L'adolescenza: età del malessere

Ecco, sono arrivato a quello che ‚Äì a mio parere ‚Äì è il punto: ai ragazzi d'oggi manca una essenziale paternità, la percezione di essere amati, stimati, non lasciati soli ed a se stessi nella ricerca di un significato per la loro esistenza, mancano loro adulti accoglienti e capaci di coinvolgersi autorevolmente in una relazione educativa...

L’adolescenza: età del malessere

da Quaderni Cannibali

del 10 novembre 2009

 

Ogni uomo nasce nuovo: ho deciso di riassumere in queste poche parole l’impressione fondamentale lasciata in me dalla lettura d’insieme dei grafici rappresentativi delle risposte date al questionario.  Se l’animo ed il cuore di un giovane fossero esclusivamente la risultante dei condizionamenti che subisce dal contesto culturale di un’epoca, del tempo e dell’ambiente in cui vive, difficilmente potremmo aspettarci di trovare tracce di speranza e di aspettativa positiva nella generazione degli adolescenti odierni.

 

 

 

Il nostro è infatti un tempo terribile, di incertezza valoriale, di confusione, di aridità ideale e relazionale. La comunicazione mediatica insiste, oscillando da un estremo all’altro, da un lato su una rappresentazione assurda - avvallata da raccapriccianti fatti di cronaca -  e dall’altro su una rappresentazione frivola ed effimera - quale emerge nei programmi di intrattenimento - della nostra società.

 

Siamo tutti figli del nostro tempo e ne subiamo quindi inevitabilmente il “clima” ma mi sembra di poter dire - stando ormai da oltre venti anni in mezzo ai ragazzi – che nella natura umana c’è una sorta di purezza nativa, una nativa esigenza di felicità che fa muovere un giovane, che lo rende in qualche modo sempre “uguale”,  amante della vita, ricercatore instancabile di soddisfazione, inquieto e non rassegnato di fronte ai tanti inviti alla saturazione dell’assurdo che il mondo offre.

 

Entrare in una classe significa per me sempre innanzitutto percepire tutta la domanda, la ricerca, l’aspettativa di felicità che nei ragazzi  si esprime in modi tendenti a rimanere immutati nel tempo e la vitalità, l’allegria, la simpatia, fino alla ribellione ed all’aggressività, ne sono diverse ma conseguenti manifestazioni.

 

L’adolescenza è l’età del malessere fondamentalmente perché non si è ancora chiusa nel cassetto l’esigenza di una soddisfazione profonda alle esigenze che si scoprono nel proprio essere: vita, amore, amicizia, felicità, libertà, bene. E’ l’età del malessere perché un’alba e un tramonto, un sorriso o una chiusura,  un innamoramento e un dolore, una musica, una canzone, una poesia destano emozioni e pensieri che non ci si è ancora abituati a trascurare , a considerare inutili o “economicamente irrilevanti”.

 

In un componimento di una ragazza di terza liceo ho trovato questa affermazione: È vero che dovrei seguire il mio cuore,  ma è anche vero che questo cuore devo proteggerlo. Essa, dettata originariamente da una paura, svela una verità importante. Seguire il cuore, infatti, può immediatamente significare per un ragazzo assecondarne – soprattutto in un contesto problematico come quello odierno – le paure e la facilità ad una visione rassegnata, rinunciataria, negativa dell’esistente.

 

Il giovane percepisce invece che l’esigenza fondamentale della sua vita è un’irrinunciabile tensione e desiderio verso la felicità: proteggere il cuore significa non permettere che questo impeto naturale della giovinezza sia deluso e travolto.

 

Oggi c’è la possibilità che rinasca un senso di serietà verso la propria vita proprio dall’esperienza della noia, dell’insoddisfazione, dell’insopportabilità esistenziale a cui conduce ogni immaginazione ed ogni pratica della felicità che nasce da un’istintiva ed egoistica  affermazione di se stessi. Occorre avere ben chiaro il legame tra la situazione giovanile attuale e la fine degli anni Sessanta.

 

Dopo la bruciante esperienza dell’impossibilità di incidere, nell’arco breve dell’esistenza, sui meccanismi che dominano la vita privata e collettiva, i giovani hanno cercato una felicità possibile, a portata di mano, evitando così di dilazionare i tempi di una partecipazione personale al mondo perfetto. Da qui l’egoismo dilagante, la ricerca costante di un divertimento senza limite, la banalizzazione di qualsiasi ideale che implichi il sacrificio di una soddisfazione immediata.

 

Oggi siamo al termine di questo processo, poiché i giovani sono evidentemente nauseati della loro vita così concepita ed attuata. Il rischio è la disperazione assoluta: non è possibile alcuna felicità, né ideale né reale. Essa può anche esprimersi nelle forme dell’apatia, dell’indifferenza, dell’isolamento nella propria stanza, di una sorta di assenza perenne dalla realtà concreta, di chiusura del ragazzo in se stesso e nell’assolutizzazione dei propri pensieri. Non si può tornare alla vecchia strada politica, non tiene il perseguire in una ricerca sempre nuova di qualsiasi facile piacere e divertimento.

 

Questo contesto rende i ragazzi disponibili alle proposte, non ideologizzati e tendenzialmente aperti ad una seria dimensione religiosa e politica. L’adulto che ha una proposta è colui che a sua volta è disponibile alla proposta, vulnerabile alla grande ipotesi: la vita vale la pena di essere vissuta. Accade allora che il ragazzo si metta in gioco, riprenda in mano le esigenze profonde della propria natura, non tradisca l’attrattiva dei propri sogni, dei propri desideri e delle proprie speranze che – contrariamente a quanto dice una famosa canzone – non sono fumo[1].

 

La paura, la non accettazione, la mancanza di volontà nel perseguire e sperimentare le proposte offerte loro: questo è il punto debole, il rischio dei ragazzi di oggi. Quante volte li ho visti percepire l’aprirsi di un orizzonte di senso, di impegno vero della propria esistenza e subito dopo rinunciare a questa possibilità, ritrarsi nel solito mondo che non li soddisfa, accettare il compromesso di una quotidianità sicura rispetto all’avventura dell’ignoto. Per paura, per comodità, perché la strada alternativa verso il vero, anche se luminosa, appare di fatto la più tortuosa, viene percepita come la scelta più impegnativa…

 

La libertà, intesa come capacità di aderire, di volere ciò che si è presentito come vero e come bene per sé: in questo cammino presentiamo di doverli accompagnare, di non poterli lasciare soli, con la percezione che si tratti di un percorso troppo difficile e arduo rispetto alle proprie forze, affinché tra le sagome confuse delle cose possano individuare ciò che il cuore attende.

 

Nella poesia Fine dell’infanzia[2] Montale descrive bene il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza. Alla prima si riferiscono i seguenti versi:

 

Ogni attimo bruciava

negl’istanti futuri senza tracce.

Vivere era ventura troppo nuova

ora per ora, e ne batteva il cuore.

Norma non v’era,

solco fisso, confronto,

a sceverare gioia da tristezza.

Ma riaddotti dai viottoli

alla casa sul mare, al chiuso asilo

della nostra stupita fanciullezza,

rapido rispondeva

a ogni moto dell’anima un consenso

esterno, si vestivano di nomi

le cose, il nostro mondo aveva un centro.

Eravamo nell’età verginale

in cui le nubi non sono cifre o sigle

ma le belle sorelle che si guardano viaggiare.

D’altra semenza uscita

d’altra linfa nutrita

che non la nostra, debole, pareva la natura.

In lei l’asilo, in lei

l’estatico affisare; ella il portento

cui non sognava, o a pena, di raggiungere

l’anima nostra confusa.

Eravamo nell’età illusa.

 

A questa età di spensieratezza e di sicurezza seguono le inquietudini del bambino che sta crescendo:

 

Volarono anni corti come giorni,

sommerse ogni certezza un mare florido

e vorace che dava ormai l’aspetto

dubbioso dei tremanti tamarischi.

Un’alba dové sorgere che un rigo

di luce su la soglia

forbita ci annunziava come un’acqua;

e noi certo corremmo

ad aprire la porta

stridula sulla ghiaia del giardino.

L’inganno ci fu palese.

Pesanti nubi sul torbato mare

che ci bolliva in faccia, tosto apparvero.

Era in aria l’attesa

di un procelloso evento.

Strania anch’essa la plaga

dell’infanzia che esplora

un segnato cortile come un mondo!

Giungeva anche per noi l’ora che indaga.

La fanciullezza era morta in un giro a tondo.

 

Il sopraggiungere dell’adolescenza è paragonato ad un imminente temporale, ad un procelloso evento: giunge «l’ora che indaga», quando le certezze vengono messe alla prova ed il ragazzo deve entrare nella vita, acquisendo personalmente le ragioni delle sue scelte e della sua avventura umana. È inevitabile che voglia camminare con le sue gambe, che non accetti più di essere governato da altri. Nei genitori egli identifica il legame principale che sinora l’ha costituito e che – nella forma della dipendenza – deve essere sciolto.

 

L’educazione di un giovane consiste essenzialmente nel trasmettergli dei criteri ideali, dei valori, dei punti di riferimento grandi con cui egli possa affrontare il cammino della sua esistenza – affettività, studio o lavoro, acquisizione della cittadinanza attiva e quindi partecipazione alla vita della polis – e su cui possa poggiare concreti comportamenti, lasciando alla sua responsabilità e maturità il rischio delle decisioni e delle scelte. Rischiamo tutti di fare invece esattamente il contrario: tanto meno sappiamo autenticamente e ragionevolmente comunicare principi ideali e di valore, quanto più pretendiamo di imporre al ragazzo comportamenti prescrittivi, regolamenti, norme di condotta.

 

Il giovane inevitabilmente si ribella: il cammino di ognuno è assolutamente personale e nessuno può imporre scelte e comportamenti in nome di astratte e generiche convenzioni sociali. Dentro questa contraddizione sta gran parte della radice del disagio e della confusione dei ragazzi.

 

In sintesi io intendo esprimere un’altra visione dei ragazzi da quella del bullismo, una visione in positivo, all’interno della quale collocare e capire anche quel insieme di avvenimenti e di comportamenti di tanti giovani che vengono etichettati con quella brutta parola.

 

Riassumo alcuni aspetti, secondo me emergenti dalla lettura del questionario, aspetti dei ragazzi di questo tempo (tutti hanno avuto 18 anni ma il contesto storico rende sempre diversa una comune esperienza: non voglio parlare dell’adolescenza in generale ma di questa generazione, della condizione dell’adolescente in questo nostro tempo). Inizio citando un testo di Galimberti: un libro sui giovani, perché i giovani - anche se non sempre ne sono consci - stanno male. La condizione giovanile oggi è una condizione di sofferenza, stanno male perché un ospite inquietante - il nichilismo - si aggira tra loro. Il disagio non è esistenziale ma culturale.[3]

 

La percezione di una invasiva crisi morale e valoriale non è più l’eccezione alla regola ma è essa stessa regola nella nostra società. Lo dico ancora con le parole di E. Sabato: la prima tragedia che deve essere urgentemente affrontata è la perdita del valore di se stesso che sente l’uomo.[4]

Il presente viene assolutizzato, perché il futuro fa paura e ci si sente totalmente impotenti a cambiarne il corso:

 

L’indifferenza

Lo sguardo indifferente

della gente a me

interessa niente.

Guardo fisso e penso al presente

al futuro ci pensa già la gente[5]

 

 

Lo studente autore della poesia dice la stessa cosa di Galimberti: non penso al futuro, tanto al futuro ci pensano gli altri, la gente, un’indistinta e magmatica omologazione culturale. Tutti i giovani hanno sempre fatto fatica ad entrare nella vita ma oggi c’è qualcosa che differenzia il nostro tempo, c’è qualcosa di diverso: il disagio è culturale, di contesto, è l’aria che si respira per osmosi, è un sostrato, un retroterra scettico che alimenta tutto e che si esprime in una società che ha perso il sentimento della paternità verso i giovani[6].

 

Per capire i giovani d’oggi, quindi, occorre valutare il contesto storico nel quale vivono: i ragazzi di oggi sono nati dopo il crollo del muro di Berlino, la fine delle ideologie e del “secolo breve”.

Non è una questione di sofferenza individuale ma di cultura collettiva: è venuta meno sia la speranza religiosa sia quella fiducia nell’uomo e nella tecnica che ha alimentato le ideologie rivoluzionarie. E’ come se le giovani generazioni si percepissero all’anno zero, in quella che Bauman chiama la “società fluida”[7] .

 

Ne esemplifico alcune caratteristiche, utilizzando parole usate dai ragazzi nei componimenti[8]:

 

Solitudine come disorientamento

Scetticismo di fronte alle imponenti contraddizioni del mondo

Fragilità d’autorevolezza del mondo adulto

Terrore di crescere senza credere in nulla

Precarietà

Paura, noia, rabbia

Incertezza nell’identificazione dei propri desideri

 

Ho rapidamente individuato alcuni motivi ricorrenti nei componimenti dei ragazzi, che ci parlano di come “l’ospite inquietante” (il nichilismo) si manifesti nel profondo della sensibilità e del giudizio che tanti di loro hanno della realtà in cui vivono. Dentro questo contesto accade facilmente e rapidamente al giovane di oggi quanto afferma Leopardi[9], la rinuncia precoce alle istanze più profonde della propria umanità:

 

“… la vita sociale e l’esperienza delle sofferenze sogliono abbattere e sopire dentro a ciascuno di noi quel primo uomo che egli era: il quale di tratto in tratto si desta per poco spazio ma tanto più di rado quanto è il progresso degli anni, sempre più poi si ritira verso il nostro intimo e ricade in maggior sonno di prima; finché durando ancora la nostra vita, esso muore.”

 

Che cosa i ragazzi esprimono invece in positivo, oltre il nichilismo? Vanno oltre, perché la necessità di vivere, l’energia vitale spinge sempre la natura del giovane a forzare il giudizio razionale sul mondo e a far prevalere la sua esigenza affettiva, il suo “cuore”, perché – come ricorda Goethe – l’uomo è un essere volto alla costruzione di senso e nel giovane la logica è sempre fusa a un sentimento che si impadronisce di tutto l’essere[10].

 

Procedo per accenni:

 

1) Innanzitutto, a differenza di quanto descrivono i media, di come spesso essi hanno dipinto i ragazzi di oggi, sulla base di isolati fenomeni di quello che viene comunemente chiamato “bullismo”, abbiamo a che fare con una generazione di adolescenti molto intelligente. Quando smettono di parlare per luoghi comuni, retoricamente e dicono veramente qualcosa di sè, immediatamente colpiscono per l’intelligenza, tanto che siamo costretti a chiederci: “siamo capaci di rispondere a ciò che domandano”?

 

Non sono semplicemente la generazione del vandalismo, dei sassi gettati dal cavalcavia, delle stragi del sabato sera, della goliardia a scuola. Non nego la presenza e la gravità di tali fenomeni, critico il fatto che a livello mediatico non ci sia un’altra lettura, una lettura che non si limiti a descrivere degli episodi ma cerchi di spiegarli. Si parla dei ragazzi con un distacco incomprensibile, una diffidenza, quasi venissero da un altro pianeta, come non fossero il frutto e il prodotto della nostra educazione e della nostra società, li si giudica con distacco, perché non si vuole arrivare a giudicare noi stessi, gli adulti, che in loro raccolgono ciò che hanno seminato.

 

2) Se si ha a che fare con persone intelligenti, bisogna rapportarsi con loro in modo intelligente: ciò significa che la relazione scolastica deve avvenire tra persone che hanno dignità, libertà, che si stimano, come afferma Camus: Nella classe del signor Bernard i ragazzi sentivano di esistere....li si giudicava degni di scoprire il mondo[11]

 

Il ragazzo a scuola percepisce subito se ha davanti uno che lo giudica degno di scoprire il mondo oppure uno che gli trasmette delle nozioni da imparare, al di là della comprensione di cosa esse c’entrino con la realtà che c’è fuori dalla finestra[12]. Dove manca l’intelligenza e l’educazione all’uso consapevole della ragione nella relazione è inevitabile che la relazione diventi povera.

 

3) Altro motivo dominante è questo: vogliamo che qualcuno ci ascolti, aderisca al nostro vissuto. La gran richiesta che viene è quella di essere ascoltati e di essere ascoltati davvero. Il ragazzo ha bisogno di un interlocutore, vuole essere ascoltato, perché ritiene che ciò che vive sia importante, anche se l’adulto è così distante dalla condizione dell’adolescente da non sentirlo più come tale.

 

4) Fondamentale: vogliamo essere ascoltati senza sentirci giudicati. Il ragazzo non chiede che l’adulto sia coerente, non punta l’indice sull’incoerenza dell’adulto, chiede che l’adulto sia leale, percependo che tante difficoltà e domande sono sue come dell’adulto[13]. Allora non si deve cercare di “sdrammatizzare”, affermando la validità di valori che egli percepisce immediatamente non essere interiorizzati in chi sta cercando di comunicarglieli[14]. Se non sai rispondere a ciò che ti chiedo non trasmettermi finti valori, cerca con me, coinvolgiti con il mio vissuto[15]. Siamo adulti capaci di dire qualcosa a questi ragazzi? Sul significato di quello che fanno e di quello che vivono? I giovani hanno bisogno di qualcuno che crede in quello che dice, hanno bisogno di proposte credibili, di un’ipotesi di senso (Ogni nostra paura ha la sua collocazione nell’amore, Sant’Ilario) o – come afferma Pavese – di dare alla propria sofferenza un significato[16].  

 

5) I ragazzi chiedono di essere responsabilizzati, chiedono fiducia, sono stanchi di essere parcheggiati nei master, nei corsi di specializzazione, tenuti in una condizione di precariato che non consente loro di mettersi in gioco, in percorsi scolastici che diventano sempre pi√π lunghi, per accedere ad un mondo del lavoro precario, in cui si sentono nulla.

Quanta tristezza abbiamo messo nel cuore dei ragazzi in tutti questi anni, tra distruzione delle certezze, paura del futuro, invasione di prodotti tecnologici (cellulare, computer, auricolare, lettore di musica iPod....), che hanno avuto la terribile conseguenza di isolarli in una dimensione sempre più individuale, in un deserto relazionale dove la realtà affettiva è diventata un miraggio.

 

Ecco, sono arrivato a quello che – a mio parere – è il punto: ai ragazzi d'oggi manca una essenziale paternità, la percezione di essere amati, stimati, non lasciati soli ed a se stessi nella ricerca di un significato per la loro esistenza, mancano loro adulti accoglienti e capaci di coinvolgersi autorevolmente in una relazione educativa[17]. Educare: la sfida che ci aspetta.

[1] P. Lind e Mogol, È la pioggia che va, cantata dai The Rokes, 1967: «Quante volte ci hanno detto sorridendo tristemente/ le speranze dei ragazzi sono fumo/ Sono stanchi di lottare e non credono più a niente».

[2] E. Montale, Fine dell’infanzia, in Ossi di seppia, 1925.

[3] U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007.

[4] E. Sabato, La resistencia, Seix Barral, Barcellona 2000.

[5]Poesia scritta da uno studente e letta durante un convegno sugli approcci comunicativi tra generazioni, svoltosi nel dicembre 2007 a Mondovì

[6] D. Pennac, Diario di scuola, Milano, Feltrinelli 2008

[7] Z.  Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002

[8] M. Lusso,  Quello che ai genitori non diciamo, Brescia, Liberedizioni 2007

[9]  G. Leopardi, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare. In Tutte le opere a cura di Binni W., Ghidetti E. Vol. I. Firenze, Sansoni 1969.

[10] F. Dostoevskij, L’adolescente, Torino, Einaudi 1957.

[11]  A. Camus, Il primo uomo, Milano, Bompiani 1994.

[12]“I professori, quando sono a scuola, non hanno di fronte una classe, ma tante facce diverse da guardare per davvero in faccia, a una a una, senza nascondersi dietro la scusa che non si è psicologi, perché non si è neppure uomini se non ci si accorge della sofferenza di un giovane. (...) Cultura devitalizzata della scuola, dove molti insegnanti neppure si accorgono che quei giovani, che sono ogni giorno sotto i loro occhi, non avvertono più alcuna corrispondenza tra quanto si apprende in classe e quanto si intravede dalle finestre dell’aula....al di là dei vetri c’è l’America” (Galimberti, op. cit. p.103)

[13] “Noi abbiamo bisogno di uomini commossi, non di uomini riverenti” (Pavese, Il mestiere di vicere, Einaudi, Torino 1952)

[14] “Quando si hanno di fronte per parecchie ore al giorno venticinque volti di ragazzi dai 15 ai 18 anni, che si vendicano spietatamente quando si è noiosi nelle lezioni, ma che vi fissano con i loro occhi pieni di chiarezza, talvolta di tenerezza, quando nel silenzio profondo di un’ora mattinale un riflesso del bello e del vero li illumina, è impossibile non rispondervi, perché la gioventù è impaziente. I libri allora non bastano più. La risposta deve essere data immediatamente e deve essere vera, cioè totale, deve scaturire dall’anima tutta intera, perché nessuno può ingannare la giovinezza. Bisogna allora chiudere i libri, senza però dimenticarli, bisogna guardare in faccia questi giovani, bisogna soprattutto interrogare se stessi e rispondere alle questioni sparse nei testi, imbrattati di inchiostro, dei nostri autori.” (C. Moeller, Umanesimo e santità. Brescia, Morcelliana 1950. Titolo originale “humanisme et saintete”, prima edizione 1946, Parigi).

[15]Un bambino sa già riconoscere una cosa giusta se qualcuno lo prende per mano. Al sole ci si può arrivare da soli ma c’è bisogno di vedere la luce per raggiungerla (da un componimento).

[16] Le prove dell’esistenza di Dio non sono propriamente nell’armonia dell’universo, nell’equilibrio miracoloso del tutto, nei bei colori dei fiori ecc., ma nella disarmonia dell’uomo in mezzo alle cose: nella sua capacità di soffrire.  Perchè insomma non c’è ragione che l’uomo soffra in questo mondo, se non esiste la responsabilità morale, cioè la capacità – il dovere – di dare alla propria sofferenza un significato. (Pavese, op. cit., p. 107)

[17] Sulla collocazione della nozione di amore al centro della relazione pedagogica, invito a leggere il cap. Cosa significa amare in Pennac, op. cit, pp.  205-251.

Matteo Lusso

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