L'annuncio di Zuckerberg e gli aborti spontanei

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L’annuncio di Zuckerberg e gli aborti spontanei

 

‚ÄãIl fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, 31 anni, ha annunciato che sua moglie aspetta un bambino. E, nel partecipare la sua felicità al miliardo e mezzo di utenti del social network, ha raccontato anche che già tre volte avevano sperato di avere un figlio, ma la gravidanza si era interrotta. Ora negli Usa gli psicologi additano la positività di questa pubblica confessione sul palcoscenico virtuale del colosso del web: il dolore per un figlio che se ne va prima di nascere, dicono, è quasi sempre taciuto, e gioverà, a chi ne fa esperienza, quella sorta di "sdoganamento" che è lo scriverne e leggerne su un mezzo universalmente condiviso.

 

È vero, che il dolore di un aborto spontaneo appartiene alla categoria dei dolori privati, che si comunicano solo agli amici più intimi, e quasi sottovoce. È, o è stato almeno fino ad oggi, un dolore soprattutto femminile; e gli amici uomini, quando ne vengono a conoscenza, spesso non sanno che dire. Se non quel "coraggio, sei giovane, ne arriverà un altro" che lascia nella donna il senso della incomunicabilità di ciò che prova. Perché certo, forse ne arriverà un altro, ma non sarà più "quel" bambino, proprio quello, unico, a cui forse si era già dato un nome.

 

Perché si tace la sofferenza di una gravidanza che finisce nel nulla, perché solo a bassa voce, quando accade, se ne sussurra fra colleghi, negli uffici? Forse intanto perché è un lutto senza un oggetto visibile, senza un corpo esteriore; è un lutto che si compie nel seno della donna, e spesso prima che ogni segno di gravidanza sia riconoscibile. Dunque, in un mondo in cui, e sempre più, esiste solo ciò che si vede, il venir meno di una vita invisibile non viene da tutti percepito come un morire. È come se ciò che è vissuto come un’ombra non uscisse dal mondo delle ombre; come se ciò che non è ancora, svanisse prima di compiersi. E non siamo molto capaci, di avventurarci in queste terre dell’ombra.

 

Forse, anche, antichi retaggi inducono al silenzio. Quando la fecondità era un vanto e un motivo di orgoglio, un figlio perduto poteva venire percepito come il segno di un difetto, del bambino, o della madre; comunque come un dubbio sulla capacità generativa della donna, dubbio che ancora qualche decennio fa non era cosa da poco. O forse addirittura, in un mondo in cui una vecchia sensibilità maschile dominava, colui che non arrivava a nascere poteva venire avvertito come un combattente, che non aveva superato la sua prima essenziale battaglia.

 

Ma, per le donne, era ed è diverso. Quel figlio, nella loro carne è avvertito esistente dal principio, anche quando non è desiderato – perfino quando si decide di non lasciarlo nascere. Tanto più intensamente la madre vive già "con" lui, se lo ha voluto, e atteso. Per gli altri, nel caso di un aborto non ci sarà un corpo su cui celebrare il lutto, ma la madre questo morire lo sente in sé. È, il perdere un bambino, il crollo di un desiderio, è la fine del principio di un amore: che, nello svanire, sembra diventare semplicemente un sogno. Qualcosa che, non vedendo la luce, resta in una sorta di terra di mezzo – e non se ne può dire con le nostre normali parole.

 

Se la confessione di Zuckerberg a un miliardo e mezzo di utenti del web potrà davvero aiutare a rendere meno clandestino il lutto segreto di molti genitori, sarà un bene. Anche se ci resta il dubbio che nemmeno i post di Facebook siano il luogo in grado di dare sfogo alla sofferenza carsica dei figli mancati. Per chi crede, vale di più la certezza cristiana che quei figli sono in Dio, e non sono perduti. Per chi non crede, o per chi non crede ancora abbastanza, le parole che mancano su quei figli mai conosciuti forse continueranno a non trovarsi. Perché, con quei figli, ci si affaccia alla categoria dell’indicibile: dei desideri tanto radicali e profondi che se ne tace – come di una immensa, inammissibile speranza.

 

 

Marina Corradi

http://www.avvenire.it

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