L'EMERGENZA EDUCATIVAL'educazione come urgenza e sfida del nostro tempo.

del Card. Angelo BagnascoEducare... non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative.

L'EMERGENZA EDUCATIVAL’educazione come urgenza e sfida del nostro tempo.

da Quaderni Cannibali

del 20 novembre 2009

Genova, Palazzo Ducale,

7 maggio 2009

 

1. L'urgenza di oggi e la sfida di sempre

 

Ormai da qualche tempo la questione educativa sta assumendo i contorni di una vera urgenza e insieme di una sfida radicale. Ne è prova – oltre l'osservazione empirica di ciascuno di noi - una pubblicistica ormai diffusa che dedica all'argomento analisi puntuali, anche se non sempre riesce a far emergere una diagnosi adeguata e soprattutto praticabile. Mi riferisco ad esempio ad un saggio di qualche anno fa', ad opera di due psichiatri che operano nel campo dell'infanzia e dell'adolescenza, che registrano la totale mancanza di desideri in una generazione che ha visto spegnersi progressivamente le proprie ragioni di fiducia e, forse per la prima volta, vede il futuro più come minaccia che come promessa (cfr. M. BENASAYAG, G. SCHIMT, L'epoca delle passioni tristi, Milano, 2004).

 

O anche, più di recente, al libro di U. Galimberti (cfr. ID., L'ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Milano, 2007) che identifica nel nichilismo 'un ospite inquietante' che si aggira tra i giovani, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui. A conferma di tale consapevolezza, non più di qualche giorno fa', sul Corriere della Sera (30.4.2009), un articolo di Isabella Bossi Fedrigotti, dedicato a 'figli senza maestri', rimarcava una scarsa attenzione ad un fenomeno – quello del silenzio degli adulti e dello smarrimento dei ragazzi – che si sta ingrossando fino a diventare appunto una urgenza e una sfida.

 

Chi, in realtà, ha tematizzato da tempo questa urgenza e questa sfida, senza peraltro fermarsi all'epifenomeno, ma andando alla sua vera radice, è Benedetto XVI. Infatti, sin dall'esordio del suo pontificato Papa Ratzinger ha fatto della cosiddetta 'emergenza educativa' una cifra interpretativa della stagione storica che stiamo attraversando. Egli stesso ha precisato il senso di questa emergenza, sottolineando che in realtà:

 

'educare... non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande 'emergenza educativa', confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita. Viene spontaneo, allora, incolpare le nuove generazioni, come se i bambini che nascono oggi fossero diversi da quelli che nascevano nel passato. Si parla inoltre di una 'frattura fra le generazioni', che certamente esiste e pesa, ma che è l'effetto, piuttosto che la causa, della mancata trasmissione di certezze e di valori.

 

Il Papa è convinto che l'urgenza di oggi non sia dissimile da quella di sempre, perché dietro la sfida dell'educazione c'è in fondo la questione della libertà umana. Così egli scrive, nella citata 'Lettera sul compito urgente di educare':

 

'Tutte queste difficoltà, infatti, non sono insormontabili. Sono piuttosto, per così dire, il rovescio della medaglia di quel dono grande e prezioso che è la nostra libertà, con la responsabilità che giustamente l'accompagna. A differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell'ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell'uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni. Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale.

 

Si coglie qui una prospettiva originale e decisamente propositiva. Ogni generazione infatti è sfidata a raccogliere il testimone della propria libertà, risvegliando il coraggio delle decisioni definitive, che sono necessarie per crescere e raggiungere qualcosa di grande nella vita, in particolare per far crescere l'amore in tutta la sua bellezza. Ecco perché il Papa puntualizza: 'Il rapporto educativo è anzitutto l'incontro di due libertà (...): dobbiamo accettare il rischio della libertà'.

 

2. Educare è diventare persona

 

Si intuisce - a questo punto - che la questione educativa non ha a che fare semplicemente con delle nozioni da trasmettere o dei comportamenti da replicare, ma in primo luogo con il risvegliarsi del soggetto che decide di sé. Solo dopo sarà possibile orientarsi nella serie delle decisioni da assumere non senza un confronto con ciò che ci precede e non senza una relazione stabile e critica con quanti vivono questa stagione storica. Alla fine, la vera radice del malessere così diffuso tra i giovani, non è tanto la mancanza di possibilità di scelta – che sono al contrario infinite oggi – ma rinvenire un 'perché' ultimo, ovvero un senso che dia alla vita un orientamento necessario. Senza la speranza (cfr. Spe Salvi, n 2), infatti anche la fiducia umana è destinata a ripiegarsi su se stessa, come dimostra la mancanza di desideri e di slancio che sembra far invecchiare precocemente chiunque.

 

Vorrei pertanto delineare quel che a me sembra essere oggi il quadrante di un possibile esercizio educativo, saltando a piè pari le analisi note e sconsolanti sulla crisi in atto. La mia riflessione si articolerà attorno alla irriducibilità della persona umana perché è questa e solo questa l'interlocutore di qualsiasi esperienza educativa, al di là di possibili progetti, di eventuali terapie, di pur necessarie formazioni. La persona è ciò che fa la differenza e rappresenta il salto che rompe gli schemi di qualsiasi determinismo sociale e o biologico e rende possibile l'avventura della libertà. L'uomo infatti non è riducibile ad un agglomerato di pulsioni e desideri, ma è un soggetto ricco e unitario; non è né una macchina corporea né un pensare disincarnato.

 

E' sempre 'qualcuno', non è e non diventa mai 'qualcosa', un 'mezzo' per raggiungere altro. La sua ragione non solo è capace di autocoscienza, di ragionamenti formali, di applicazione alla realtà empirica, ma si apre anche ai significati e alla questione del bene e del male. Essa supera i limiti della sequenza dei fatti, della mera cronaca, e l'interpreta cercandone i perché, le direzioni future. In questo dinamismo si pone l'universale questione del senso del vivere e del morire, da cui la storia umana è attraversata, come da un sigillo bruciante, a testimonianza della capacità dell'uomo a trascendersi, della radicale apertura della sua anima sull'infinito, del richiamo ontologico della persona verso la Trascendenza, cioè verso Dio.

 

Il suo costitutivo essere in relazione con il mondo e con gli altri, inoltre, getta una decisiva luce sul pensarsi dell'individuo, ed è denso di conseguenze e di stimoli per le società, nonché per la costruzione di un mondo più giusto e più umano. La libertà stessa ne beneficia, libertà che è premessa e condizione dell'amore senza il quale vi è solitudine e morte. Essa non è un valore individualistico e assoluto, ma ha sempre a che fare con altro da noi, uomini e cose. Soprattutto è in relazione con dei contenuti veritativi che sono oggetto della scelta personale e la specificano nella sua eticità (cfr. BAGNASCO, A., Prolusione alla 57 Assemblea della CEI, maggio 2007).

 

Stante questa convinzione di fondo, per cui la persona non è una fase della vita umana, ma è – possiamo dire – la 'forma' in cui l'uomo è uomo, si tratta ora di vedere in concreto come far emergere questa soggettività dentro la realtà, consapevoli che educare significa – come è noto - e-ducere, cioè tirar fuori da ciascuno la persona. Ciò richiede una particolare azione di 'cura' volta a suscitare uno stile di delicata attenzione, di tenerezza e di responsabilità, in modo che ciascuno sia in grado di diventare ciò che è, per dono da Dio. Si aprono davanti a noi almeno quattro situazioni che vanno pazientemente fatte emergere perché la persona possa vivere all'altezza della sua vocazione.

 

2.1 La cura di sé: la riscoperta dell'identità

 

Una delle accuse più frequenti rivolte all'uomo di oggi è di essere un egocentrico. In particolare, ciò sembra emergere proprio nell'esperienza dei giovani, proiettati sulle cose e sugli altri con una specie di voracità che fa loro dimenticare di non essere al centro del mondo. Sicuramente l'enfasi sull'ego è un portato della civiltà occidentale, nella quale, peraltro, proprio la nozione di persona è andata faticosamente affermandosi. Oggi però lo 'spaesamento', prodotto da una società soggetta ad una velocizzazione inusitata, introduce un elemento nuovo con cui fare i conti. In realtà ciò che oggi rischia di scomparire - sotto l'incalzante e martellante ritmo della globalizzazione - è proprio il soggetto e non l'ego, che ne è una immagine contraffatta. Solo in apparenza individualismo e massificazione sono antitetici: la verità è che essi sono complementari e si richiamano a vicenda.

 

Già Heidegger, con grande lucidità aveva colto questo svanire dell'io in una sorta di 'si' impersonale. 'Ci divertiamo come ci si diverte, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica (...). Troviamo 'scandaloso' ciò che si trova scandaloso (...). Il Si (...) può rispondere a cuor leggero di tutto perché non è 'qualcuno' che possa essere chiamato a rendere conto (...). Ognuno è gli altri, nessuno è se stesso' (HEIDEGGER, M., Essere e tempo, Torino, 1969, 215-217). Per questa ragione, la prima cura da risvegliare è un movimento di ritorno alla profondità e ricchezza che si nasconde in ogni uomo, movimento che potremmo chiamare 'cura di sé'. E proprio questo potrebbe consentire al soggetto di essere finalmente se stesso. La maggior parte della persone invece – e non soltanto i giovani – trascorre la propria esistenza coltivando e magari accarezzando senza sosta il proprio ego, ma senza curarsi del proprio io.

 

Peraltro 'di una tal cosa non si fa molto caso nel mondo; perché dell'io il mondo si cura meno di qualsiasi cosa; e il pericolo più grande per un uomo è mostrare di averlo. Il pericolo più grande, quello di perdere se stesso, può nel mondo passare così inosservato; di ogni altra perdita, della perdita di un braccio, di una gamba, di cinque talleri, della moglie, ecc., uno se ne accorge certamente (S. KIERKEGAARD, La malattia mortale, Firenze, 1965, 239-241)', di questa può accadere che non ci si renda mai conto. Forse perché oggi si 'trova troppo rischioso essere se stesso' e per questo si preferisce 'essere un numero fra gli altri nella folla'. Torna alla mente l'inquietante domanda di Gesù: 'Infatti quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso? (Lc 9,25 e Mc. 8,36)'. Di certo ai nostri giorni la crescente insicurezza dei giovani, la loro irrimediabile fragilità, nascono proprio dalla mancanza di un io e – contemporaneamente - dalla voracità dell'ego e dall'impersonalità del si.

 

Penso che in questa carenza del volto di ciascuno ci sia il primo deficit di una cultura che non aiuta a costruire percorsi educativi perché nega all'altro la sua soggettività e lascia che si vanifichi tutto in un egocentrismo e in una massificazione che sono le due facce della stessa medaglia: l'annullamento del soggetto. Nasce di qui la prima urgenza e, se volete, la prima sfida da raccogliere: aiutare a ritrovare ciascuno il proprio sé e costruire soggetti consapevoli e critici.

 

2.2 La cura dell'origine: la riscoperta dell'autorità

 

E' significativo il fatto che, in quasi tutte le lingue, spesso il cognome indica una relazione al padre: in italiano sono numerosi i 'Di' (Di Carlo, Di Giovanni, Di Vittorio.,,,), in ebraico 'Ben', in tedesco 'Von', nelle lingue anglofone il termine 'son' (figlio) entra nel cognome medesimo (Johanson, Gerhardson). Così del resto accadeva anche nelle civiltà più antiche: ad esempio nel Vangelo di Matteo in quello di Luca – come è ben noto - Gesù è presentato in base alla sua genealogia. Nella tradizione cristiana il rapporto padre-figlio non è semplicemente il contenuto centrale della Rivelazione, di cui il Padre Nostro è il momento più alto, ma assume un significato che va oltre l'adesione di fede e rivela la struttura stessa della persona. 'Sii figlio', equivale, in questo contesto a 'Sii uomo!'. Proprio per questo le ferite che eventualmente si riscontrano in questa delicata relazione – e il vissuto di tanti giovani è ahimè segnato profondamente da tali dissesti affettivi - lasciano dietro di sé una traccia indelebile e una ipoteca problematica. Ai nostri giorni poi un trauma tipico è rappresentato dalla segregazione generazionale: sembra che tra adulti e giovani sia diventato impossibile parlarsi e ancora prima ascoltarsi. In una parola incontrarsi. Per questo ne segue che ai tanti giovani che crescono in tale atmosfera risulti difficile pensare ad un'origine. Ognuno finisce così per vivere il suo segmento di presente come se fosse l'unica cosa che conta.

 

Educare alla cura dell'origine, significa ritrovare il senso della nascita che appare essere - ancora più della censura della morte - l'autentica rimozione della nostra civiltà!

In effetti quello che manca oggi è la percezione di pro-venire da altro e di non essere autosufficienti perché nessuno, per quanto possa darsi da fare, si è, in realtà, fatto da sé. Al tema della generazione e dell'origine si collega strettamente quello dell'autorità. Non per caso la crisi di quest'ultima si è manifestata, in modo emblematico, in quella 'morte del padre' che ha caratterizzato, a partire dal Sessantotto, le società occidentali, ridefinendo le coordinate dei rapporti non solo all'interno della famiglia, ma anche della scuola, della Chiesa, dell'intera società.

 

Il motivo della fuga dall'autorità è che essa viene sistematicamente confusa con il potere. E quest'ultimo risulta sempre sospetto. Mentre in realtà tra queste due cose c'è una distanza abissale. Il potere infatti si esercita attraverso una coercizione fisica, psichica, economica o sociale con cui si manipola l'altro, la seconda invece è una qualità per cui uno è degno di essere ubbidito, cioè ascoltato. L'origine del termine autorità aiuta a svelarne il senso: il verbo augere in latino significa far crescere e, in senso traslato, far nascere. Da essa deriva anche il sostantivo auctor: chi ha l'autorità la trae, cioè, dalla sua capacità di promuovere e dalla responsabilità che ne deriva.

 

Occorre dunque intensificare per un verso la capacità di ascolto reciproco tra giovani e adulti, superando l'afasia degli uni e l'indifferenza degli altri che stanno creando delle paratie stagne tra le diverse generazioni. Con effetti deleteri sugli e sugli altri. Sugli adulti sempre più rinchiusi nei loro ritmi vertiginosi e incapaci ormai di raccontare qualcosa di importante, limitandosi a fornire informazioni generiche e comunque non esigenti per il proprio vissuto. Sui giovani che sono sempre più sprovvisti di interlocutori in grado di orientare nel vortice delle possibilità che sembrano moltiplicarsi per effetto anche della tecnologia. Solo all'interno di una rinnovata capacità e disponibilità di ascolto si può creare una nuova relazionalità tra le generazioni, in cui uno stile dialogico e persuasivo, possa far emergere dei riferimenti sicuri e affidabili.

 

Ciò esige però da parte degli adulti un credito di fiducia che solo può far scattare l'attenzione dei giovani. Come annota Benedetto XVI nella citata Lettera:

'L'educazione non può dunque fare a meno di quell'autorevolezza che rende credibile l'esercizio dell'autorità. Essa è frutto di esperienza e competenza, ma si acquista soprattutto con la coerenza della propria vita e con il coinvolgimento personale, espressione dell'amore vero. L'educatore è quindi un testimone della verità e del bene: certo, anch'egli è fragile e può mancare, ma cercherà sempre di nuovo di mettersi in sintonia con la sua missione'.

 

Ci vogliono dunque adulti che non abbiano rinunciato per principio o di fatto a farsi carico degli altri, cioè che siano disposti a mettersi in gioco, dal momento che la trasmissione di ciò che è importante non avviene mai 'a bocce ferme', ma sempre all'interno di un vissuto concreto. E' proprio l'esperienza d'altra parte, quel 'di più' che può offrire al giovane e che nasce come impasto reale tra i principi professati e la concretezza del quotidiano. Anzi – per dirla con Romani Guardini: 'l'educatore deve aver ben chiaro al riguardo che la massima efficacia non viene da come egli parla, bensì da ciò che egli stesso è e fa. Questo crea l'atmosfera; e il fanciullo, che non riflette o riflette poco, è soprattutto ricettivo all'atmosfera. Si può dire che il primo fattore è ciò che l'educatore è; il secondo è ciò che l'educatore fa; solo il terzo, ciò che egli dice' (ID., Le età della vita, Milano, 1986, 36).

 

2.3 La cura dell'altro: la riscoperta della socialità

 

Si va diffondendo un modo di vedere che concepisce l'individuo come tendenzialmente auto-sufficiente e in sé completo. Secondo questa concezione le relazioni, anche se necessarie per molti versi, non sarebbero costitutive della persona. Da qui una ricorrente enfasi sull'auto-determinazione che non tarda a rivelarsi patetica quando pretende di annullare l'esperienza comune per cui 'nessun uomo è un'isola'. Al contrario, tutti sappiamo di dipendere in qualche modo – dalla nascita alla morte - dagli altri, giacché nessuno basta veramente a se stesso. Occorre per questo riscoprire accanto ad una legittima libertà dagli altri per garantire la propria indipendenza, un'altra non meno necessaria libertà, quella con gli altri, per ampliare il proprio orizzonte.

 

Si richiede, in altre parole, di declinare l'appello alla libertà sia nella sua versione negativa, cioè come libertà da tutti i condizionamenti, sia nella sua versione positiva come libertà per tutti gli incontri. Ciò che sembra rarefarsi, in effetti, è la percezione di un legame che precede e in qualche modo fonda la stessa dinamica della libertà, anche perché comunemente ci si attesta più sui vincoli che non sulle opportunità della relazione. Forse per questo Benedetto XVI, nel suo Discorso al Collège Des Bernardins (12.09.2008), tratteggiando un affresco della condizione contemporanea, ha richiamato con chiarezza questo punto:

 

'Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l'arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione'.

 

Si tratta di smascherare, dunque, i miti di una società individualista che la identifica con l'autonomia, lasciando sistematicamente nell'ombra quell'altro suo aspetto costitutivo, per cui essa è anche responsabilità verso se stesso e verso gli altri. Da questo punto di vista, il pensiero contemporaneo offre interessanti spunti di riflessione, come quando con E. Lèvinas sviluppa l'idea di prossimità come qualcosa di anteriore a qualsiasi convenzione e per questo fonte di una 'responsabilità anteriore alla libertà' (ID., Altrimenti che essere o al di là dell'esistenza, Milano, 1983, 110) o quando con H. Jonas ricerca un ancoraggio ontologico, che rende 'la responsabilità stabilita dalla natura, ossia esistente per natura (...) irrevocabile, non negoziabile e globale (ID., Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica, Torino, 1990, 120)' .

 

Il primo e fondamentale luogo in cui si impara ad essere-con è e resta la famiglia. Ed è emblematico che lo sfilacciamento progressivo di questa esperienza primordiale porti con sé un impoverimento dei legami finanche dentro la trama sociale più diffusa. Questo fatto spiega la costante attenzione ed azione della Chiesa perché dentro la tutela e la promozione della realtà familiare si nasconde un investimento di lungo periodo non solo per i singoli, ma per la stessa comunità sociale.

 

Nelle nostre città, per altro, gli spazi pubblici, dove le persone possono incontrarsi, si sono paurosamente rarefatti, fin quasi a scomparire. Nei paesi il bar, la farmacia, il circolo, il corso, la piazza, erano punti di riferimento, in cui tutti si potevano ritrovare. Nei contesti urbani ormai gremiti di macchine, dove le strade e i palazzi si somigliano con prevedibile ripetitività, questi punti di riferimento sono scomparsi e proliferano invece i 'non-luoghi', ambienti asettici e anonimi come le circonvallazioni, gli aeroporti, le vie desolate della periferia, dove non si può 'stare', ma solo passare in fretta.

 

Di fronte a questo degrado, la parrocchia – come a me risulta per esperienza diretta durante la Visita pastorale che sto facendo nella nostra Chiesa di Genova - costituisce in molti casi, un ultimo spazio dove incontrarsi, manifestando il cuore veramente cattolico dell'esperienza cristiana che sa aprirsi a persone e istanze anche lontane e provenienti dall'esterno.

 

2.4 La cura di Dio: la riscoperta della spiritualità

 

La nostra cultura diffusa instilla ovunque, ma soprattutto nei giovani, la convinzione che nulla di grande, bello, nobile, ci sia da perseguire nella vita, ma che ci si debba accontentare di un 'qui e ora', di obiettivi di basso profilo, di una navigazione di piccolo cabotaggio, perché vano è puntare la prua verso il mare aperto. L'esito finale della cultura nichilista è una sorta di grande anestesia degli spiriti, incapaci di slanci e quindi inerti. In tal modo i sogni e i desideri tipici dei giovani vengono frantumati proprio mentre chiedono invece di essere protetti, coltivati nel lavoro educativo, e sospinti verso mete nobili e alte, che noi sappiamo essere a misura dei giovani.

 

Questo, oggi, può essere considerato l'obiettivo di fondo dei 'percorsi di evangelizzazione e di educazione' da proporre ai giovani, reagendo a quell'atteggiamento rinunciatario che sembra impedire questo obiettivo realistico anche nella situazione di oggi. So bene infatti che proprio qui si annida una particolare sfiducia, ritenendo che l'organizzazione della vita giovanile e ancor più il tipo di applicazione intellettuale a cui sono abituati, impressionistica ed episodica, quasi falcidi – dalla base – la possibilità di itinerari distribuiti nel tempo e dunque progressivi e metodici.

 

Ora, non c'è dubbio che occorra saggiamente tener conto di una serie di condizionamenti e abitudini di apprendimento, non però per arrenderci, quanto per calibrare secondo proporzioni nuove i momenti della proposta. A partire da ciò che sta oggettivamente al centro di ogni percorso cristiano, ossia l'adorabile persona di Cristo Signore. Ciò tuttavia non significa che, come si diceva una volta, Cristo, 'arriva alla fine della proposta': l'annuncio kerigmatico oggi cattura più solitamente dall'inizio, perché è realmente il fascino esercitato dalla persona di Gesù a colpire, per contrasto, magari come ragione di un evento che turba o come senso profondo di una testimonianza di vita che colpisce e sgomenta.

 

Ma anche come reazione abissalmente altra rispetto al vuoto desolante, rispetto ai progetti di de-costruzione che passano per l'assunzione delle droghe o dell'alcool, per i riti dell'assordimento e dello stordimento. Cristo allora diventa come il risveglio inaudito ad una vita diversa, radicalmente altra, ideale subito concreto e pertinente, principio riordinatore di un'esistenza via via capace di altri sapori o di altri riti.

 

E' da qui, dall'evento dell'incontro già nitido ma non ancora completo, che può iniziare il cammino della conoscenza che, oggi forse ancor più di ieri, converge fino ad essere un tutt'uno con quello della conversione, cioè di una vera meta-noia che porterà i giovani, con i ritmi di ogni crescita, con gli inevitabili alti-e-bassi di ogni ascesi, ad assumere su di sé 'il grande sì della fede', lasciandosi personalmente sagomare da esso nella propria e specifica esistenza, con i suoi talenti e la sua vocazione.

 

Il sì della fede che, a cerchi concentrici, maturerà fino ad includere e a riconoscersi nel sì che la Chiesa dice a Cristo, in tutte le sue fibre e fino al cuore del mondo, dunque con la disponibilità a compromettersi anche pubblicamente, sapendo andare quando serve controcorrente. Giovanni Paolo II ebbe un giorno ad osservare che il 'problema essenziale della giovinezza è profondamente personalistico' (GIOVANNI PAOLO II, Varcare le soglie della speranza, 121), e per ciò stesso rivolto anzitutto all'interiorità personale, e quindi alla vita vissuta nella sua interezza.

 

Su questo asse caratteristico del personalismo cristiano il giovane saprà gradatamente innestare esperienze e scoperte, gioie e insuccessi, ma avendo anzitutto preso coscienza che 'la verità non è un'imposizione. Né è semplicemente un insieme di regole. E' la scoperta di Uno che non ci tradisce mai, di Uno del quale possiamo sempre fidarci' (BENEDETTO XVI, Discorso all'incontro con i giovani e seminaristi, New York, 19 aprile 2008). Compito della comunità cristiana e dei suoi educatori è far emergere dal mazzo delle aspirazioni i buoni sogni e i buoni desideri, fra tutti il desiderio di Dio (cfr. A., BAGNASCO, Prolusione all'Assemblea generale della CEI, 26 maggio 2008).

 

3. Educare è sperare

 

Fare memoria del decennale della fondazione della vostra Università Popolare – che come è noto è un'associazione di educazione e di apprendimento permanente, nata nel 1999 nel solco tracciato dalla carità di San Luigi Orione – è diventata un'occasione preziosa per ritrovare insieme le ragioni per una nuova stagione di impegno educativo. Si è detto che si tratta di una urgenza, ma anche di una sfida che esige di essere raccolta. Ciò che è più necessario infatti è congedarsi definitivamente da quell'atmosfera diffusa, frutto di una mentalità e di una cultura precise, che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita.

 

Chi non coglie che oggi 'troppe incertezze e troppo dubbi...circolano nella nostra società e nella nostra cultura' per cui 'diventa difficile così proporre alle nuove generazioni qualcosa di valido e di certo, delle regole di comportamento e degli obiettivi per i quali meriti di spendere la propria vita' (BENEDETTO XVI, Discorso per la consegna alla Diocesi di Roma della Lettera sul compito urgente dell'educazione, 23 febbraio 2008)?

 

Infatti, non è con i sogni declamati che si costruisce una società nuova e migliore, né con le requisitorie saccenti o le suggestioni vaghe quanto utopiche, ma con i percorsi educativi, con la serietà e l'assiduità delle proposte, con la testimonianza dei maestri, con la severità e lo sforzo diuturno che è proprio di ogni conquista. La vaghezza dell'impegno morale, la fragilità o la banalità di troppe proposte pseudo-educative certamente non permettono quell'urgente e positivo impegno dell'educazione che, quando viene meno, porta anche alla disaffezione verso la comunità e alle appartenenze deboli che ne derivano. Guai, tuttavia, a cedere al virus della sfiducia.

 

Occorre ritrovare dunque – come a me è parso di fare con voi quest'oggi - le ragioni per sperare al fine di ricreare le condizioni per educare perché – come sostiene Benedetto XVI – 'alla radice della crisi dell'educazione c'è infatti una crisi di fiducia nella vita' (Lettera sul compito urgente di educare). Più grande è la crisi educativa in cui ci troviamo, più grande dev'essere la speranza che vi pone rimedio. I cristiani dispongono della 'grande speranza', orientata a Dio e da Dio motivata. Essa è dono e impegno e attende di essere anche la causa risolutiva della questione educativa, oggi in grande difficoltà.

 

'La speranza che si rivolge a Dio non è mai speranza solo per me, è sempre anche speranza per gli altri: non ci isola, ma ci rende solidali nel bene, ci stimola a educarci reciprocamente alla verità e all'amore (Lettera sul compito urgente di educare)'. Per questo nel consegnare la citata Lettera alla Diocesi di Roma, il Papa concludeva: 'Anche nel nostro tempo educare al bene è possibile, è una passione che dobbiamo portare nel cuore, è un'impresa comune alla quale ciascuno è chiamato a recare il proprio contributo'.

 

card. Angelo Bagnasco

http://http://www.diocesi.genova.it/

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