Ha ancora senso la pena detentiva dell'ergastolo ai giorni nostri? La risposta pensiamo che possa essere affermativa.
“Tutti portiamo in noi il nostro ergastolo, i nostri delitti e le nostre devastazioni”. E’ Albert Camus a scriverlo in L’uomo in rivolta. Gli errori, le nefandezze, le malvagità gratuite, le meschinerie le paghiamo tutte e all’istante nel foro della nostra coscienza, vuole dirci Camus, posto che la coscienza sia retta ovviamente. Lì viene emesso un verdetto di colpevolezza per il male commesso e sempre lì viene comminata una pena – il cosiddetto rimorso di coscienza – immediatamente esecutiva. Pena che poi chiede soddisfazione attraverso il compimento di atti buoni o tramite l’offerta delle proprie sofferenza in riparazione del danno commesso. E quella voce interiore che riprova in continuazione non cesserà di sussurrare o gridare il male commesso per rammentarcelo finchè appunto tale male si sarà dissolto in un’azione davvero assolutoria che donerà di nuovo quiete allo spirito.
Tanto più l’uomo si fa spregevole compiendo il male tanto più la pena interiore della coscienza sarà severa. Una sanzione che per i delitti più gravi, ci suggerisce Camus, assomiglierà ad un vero e proprio ergastolo dell’anima. Ma se questa può essere la condizione interiore dell’assassino, dello stupratore, del tiranno sterminatore di popoli è giusto che tale intima condizione trovi un suo omologo anche all’esterno, nelle leggi degli uomini? In altre parole, ha ancora senso la pena detentiva dell’ergastolo ai giorni nostri? La risposta pensiamo che possa essere affermativa.
Innanzitutto il “fine pena mai” risponde ai tre fini classici della sanzione penale. In primis lo scopo retributivo: riparare al volto della giustizia deturpato dall’atto criminale. La pena chiede di essere commisurata al male commesso: più questo è grave più la risposta sanzionatoria dello Stato sarà severa. E’ la qualità dell’illecito, insieme ad altre variabili, che determina la qualità della pena. Questo proprio perché più il vulnus alla giustizia è stato esteso e profondo, più estesa e profonda dovrà essere la sanzione per ricucire lo strappo inferto al bene. E’ questione di proporzioni. E dunque ad esempio a chi ha tolto un vita occorrerà comminare una sanzione che rispecchi la gravità dell’atto commesso. Chi in radice contraddice un bene fondamentale della persona merita una pena altrettanto radicale. Il “per sempre” dell’ergastolo è il riverbero giuridico della negazione assoluta espressa dalla condotta delittuosa.
In secondo luogo l’ergastolo senza dubbio ha una potenziale efficacia di deterrenza nei confronti dei consociati. Se su un versante è quanto mai evidente che vi sono criminali i quali si sono macchiati di orrendi delitti anche se ben consci che potevano finire dietro alle sbarre per sempre, su altro versante non si può escludere a priori che altri aspiranti rei si sono astenuti dal compiere il male per paura di questa sanzione così grave. Senza tener conto poi che l’efficacia dell’elemento di intimidazione della pena risiede non tanto nella previsione contenuta nei codici della sanzione stessa, cioè nella sua esistenza cartacea, bensì nella reale irrogazione della pena, aspetto più teorico che pratico da noi in Italia. Altrimenti l’antifona che rischia di passare è la seguente: “Delinqui pure, tanto il carcere a vita non c’è più”.
L’obiezione che si solleva in merito all’ergastolo riguarda il più delle volte il fine rieducativo di una simile detenzione. Si argomenta più o meno così: permettere ad un condannato di lasciare il carcere solo dentro una bara non consentirà a questa persona di rifarsi una vita. L’obiezione è mal fondata e risente di una torsione, se non perversione, del fine rieducativo della pena. Secondo una prospettiva illuminista e poi comunista la sanzione doveva servire sì per la rieducazione del reo, ma intesa nel senso di “reinserimento sociale”, cioè allineamento agli standard comportamentali vigenti e legali. Il fine pedagogico, cosiddetta teoria dell’emenda che si incardina su un’antropologia fondata su una morale naturale ed oggettiva, viene sostituito dalla riabilitazione sociale, più centrata sull’obiettivo della mera assenza dei conflitti sociali, un obiettivo di basso profilo a dire il vero. Forse è su questa linea che si è mossa la Corte Europea dei diritti dell’uomo la quale in una sentenza del 9 luglio scorso ha stabilito che l’ergastolo, senza possibilità che questo si tramuti mai in una scarcerazione o nel caso di impossibilità di revisione del processo, è una violazione dei diritti umani.
Anche oggi nel nostro ordinamento giuridico parlare di fine pedagogico della pena sa di inappropriato moralismo tipico di uno Stato etico, a maggior ragione se ci riferiamo all’ergastolo. Invece uno degli elementi di efficacia della sanzione è la riconquista da parte del condannato di quella parte di umanità andata persa con il delitto. Esiste per paradosso quindi un vero e proprio diritto alla pena da parte del colpevole perché tramite la sanzione egli si può emendare. L’ergastolo che ci portiamo in noi, per rifarci ancora a Camus, chiede che si concreti nella rispettiva condizione reale. Il “fine pena mai” non aggiunge ad un male compiuto dal criminale un altro male compiuto dallo Stato per vendetta. Non è contro l’uomo il carcere a vita, ma per l’uomo. In questa prospettiva il quantum della pena non nasce, o non dovrebbe nascere, solo dalla valutazione della gravità del delitto, ma anche dalla considerazione che più un delitto è grave più chi lo ha commesso necessita di emenda. E dunque l’ergastolo si attaglia al reo che avendo compiuto atti efferatissimi ha di fronte a sé di necessità una lunga strada per tornare ad essere pienamente uomo. Un lavoro su di sé lungo tutta una vita. Più il malato è grave più ha bisogno di una cura altrettanto robusta. E se il malato è cronico la terapia lo seguirà per tutta la sua esistenza.
La pena, proprio nel suo significato primigenio di “sofferenza”, è dunque strumento prezioso per ricostruire la dignità della persona negata dal volontario atto criminoso. E si può tornare ad essere uomini anche in carcere - posto che questo luogo sia davvero un luogo per il recupero del reo e non per il suo abbrutimento - anche quando il carcere è a vita. Anzi: il ritorno al bene e alla virtù di necessità deve compiersi prima dentro – dentro sé e dentro il carcere – altrimenti vivere da uomini liberi oltre le mura del penitenziario non ha senso. Però nel caso dell’ergastolo, una volta verificato che il recluso si è emendato, il carcere a vita non ha più senso di esistere avendo ormai soddisfatto il suo fine. E dunque per il reo si possono aprire le strade o della libertà o di altre pene minori. Ciò deve essere permesso anche nella consapevolezza che nessun uomo – neppure il mafioso pluriomicida, né il serial killer più sanguinario – si può ridurre alla sua colpa e dunque alla sua pena. L’uomo è chiamato per virtù propria e per grazia di Dio ad andare oltre ai propri errori. La pena quindi non deve essere l’ultima parola sulla persona che ha sbagliato. Negarlo sarebbe scadere nel determinismo più pessimista: tu sei un criminale e mai cambierai.
Senza dubbio comunque l’ergastolo esplica anche una sua funzione sociale, di beneficio quindi della intera collettività. Infatti ad esempio tiene separato il criminale dal consesso sociale, è di monito come abbiamo accennato a quanti vogliono delinquere e quindi esplica una funzione anche di garanzia e tutela della vita civile. Per il credente infine l'ergastolo richiama l'inferno, il luogo dove realmente la pena non avrà mai fine. In questo caso l'ergastolo ricorda uno dei Novissimi, lo mima in un certo modo su questa terra e inoltre offre al reo la possibilità di scampare alla pena infinita dell'aldilà perché ha scontato nell’aldiquà un pena non infinita seppur vitalizia. Uno strumento quindi di salvezza.
Detto ciò, come ricorda Tommaso D’Aquino nella Somma teologica, chi ha peccato deve pagare, ma il quantum della pena può stabilirlo solo il legislatore. Questo a dire che se da una parte l’ergastolo ha una sua ragion d’essere ciò non significa dall’altra che questo strumento deve essere sempre presente nei codici penali di tutte le nazioni. In casi eccezionali può essere anche sostituito con pene detentive assai lunghe. E’ il caso recente del Motu Proprio di Papa Francesco dal titolo “Sulla giurisdizione degli organi giudiziari dello stato della città del vaticano” dell’11 luglio scorso in cui, tra le altre modifiche, viene abolita la pena dell’ergastolo e sostituita con la reclusione da 30 a 35 anni. Una decisione motivata forse dall’esiguità, vicina allo zero, di reati gravissimi compiuti sul suolo dello Stato della Città del Vaticano e soprattutto dal desiderio di ricordare che la misericordia è la vera medicina di cui ha bisogno il reo. Un gesto che quindi non chiede di essere imitato da quegli ordinamenti giuridici complessi che regolano la vita di società altrettanto complesse dove l’ergastolo ha una sua ragionevolezza e necessità, ma vuole rimandare ai valori alti del cristianesimo che dovrebbero animare tutti i consessi civili.
Tommaso Scandroglio
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