Qual è l'antropologia politica sulla quale si deve basare l'annuncio evangelico? L'Autore, che conosce Papa Francesco da quarant'anni, intende sviluppare il suo pensiero sul tema, tenendo conto dei suoi scritti...
Anticipiamo una parte di uno degli articoli che saranno pubblicati nel prossimo numero della Civiltà Cattolica. L’autore, Diego Javier Fares gesuita che insegna Teologia alla Pontificia Universidad Católica Argentina, è amico da decenni di Jorge Mario Bergoglio.
Qual è l’antropologia politica sulla quale si deve basare l’annuncio evangelico? L’Autore, che conosce Papa Francesco da quarant’anni, intende sviluppare il suo pensiero sul tema, tenendo conto dei suoi scritti come sacerdote e come vescovo di Buenos Aires. Analizza soprattutto la sua convinzione che esiste uno stretto legame tra la possibilità di pienezza dell’esistenza umana e le opportunità concrete offerte dalla nostra epoca per raggiungerla. Bergoglio propone la solidarietà come radice feconda per riscattare e far crescere atteggiamenti politici concreti. La solidarietà unisce il collettivo (elemento di forza oggi imprescindibile) e l’individuale (l’unicità della persona), costruendo la storia. Dietro questa concezione si ritrovano Guardini, il Dostoevskij de I fratelli Karamazov, oltre ad alcuni documenti della Compagnia di Gesù.
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Nel 1975 viene pubblicata la Evangelii nuntiandi di Paolo VI e ha luogo la XXXII Congregazione generale dei gesuiti. Bergoglio ha sempre considerato la Evangelii nuntiandi un documento particolarmente ispirato. In essa Paolo VI riconosceva che «la rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre. Occorre quindi fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture. Esse devono essere rigenerate mediante l’incontro con la Buona Novella».
In un articolo intitolato Criteri di azione apostolica, e che derivò dalla raccolta degli Atti che egli fece dell’ultima riunione di superiori (2-3 maggio 1979) che presiedette come provinciale, Bergoglio parlava del «popolo come riserva» e diceva che la «inculturazione del Vangelo», che mira al «processo di cambiamento delle strutture (persino nelle strutture del cuore), (...) doveva compiere lo sforzo di giustizia per non tradire la cultura del nostro popolo, i suoi valori e le sue aspirazioni legittime, evitando di filtrarli attraverso la nostra mentalità “illuminista”». E proseguiva: «Sono i popoli stessi che mandano avanti la storia, e la Chiesa deve influire su di essi in modo da evangelizzare la loro cultura (...). L’incarnazione del Vangelo esige che Cristo venga annunciato e accolto in modi differenti a seconda della diversità dei Paesi o degli ambienti umani, tenendo conto delle ricchezze che sono loro proprie, e questo perché l’inculturazione, percepita da un punto di vista universale e — pertanto — come criterio valido per essere applicato a diverse situazioni, significa la diversità (di culture, di funzioni, di modalità) nell’unità di concezione (di fede e di spiritualità)».
Le altre caratteristiche del popolo fedele si evincono anch’esse sul piano pratico: «I popoli hanno abitudini, capacità di valutazione, contenuti culturali che sfuggono a qualsiasi classificazione: sono sovrani nella loro possibilità di interpellare». Questo conduce ad «affinare l’udito per udire tali richiami e presuppone umiltà, affetto, abitudine all’inculturazione e, soprattutto, l’aver respinto da sé l’assurda pretesa di trasformarsi in “voce” dei popoli, pensando forse che essi non la abbiano. Tutti i popoli ce l’hanno, magari ridotta a volte a un sussurro a causa dell’oppressione. Bisogna aguzzare l’udito e ascoltarla, ma non voler parlare noi al loro posto. Per un pastore, la domanda iniziale di ogni riforma delle strutture dovrebbe essere: “Che cosa mi chiede il mio popolo?”».
Così, quando Papa Francesco parla di cultura, parla dell’«anima di un popolo»; della sua voce, che a volte è ridotta a sussurro a causa dell’oppressione; della consapevolezza della propria dignità, segnata da eventi significativi della sua storia; del suo modo di amare Dio; della sua sovranità, quando si tratta di interpellare i suoi interlocutori. Il decreto più famoso della XXXII Congregazione generale dei gesuiti è stato il decreto IV: «La nostra missione oggi: diaconia della fede e promozione della giustizia». Bergoglio ha sottolineato sempre che ciò che gli sembrava più ispirato di questo decreto non era la polemica tra fede e giustizia, ma i paragrafi sull'inculturazione.
Oggi possiamo dire che la sua intuizione ha colpito nel segno: «In questi anni una crescente convinzione si va sedimentando nella coscienza apostolica della Compagnia; la missione di servire la fede promuovendo la giustizia si allarga verso il dialogo trasformatore con le diverse culture e tra le diverse religioni».
A quell'epoca, i commenti di Bergoglio sul decreto IV, bandiera di coloro che si impegnavano con i poveri giustificando perfino la lotta armata, e antibandiera di coloro che non si volevano assolutamente impegnare con essi, andavano nella direzione di dare risalto innanzitutto alla lotta per la giustizia, rimanendo fedeli al bellissimo paragrafo 50. Diceva Bergoglio: «Camminando pazientemente e umilmente con i poveri, scopriremo in che cosa possiamo aiutarli, dopo aver prima accettato di ricevere da loro. Senza questo lento camminare con loro, l’azione a favore dei poveri e degli oppressi sarebbe in contraddizione con le nostre intenzioni e impedirebbe ad essi di far sentire le loro aspirazioni e di acquisire da sé gli strumenti per una effettiva assunzione in prima persona del loro destino personale e collettivo. Con un servizio umile avremo l’opportunità di condurli a scoprire, nel cuore delle loro difficoltà e delle loro lotte, Gesù Cristo vivo e operante con la potenza del suo Spirito. Potremo così parlare loro di Dio nostro Padre, che riconcilia a sé l’umanità, stabilendola nella comunione di una vera fraternità».
Potremmo dire che l’intuizione di Bergoglio fu che l’esigenza della giustizia era (ed è) una «interpellanza» dei popoli. Non l’unica interpellanza: Paolo VI aveva chiesto alla Compagnia di «far fronte alle molteplici forme dell’ateismo contemporaneo», delle quali l’ingiustizia strutturale era una forma di ateismo pratico, ma non l’unica; neppure una interpellanza «senza voce», da parte di «poveri considerati soltanto da un punto di vista sociologico », o interpretati alla riduttiva luce di una prospettiva marxista.
Dalla fedeltà discreta allo spirito del decreto IV, così come fu redatto e approvato in toto, derivò la formazione che Bergoglio promosse. Fu una formazione messa in pratica tra i poveri dei quartieri di San Miguel, dove il contatto con «la cultura e la religiosità popolare» ci consentiva di «imparare a poco a poco» ad ascoltare le interpellanze del nostro popolo fedele. La concezione di Bergoglio superò chiaramente le false antinomie che dividevano i cristiani in progressisti e conservatori.
Nel 1989 Bergoglio tenne la lezione inaugurale del corso accademico a San Miguel. Il tema era: «Necessità di una antropologia politica: un problema pastorale». In quella occasione egli pose le basi per rispondere alla domanda: qual è l’antropologia politica sulla quale si deve basare l’annuncio evangelico? Parlare di un’antropologia politica implica «un giusto approccio ai valori dell’epoca». Qui Bergoglio adottò il criterio di Guardini: affrontò la relazione tra la possibilità di pienezza dell’esistenza umana e le opportunità concrete offerte dalla nostra epoca per raggiungerla. Questa semplice equazione, proiettata in ogni ambito e situazione particolare, spiega il perché delle tensioni di crescente angoscia e violenza che si esternano a livello culturale. Tutti vediamo la disuguaglianza nell’uso dei beni su cui facciamo affidamento. E tale disuguaglianza indica «mancanza di governo», mancanza di controllo nei confronti dei meccanismi di potere. Essa è una «espressione implicita di ciò che è incivile».
Bergoglio proponeva l’atteggiamento-valore della solidarietà come radice feconda per riscattare e far crescere atteggiamenti politici concreti che superassero di fatto i falsi dilemmi del presente: «Se vediamo l’uomo postmoderno sommerso nella confusione del disinganno della sua fallita onnipotenza, non troveremo altra forma di riscatto che il re-incontro solidale con il suo popolo, uniti dal vincolo di desiderare il Dio che è Principio e fine della sua azione libera».
La cultura dell’incontro, pertanto, va intesa facendo vibrare all’unisono la categoria di cultura con quella di popolo; dicendo inoltre «culture e popoli», al plurale, si pone l’accento sul rispetto e sull’attenzione a quella diversità necessaria affinché l’unità non risulti astratta, ma concreta e viva.
Dietro questa concezione che Francesco ha del popolo troviamo Guardini; e dietro di lui, il Dostoevskij de I fratelli Karamazov: «È il popolo che, nonostante le sue miserie e i suoi peccati, è autenticamente umano e, nonostante tutta la sua bassezza, è ricco di contenuti e sano, perché affonda le sue radici nella struttura essenziale dell’essere»; «Chi non crede in Dio, non crede neppure nel popolo di Dio; ma chi crede nel popolo di Dio, contempla anche la sua santità, sebbene finora non abbia creduto in essa».
Da un punto di vista antropologico, questa concezione va oltre le relazioni “astratte”, occasionali, parziali che ci propone o ci impone la globalizzazione, la cui libertà si rivela meramente funzionale alla logica del consumo. È una concezione anche foriera di numerosi spunti per la riflessione e per il dibattito. Costa sempre ascoltare, non soltanto il popolo, ma la parola stessa “popolo”. Essa “fa rumore”, sempre.
Già quando era arcivescovo di Buenos Aires, egli spiegava che «si può nominare il popolo soltanto se ci si impegna, se si partecipa. Più che una parola, è una chiamata, una con-vocazione a uscire da sé». Lo ha detto bene anche l’arcivescovo Víctor Manuel Fernández. Alla domanda: «Che cosa significa la teologia del popolo? Perché dice che Francesco ha un “luccichio negli occhi” quando usa la parola “popolo”?», egli ha risposto: «La teologia del popolo si distingue tanto dalle analisi marxiste quanto dalle posizioni liberali. Perciò non le si addice nessuna di queste due prospettive. Implica considerare i poveri non come meri oggetti di una liberazione o di una educazione, bensì come soggetti capaci di pensare con le proprie categorie, capaci di vivere legittimamente la fede a modo loro, capaci di generare percorsi partendo dalla propria cultura popolare. L’espressione “popolo” si distingue dall’espressione “massa”, perché suppone un soggetto collettivo in grado di generare processi storici. Gli si può aggiungere qualcosa, ma sempre rispettando la sua identità e il suo stile».
Diego Javier Fares
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