Metodi collaborativi liberano dall'angoscia dei grandi numeri, delle scadenze, dell'improvvisazione. Chi li usa lo sa: la classe diventa un insieme di gruppi di scopo...
Se sapessi di avere una classe di trenta e più ragazzi prima mi dispererei poi mi rimboccherei le maniche, come mi è capitato. Se il lavoro dell’insegnante fosse quello di «erogare» lezioni i numeri non conterebbero, caricheremmo le nostre lezioni sulla Rete e ci risparmieremmo l’odore della classe.
Se teniamo in piedi il sistema «analogico» è perché siamo convinti che insegnare sia una relazione attuale: spazio e tempo condivisi nel dinamismo della vita e delle vite. In classi fatiscenti o belle, sovraffollate o ordinate, abbiamo sempre tre compiti dettati dalla professione: amore per ciò che si insegna (conoscenza e passione: studium), amore per il chi a cui si insegna (empatia: riconoscimento dello studente come soggetto di un inedito stare al mondo e non oggetto da cui ottenere prestazioni), amore per il come si insegna (creatività didattica che rinnova ogni lezione in base ad allievi e contesto: metodo).
Ma perché il lavoro in classe sia efficace occorre essere messi nelle condizioni di poter curare queste tre dimensioni: avere troppi studenti mina (oltre che la pazienza) l’efficacia del lavoro. Ho sempre contato le mie ore di insegnamento non sulla base delle ore in classe (le famose 18 ore), ma delle ore che richiede il numero di alunni: interrogazioni, colloqui con i genitori e con lo studente, programmi mirati, correzione compiti, attività di potenziamento fragilità e di sviluppo talenti.
Aggiungerei al dibattito sulla buona scuola (anche se sarebbe tempo di agire più che discutere su problemi evidenti da anni) di considerare la possibilità di aggiungere un coefficiente correttivo del numero di ore in cattedra, basato sul numero di alunni per classe. Conterei quasi come doppie le ore in una classe da 30 e più alunni, considerato 15 il numero ideale. Con tutti i precari in cerca di ruolo è proprio necessario mortificare insegnanti già oberati e stanchi, invece di investire in modo coraggioso su nuove leve?
Ma mentre si dibatte noi entriamo in classe lo stesso: proprio per quei 30 e più. Si può insegnare in una classe così? Forse sì a fronte del correttivo proposto sopra, ma non solo. Siamo ancorati a un tipo di lezione frontale in cui i ragazzi sono oggetto del nostro sapere da conferenzieri. Tutto il contrario del cosiddetto «apprendimento cooperativo»: attività che permettono al docente di essere meno protagonista in classe e più nella preparazione della lezione (obiettivi, strategie, tempi, verifiche chiari e dichiarati: non si fa così sul lavoro?). L’insegnante diventa orientatore e i ragazzi soggetti dinamici e protagonisti dell’apprendimento.
In una cultura dal sapere sempre più reticolare, collaborativo, induttivo, è necessario rinnovare una scuola ancora basata quasi del tutto su processi di apprendimento frontali e generici, individualistici, deduttivi e ripetitivi.
Metodi collaborativi liberano dall’angoscia dei grandi numeri, delle scadenze, dell’improvvisazione. Chi li usa lo sa: la classe diventa un insieme di gruppi di scopo, connessi in un tipo di apprendimento attivo e responsabile anche verso gli altri, senza per questo abbassare l’asticella dell’impegno, anzi la si alza.
L’apprendimento solipsistico ci rende insensibili alle difficoltà degli altri e insensatamente conflittuali, al contrario di quando bisogna occuparsi e poter contare sul sapere altrui: conosco una classe in cui la presenza di un disabile ha reso il gruppo unito, collaborativo, aperto e più impegnato. Presi da narcisismo auto-affermativo e da guicciardiniano interesse per il nostro «particulare», molta della nostra italica difficoltà a occuparci del bene comune trova in classe le sue radici e, in una scuola rinnovata, la sua possibile cura.
Alessandro D'Avenia
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