesso facci un giro e poi mi dici.”

 

Che lo vogliamo o no, le vite di tutti noi sono avvinghiate in un enorme gomitolo di relazioni. Ci troviamo a vivere in un mondo pieno di vita e di vite, amore e dolore, la sofferenza e la gioia convivono nelle nostre strade. Possiamo avvicinarci agli altri, siamo chiamati a farlo. Possiamo riscoprire l’empatia, che vuol dire entrare dentro il sentimento dell’altro, sentirlo sulla propria pelle, e la simpatia nel suo significato più letterale, cioè condividere e vivere insieme quell’emozione. Metterci, insomma, nelle scarpe degli altri, come dicono gli inglesi, nei loro panni. Poi c’è solo chi questo groviglio non lo vuole vedere e si copre gli occhi.

 

E chi invece, in questo mare tempestoso di fili, ci ha visto un magnifico arazzo.

 


 

 

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