Negli ultimi dieci anni, dal 2004 al 2013, la spesa continentale è aumentata del 65%: più che negli altri continenti, con incrementi consistenti in due paesi su tre.
È noto che i governi africani tendono spesso a trascurare i loro compiti istituzionali: a mezzo secolo dalla fine del dominio coloniale europeo, infrastrutture e servizi essenziali quali istruzione e sanità continuano, ad esempio, a essere estremamente carenti anche nei paesi più ricchi di materie prime e di altre risorse naturali. Molto di quel che c’è, e che funziona, dipende da finanziamenti, assistenza e interventi stranieri realizzati nell’ambito della cooperazione internazionale allo sviluppo e di accordi con paesi e imprese che, in cambio di contratti di sfruttamento di miniere, giacimenti e terre coltivabili, realizzano strade, centrali elettriche, edifici pubblici, strutture sanitarie e molto altro ancora.
Ma c’è almeno un compito che invece, a quanto pare, sta molto a cuore ai leader africani: la difesa del territorio nazionale. Almeno così sembrerebbe a giudicare da quanto crescono le spese militari in tutto il continente. Nel 2013, secondo il Sipri, Stockholm International Peace Research Institute, si è avuto un consistente incremento dell’8.3% che ha portato l’ammontare annuo complessivo degli investimenti nel settore a quasi 45 miliardi di dollari: un aumento nettamente superiore a quello del Prodotto interno lordo continentale che, nello stesso anno, è stato del 5,4% circa (in linea con la media annuale degli ultimi 13 anni, sempre superiore al 5%, ad eccezione del 2009 quando è scesa all’1,7%, in gran parte per il contraccolpo della crisi finanziaria internazionale).
Negli ultimi dieci anni, dal 2004 al 2013, la spesa continentale è aumentata del 65%: più che negli altri continenti, con incrementi consistenti in due paesi su tre. Il primato spetta all’Algeria, l’unico stato africano con un bilancio per la difesa superiore a dieci miliardi di dollari: il governo ha stanziato nel 2013 il 170% in più rispetto al 2004, a fronte di una crescita del Pil nello stesso arco di tempo del 31%. Altri otto paesi hanno più che raddoppiato le spese militari nel decennio: il Ghana, dove si è avuto addirittura un incremento del 306%, il più elevato di tutto il continente, rispetto a una crescita del Pil del 95%, il Ciad, la Libia, la Liberia, il Malawi, lo Swaziland, la Namibia e l’Angola, che nel solo 2013 ha aumentato gli stanziamenti militari di due terzi raggiungendo i sei miliardi di dollari e superando per la prima volta il Sudafrica. Persino lo Zimbabwe, nonostante l’embargo sulle armi imposto a partire dal 2002 da Stati Uniti e Unione Europea, ha quasi raddoppiato il proprio bilancio per la difesa: con la notevole differenza che l’Angola tra il 2004 e il 2013 ha registrato un aumento del Pil vicino al 150% mentre lo Zimbabwe nello stesso periodo ha attraversato una delle peggiori crisi economiche del continente, con un dimezzamento del Pil, passato dagli oltre 24 miliardi di dollari nel 2004 a poco più di 12 miliardi nel 2013.
45 miliardi di dollari sono una somma del tutto esigua se confrontata con i bilanci della difesa dei paesi industrializzati: li spende da sola la Germania, secondo il Global Firepower, e l’Italia ne stanzia ogni anno 34. Ma non lo sono affatto rispetto al contesto africano: equivalgono infatti a più di tutte le rimesse degli africani all’estero – quasi 40 miliardi di dollari nel 2013 – e degli investimenti stranieri diretti, che nel 2011 ammontavano a 42,7 miliardi di dollari. Inoltre la somma è di poco inferiore a quella dei fondi forniti dalla cooperazione internazionale allo sviluppo all’Africa nel 2012, in tutto 51.3 miliardi di dollari.
Può sorprendere che moltiplichino le spese militari fino a raddoppiarle e triplicarle stati come, ad esempio, la Liberia che ha 1,4 medici e 80 posti letto ogni 100.000 abitanti, un tasso di mortalità materna di 770 ogni 100.000 bambini nati vivi e il 40% della popolazione adulta analfabeta; o come il Ghana, con soltanto 9 medici e 90 posti letto ogni 100.000 abitanti. Proprio la Liberia è lo stato più colpito dall’epidemia di Ebola, con 4.181 morti.
In parte si capisce come mai. I paesi del Sahel e l’intera fascia sottostante, da un oceano all’altro, temono la minaccia jihadista, di mese in mese più grave. Molti governi devono fare i conti con gruppi armati antigovernativi e secessionisti. Per diversi stati costieri si pone il problema della pirateria, aggravatosi di recente sulle coste atlantiche, specialmente nel Golfo di Guinea, e, per i paesi che posseggono giacimenti di petrolio e di gas offshore, la necessità di rendere sicure le attività estrattive.
Le nuove spese servono ad acquistare armi, ad aumentare gli organici e ad addestrare il personale militare all’uso di armi più sofisticate.
Ma ogni giorno dall’Africa ormai giungono notizie di attentati terroristici e stragi, di militari e agenti di polizia che non rispondono alle richieste di aiuto e lasciano villaggi e intere città cadere nelle mani dei miliziani, che fuggono o rifiutano di combattere perché, così dicono, dotati di armi e mezzi inadeguati rispetto a quelli di cui dispongono gli avversari o, ancora, che addirittura infieriscono a loro volta sui connazionali inermi, taglieggiandoli per integrare i salari insufficienti e magari per mesi non percepiti. Da anni inoltre crescono i territori del tutto fuori controllo – in Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Kenya, Mali... – in cui i gruppi armati uccidono, riscuotono tributi, si appropriano delle risorse esistenti indisturbati, tessendo reti transnazionali che includono jihadisti, bande di trafficanti di droga, armi ed esseri umani, milizie ribelli e bracconieri e creando corridoi attraverso i quali si spostano armi e combattenti.
Il caso della Nigeria è rivelatore. Uno degli eserciti più grandi del continente, circa 130.000 unità, non riesce ad aver ragione di Boko Haram, in tutto alcune migliaia di terroristi (e i miliziani del Lord Resistance Army che seminano il terrore da dieci anni in Congo, Centrafrica e Sud Sudan sono solo poche centinaia). Tutti pensano in Nigeria, e alcuni hanno il coraggio di dire pubblicamente, che le risorse stanziate quest’anno per rinnovare l’arsenale e addestrare le truppe – un miliardo di dollari – hanno fatto e faranno la solita fine: il denaro in parte stornato da ministri e parlamentari, le armi effettivamente acquistate rubate in quantità da ufficiali e altro personale militare per rivenderle a chiunque disponga di denaro: civili, criminali, persino gli stessi terroristi.
I militari invece non arretrano quando si tratta di reprimere le proteste popolari o fermare gli operai in sciopero, dal Sud Africa all’Etiopia disposti anche a sparare ad altezza d’uomo: ma allora la funzione delle spese militari diventa garantire il potere ai leader più che difendere il territorio nazionale e i suoi abitanti.
Anna Bono
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