Kenya, siccità che uccide

Fame è la parola che viaggia lungo queste piste di sassi, bruciate da temperature che superano i quaranta gradi; una miseria e una carestia che affliggono le sterminate province del Nord-Est del Kenya, dove i cespugli di rovi rotolano fino a quando non è la carcassa di un animale a fermarli.

Kenya, siccità che uccide

da Attualità

del 17 novembre 2009

 

Qui ci sono scorpioni neri come la pece e lunghi come il palmo di una mano adulta: basta una staffilata del loro aculeo per fare collassare il cuore. Il sibilo della "paffada", la vipera del deserto, corta e larga come un avambraccio palestrato, fa paura, e il suo veleno non perdona. Questo è il loro ambiente naturale dove tutto, o quasi, appare ostile, difficile e troppo caldo, senza la benedizione di un poco d’ombra. Un avamposto conosciuto da tutti come mlango ya jangwa, in swahili, la porta del deserto.

 

Si trova nel distretto di Samburu, dal nome del principale gruppo etnico che lo popola, trecento chilometri a Nord di Nairobi, cinque ore e mezzo di automobile, dopo la cittadina di Isiolo (30mila abitanti). La zona è abitata da pastori di varie tribù; nessuna che vada d’accordo con le altre: Samburu, Borana,Turkana, Ndorobo. Ancora di più adesso, quando il morso della crisi ha fatto impennare il costo della vita. Un esempio viene dal prezzo della farina, che in meno di un anno è passato da circa 40 centesimi al chilo a più di 1,20 euro. Cifre da capogiro per chi non ha redditi garantiti e vive di scambi.

 

È il fulcro di una difficile situazione alimentare, di un più vasto dramma che ancora una volta affligge la parte orientale del continente. Il Corno d’Africa è infatti investito da una sofferenza dovuta principalmente alla scarsità delle piogge, che in questi anni ha impedito la regolarità delle coltivazioni, bruciate dal sole e che, soprattutto, ha tolto la garanzia dei pascoli per le mandrie: la vera ricchezza, la "moneta" di queste popolazioni.

 

L’emergenza è connessa a responsabilità politiche, per la mancanza di interventi e per via la diffusa corruzione nella gestione delle risorse, come l’acqua dei pozzi, e delle riserve alimentari. È accaduto recentemente, con lo scandalo delle granaglie delle riserve nazionali, che sarebbero state vendute sottobanco al Sud Sudan.

 

La scarsità di acqua è il dramma all’origine della carestia, ma pure alla base di molti problemi legati alla salute. Diffusione del colera, del tifo. E con conseguenze anche per i tantissimi africani malati di Aids e malaria. Non solo in luoghi sperduti come i distretti di una lontana periferia del Nord, ma anche nelle baraccopoli della capitale Nairobi si segnala l’allarme: l’acqua sana è una risorsa che, semplicemente, non c’è.

 

Il distretto di Samburu è un deserto popolato da qualche decina di migliaia di individui, e, come lo scorpione e la vipera, implacabile si fa sempre più arido nel suo prolungarsi verso sud. Eppure, non sono lo scorpione o la vipera gli elementi della natura temuti dai nomadi, dai pastori e da qualche raro coltivatore, che in queste lande desolate sono armati di lance e di un manganello di legno detto rungu, ma ormai sempre più spesso anche di armi automatiche, visto il proliferare del contrabbando con la vicina Somalia. Una capra è il prezzo di un Kalashnikov.

 

La fame aumenta le difficoltà e incita allo scontro. A imperversare adesso è la moria del bestiame, dal quale dipende la sopravvivenza del gruppo. Così aumentano le scorrerie delle tribù rivali, che si concludono con terribili stragi, per impossessarsi dei capi con cui sostituire quelli che sono stati decimati dagli stenti. Una crisi, questa, che alimenta la ricerca della supremazia sul territorio, che aumenta le violenze tra clan, in cui rimangono vittime donne e bambini, per il controllo dei pozzi, dai quali peraltro si estrae acqua acida e marrone.

 

Pecore e capre, vacche e cammelli sono la dotazione necessaria anche per i riti e i grandi passaggi dell’esistenza, le credenze religiose e la tradizione della vita nomade. Gli animali servono per le cerimonie, le nascite, le doti matrimoniali, i funerali. Senza di essi non si può sostenere l’intero sistema sociale. Oltre, ovviamente, a costituire il nutrimento principale per queste persone. E non solo la carne, ma il sangue, che viene cavato dalla vena giugulare e poi mescolato con il latte o il burro. Ma il bestiame giorno dopo giorno si riduce a pelle e ossa, striscia, muore. Perché non ci sono pascoli.

 

Se il grande cielo blu che tutti sovrasta, quasi un oceano di acqua limpida, non si aprirà come una cascata di fertilità – e sono già cinque anni che qui, due gradi sopra l’Equatore, non piove regolarmente – il dominio su queste terre ancora una volta passerà alla falce della morte. Se ora si accanisce sulle mandrie, tra poco andrà a colpire i più deboli, i bambini, e poi le loro madri. Agli uomini sarà invece riservata la macabra opportunità di essere gli ultimi testimoni dello sterminio della loro stirpe, se la pioggia, e gli aiuti, non raggiungeranno per tempo il più sperduto avamposto.

 

Anche gli animali selvatici, zebre e antilopi, che non sono riusciti a migrare in Etiopia, si sono divisi in piccoli gruppi nella ricerca solitaria di un pascolo. I segni di questa terribile arsura sono evidenti, li hanno lasciati gli elefanti che hanno abbattuto, sradicato o scorticato le acacie per strappare con la proboscide ciocche di foglie spinose.

 

Eppure, questa è una terra fertile, grassa. Prima delle mutazioni climatiche di questi tribolati anni del pianeta Terra, quando qui pioveva con regolarità, le sementi gettate anche a casaccio, i semi dei frutti come la papaya e il mango buttati via, sbocciavano e crescevano rigogliosi senza nemmeno bisogno della mano dell’uomo.

 

Adesso sarebbe la stagione delle piccole piogge. Tra novembre e dicembre, l’acqua caduta avrebbe dovuto garantire non solo un primo raccolto di fagioli e mais, ma anche i pascoli per le mandrie, così poter arrivare con le risorse giuste, e la pancia piena, fino alla stagione delle grandi piogge, nel mese di marzo. Ma il ritmo noto della natura non esiste, se non nel ricordo di un passato raccontato dagli anziani con gli occhi gonfi di nostalgia.

 

Fame è la parola che viaggia lungo queste piste di sassi, bruciate da temperature che superano i quaranta gradi; una miseria e una carestia che affliggono le sterminate province del Nord-Est del Kenya, dove i cespugli di rovi rotolano fino a quando non è la carcassa di un animale a fermarli. Perfino la "nave del deserto" si è arenata nel distretto di Samburu, pure i cammelli non ce l’hanno fatta e sono morti.

 

Claudio Monici

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