L'incontro

Il tu che da senso al nostro io è quello dell'amicizia. Una vita che non è mai stata spesa nell'avventura dell'amicizia mi sembra sostanzialmente sprecata...

L'incontro

del 30 giugno 2017

Il tu che da senso al nostro io è quello dell’amicizia. Una vita che non è mai stata spesa nell’avventura dell’amicizia mi sembra sostanzialmente sprecata...

 

È al tramonto che si giudica una vita.

E al tramonto della vita, come dice S. Giovanni della Croce, saremo giudicati sull’amore. Sarà l’amore cioè a dire se la vita che abbiamo vissuto sarà stata o no una vita piena e degna. Chi non è mai stato un tu per qualcuno se ne va da questo mondo convinto di aver vissuto un’esistenza senza senso né valore. Se ne va vuoto, perché nessuno lo ha mai riempito.

Contemporaneamente, non avendo mai trovato qualcuno da riempire di sé e fecondare, egli non ha mai avuto una terra in cui mettere radici e se ne va avendo vissuto come un nomade, senza patria né casa, senza appartenenza né famiglia, senza lasciare traccia né eredità, in una parola senza mai aver potuto dare un senso duraturo alla propria vita.

Chi non ha mai incontrato un tu perde la fede in se stesso, non è più sicuro del proprio valore e della propria bellezza, al limite nemmeno della propria esistenza, perché è l’amico che ci conferma nella nostra identità e nel nostro valore.

Senza un tu in cui riversarci e rispecchiarci non possiamo conoscere né il nostro valore né il nostro limite. Per questo chi non lo ha mai incontrato si abbandona alla frenesia del possesso, illudendosi in questo modo di darsi un’identità e un nome, riempiendo il vuoto esistenziale creato dall’assenza di relazioni. Verga racconta questa povertà spirituale in un romanzo straordinario: “La roba”. Chi non ha mai incontrato un tu tratta le persone come se fossero roba.

Non nego, in linea di principio, che poche anime elette possano riconoscere in Dio questo tu in cui riversarsi e da cui essere riempite, ma credo anche che per la stragrande maggioranza di noi, anche credenti, anche uomini di preghiera, il tu che da senso al nostro io è quello dell’amicizia. Una vita che non è mai stata spesa nell’avventura dell’amicizia mi sembra sostanzialmente sprecata, una vita che non è mai stata illuminata dallo sguardo di un amico mi sembra sostanzialmente buia.

Non è affatto scontato che io possa incontrare un tu.

Viviamo in un mondo di relazioni, incontriamo decine di persone ogni giorno, e con molte di loro abbiamo rapporti anche cordiali e affettuosi, ma ancora sostanzialmente generici. È raro che la persona che incontriamo emerga dalla grigia nebbia del generico e dell’indistinto per diventare effettivamente una persona-per-noi.

Quando avviene è come una teofania. In quel momento l’altro ci appare nella sua preziosità miracolosa, quasi sacrale. Quando incontriamo un tu percepiamo in maniera oscura di essere di fronte ad un’immagine di Dio e può darsi perfino che ci prenda la tentazione di cadere in ginocchio ed adorarlo.

Se questo accadesse sarebbe una tragedia, perché confondendo l’immagine con il suo significato la distruggeremmo nella sua verità di immagine, perdendo di vista il suo senso originario, il suo rimando ad un Amore-Oltre, che è l’unico che può davvero saziarci. L’amico diventerebbe allora il nostro idolo – di tutti gli idoli invero il più pericoloso, perché il più simile al Dio vero – e come ogni idolatria l’amicizia diventerebbe in fondo una forma di possesso e manipolazione, distruggendo così l’oggetto stesso della sua adorazione.

L’incontro può avvenire in due modi, può seguire due vie, quella della manipolazione o quella dello stupore. Se mi muovo come un manipolatore avrò nell’incontro un obiettivo predeterminato, ciò che mi interessa non sarà l’altro in sé, ma ciò che voglio da lui. In questo modo l’incontro diventa sostanzialmente una pro-fanazione, un privare l’uomo del suo carattere sacro ed esclusivo, un renderlo oggetto o mezzo per raggiungere un qualche mio fine o per ottenere qualcosa da lui. In questa prospettiva l’incontro diventa un problema tecnico, la domanda che mi pongo sarà: quali sono le cose più efficaci da fare e da dire per raggiungere il risultato voluto?

Il dramma è che così facendo l’altro cessa di esistere-per-me in quanto persona. Nella mia mente, nella mia percezione egli si è irrevocabilmente mutato ed è diventato definitivamente diverso da ciò che è. Per questa via non incontro più l’altro, ma la mia idea-di-lui. La manipolazione consisterà appunto nel tentativo di far coincidere la mia idea dell’altro con la realtà. Non c’è manipolazione però che mi permetta di giungere al centro dell’altro, a quel cuore del cuore, a quell’intimità profonda che è l’ethos di ciascuno, la sede dei valori, il santuario da cui promana la libertà.

Naturalmente è possibile che l’altro si lasci manipolare, ma così facendo egli diventa pro-fano a se stesso, vietandosi l’accesso al santuario interiore, che rimane così precluso anche per lui, che cedendo alla manipolazione ha finito con lo smarrire la sua stessa identità, con il dimenticare chi egli stesso è, quali sono i suoi obiettivi e le sue speranze, come coloro che vengono sedotti dal canto delle sirene. Per questo la manipolazione è ultimamente fallimentare, perché anche quando l’altro accetta di essere manipolato non diventa mai un tu per me, perché accettando di essere manipolato si è reso oggetto ed ha cessato di essere un io.

Solo lo stupore ci permette di cogliere la verità dell’altro nell’incontro.

L’incontro con un tu all’inizio è sempre un’esperienza di contemplazione, un istante perfetto in cui vediamo come per la prima volta apparire il volto dell’altro. E non è raro che, come Pietro, assistendo a questa trasfigurazione anche noi possiamo desiderare di costruire tre tende e restare in quel luogo, in quell’attimo, a cui dire come Faust: “Fermati, sei così bello”.

Ebbene facciamolo! Superiamo la paura di avventurarci nella contemplazione del volto dell’amico, in esso non ci perderemo, al contrario vedremo riflesso nei suoi occhi il nostro stesso volto nella sua verità, mentre saremmo davvero perduti, e definitivamente, se ci illudessimo di possederci senza questo attimo di ek-stasis, senza questo istante in cui usciamo da noi stessi senza rete, senza sicurezze, senza difese.

Quando finalmente si scorge il volto dell’altro, quel volto che magari è rimasto nascosto per anni davanti ai nostri occhi, se ne intuisce, come abbiamo detto, il carattere di sacramento, di segno sacro dell’Amore. In quel momento la reazione più naturale, immediatamente dopo lo stupore, è la gratitudine.

Si comprende infatti che quel tu, proprio quell’unico e particolarissimo tu, è un dono, un dono dato a me, unicamente ed imprescindibilmente a me. Dio mi ha donato una persona! Nel mistero del suo amore Egli ha riservato a me, piccola scintilla smarrita di fronte al fulgore del suo sole imperiale, una persona da amare e custodire, in cui abitare e da cui farmi abitare!

Altre amicizie verranno, altri tu si incontreranno e questo stesso tu che mi è donato avrà a sua volta altre relazioni e legami, ma il dono che ci unisce, il legame che ci fa essere unici uno per l’altro, quello è davvero irripetibile, riservato solo a noi due, non si potrà mai più ripetere né replicare con nessun altro.

Per questo dall’incontro scaturisce spontanea la gratitudine per il dono ricevuto e guai a volersi impossessare del dono, esso è così fragile! Se cercassi di replicare questo istante artificialmente, tentando di riprodurre le circostanze o i tempi dell’incontro, inevitabilmente lo banalizzerei distruggendolo, perderei quel carattere miracoloso che ne ha fatto un evento fondante, perderei la sua dimensione sacramentale, il suo essere segno che mi rimanda oltre.

Non c’è che da attendere. Gli amici si attendono sempre.

Non c’è che da attendere che il Sommo Donatore voglia ancora una volta donarci l’uno all’altro. Così il movimento dell’amicizia è tutto in questo continuo riceversi e restituirsi, “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Per questo l’amicizia è virginale nella sua essenza, perché esclude in modo radicale ogni forma di possesso.

Nel suo carattere sacro di rivelazione, di teofania, l’incontro con un tu mi invita a “togliermi i sandali”, come Mosè di fronte al roveto ardente. Significa che nella “terra” che è l’altro si entra a piedi nudi, senza protezione, facendone tutta l’esperienza, anche dolorosa (i piedi nudi si feriscono), significa che si rinuncia ai simboli del proprio status sociale (le scarpe le portano i ricchi) abbassandosi, umiliandosi, significa che si è disposti a cambiare, che si abbandonano le proprie sicurezze.

In una parola l’amicizia è un formidabile appello alla conversione, perché l’amico non si limita a rivelarmi la verità di me stesso, ma mi mostra quanto sono amabile e bello ai suoi occhi, egli trae così dal pozzo nero della mia anima tutto il meglio, mostrandomi la via per crescere e incoraggiandomi nel cammino. Guardando all’amore dell’amico io desidererò continuamente migliorarmi, per poter corrispondere in qualche modo al suo amore.

Per questo l’incontro è sempre l’inizio di un’avventura. Quando accade si ha la percezione di essere sulla soglia di un cambiamento importante nella vita. È come l’attimo che precede il big bang, si avverte una concentrazione di energia vitale che contiene già in nuce tutta la storia che si dipanerà successivamente in quell’amicizia.

Certo, in questa fase si è ancora di fronte ad un mero potenziale, che potrebbe anche disperdersi, perché l’amicizia è un’alchimia difficile e non è detto che il tu che per un attimo si è rivelato a me sia effettivamente quello con cui camminerò per un tratto più o meno lungo, auspicabilmente per sempre, nel cammino della vita. Potrebbe essere anzi che il senso profondo di quell’apparizione divina sia concluso in se stesso, che il suo compito fosse solo quello di risvegliarmi, di farmi uscire dalla grotta per avventurarmi nel mondo delle relazioni, ogni incontro è una storia in sé. Tuttavia, sia che il suo potenziale debba esprimersi tutto intero in un attimo di perfetta chiarità o dipanarsi nell’arco di una vita, la sensazione della svolta che l’altro ha portato in me è netta.

Se ho incontrato un tu, so che la mia vita da quel momento in poi non sarà più la stessa.

 


Di Don Fabio Bartoli

Tratto da https://lafontanadelvillaggio2.wordpress.com

 

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