Federico Faggin: gli esperti lo considerano il primo vero microprocessore, lo chiamano «the miracle chip» perché aprì la strada all'informatica di massa come la conosciamo oggi. "Pensiamo di essere delle macchine: siamo anche macchine, ma non solo delle macchine. Questo è il senso profondo della mia ricerca".
Sul chip «4004» prodotto dalla Intel nel 1971 sta scritto «F.F.»: sono le iniziali di Federico Faggin. Gli esperti lo considerano il primo vero microprocessore, lo chiamano «the miracle chip» perché aprì la strada all’informatica di massa come la conosciamo oggi: fu la «creta» modellata dalle mani di ragazzi come Bill Gates.
Perito elettronico e fisico vicentino, cresciuto in Olivetti, Faggin nel 1968 è stato un precoce «cervello in fuga» nella Silicon Valley, dove vive da 45 anni. Alla fine degli anni ’70 litigò con Intel e si mise in proprio creando la mitica Zilog di Cupertino, un piccolo regno di idee avanzate per l’informatica, anche molto redditizio. Con il suo gruppo ha inventato cose come il touchpad, che oggi equipaggia tutti i notebook e netbook, ed è stato tra gli sviluppatori del touchscreen. Negli anni ’80 studiava un telefono intelligente da connettere al personal computer (oggi abbiamo Skype), i primi sistemi di posta elettronica, l’interazione voce-dati a distanza (sta arrivando Siri in italiano), sensori per la fotografia digitale (con la sua Foveon). Stufo della supertecnologia, Faggin ha fondato la «Federico and Elvia Faggin Foundation» per lo studio della consapevolezza. Arrivato a 70 anni ha deciso di dedicare le sue energie a cercare di far luce su cosa sia la coscienza, non con i metodi di Platone, ma con quelli di Einstein, Turing, Popper & C. In questi giorni il grande tecnologo dell’informazione è a BergamoScienza, manifestazione che si tiene fino al 21 ottobre e che domenica accoglierà James D. Watson, lo scopritore (con Crick) del Dna.
Professor Faggin, lei ha lavorato prima sul microprocessore, il cuore del pc, poi su touchpad e touchscreen...
«Il cuore e la pelle, sì».
Ora si occupa della sua «anima».
«Di consapevolezza. Verso la metà degli anni ’80 mi ero interessato alle reti neuronali, si cominciava a capire qualcosa di come funziona il cervello umano e su quella base mi sono buttato in questa nuova direzione per cercare di realizzare un nuovo componente informatico di tipo "cognitivo": l’idea era quella di costruire un computer che impara da solo e quindi potrebbe evolvere come un sistema vivente. Quello che conosciamo oggi non impara niente, è una macchina che, semplicemente, fa perfettamente e molto velocemente ciò che gli si dice di fare».
L’uomo è un’altra cosa.
«Noi abbiamo la capacità di captare dai sensi le regolarità dell’informazione che ci attraversa, e da queste all’interno del nostro cervello sappiamo costruire un modello della realtà. Quanto all’architettura del sistema, a come ciò possa avvenire, però, abbiamo fatto pochi passi. Io mi sono buttato in quella direzione, con le reti neuronali già si potevano realizzare certe strutture di riconoscimento di immagine e della voce che erano molto meglio dei tradizionali modi dell’intelligenza artificiale top-down, ma dopo cinque anni mi è parso chiaro che non era possibile arrivare per quella strada a costruire un sistema cognitivo».
Ed è stato conquistato da domande più filosofiche.
«Man mano che studiavo la neuroscienza mi chiedevo perché nessuno nominasse mai il problema della consapevolezza. Era come l’"elefante nella stanza", come si dice in inglese, cioè qualcosa che è impossibile non notare, ma che nessuno voleva riconoscere. Come funzioni, che cosa sia la coscienza non lo sappiamo».
Qual è la differenza fra un computer di oggi e quel poco che riusciamo a capire del cervello? Un tipo di «processore» diverso?
«Non capiamo come il cervello rappresenti l’informazione. In un computer attuale essa è rappresentata con numeri binari che sono stivati in memoria.... Nel cervello non sappiamo neppure dove si trovi la memoria! E tanto meno che tipo di information processing avvenga. Sappiamo un po’ di cose del funzionamento di questo e di quello, ma sono pezzettini, ci manca un’idea dell’architettura del sistema. Il cervello umano sembra usare vari approcci (analogico, digitale, spaziale, temporale), ma non si capisce come siano collegati. Rimane il grosso mistero di come tutto funzioni in un sistema che, oltretutto, è in grado di svilupparsi dal bambino fino all’adulto in maniera autonoma, e persino di ripararsi da solo: qualcosa di "magico". Tutta la nostra information technology è una stupidaggine se paragonata al cervello umano».
Non le sembra già straordinario che si cominci a balbettare questa lingua?
«Certo, abbiamo fatto grandissimi progressi che non voglio certo sminuire. Voglio dare però il senso delle proporzioni, di come la vita sia molto più avanti di quanto crediamo. Noi pensiamo che il cervello sia un computer: è certamente anche un sistema di elaborazione delle informazioni, ma non ha affatto le caratteristiche di un computer. Una volta che arrivano segnali elettrici nel cervello (così come li vediamo entrare in un computer) come questi vengono convertiti in una sensazione? Cosa significa vedere qualcosa di rosso? Questo "rosso" da dove viene? E la "forma" cos’è? Non si sa neanche dove cominciare. Siamo al buio completo».
Lei va a toccare domande che la filosofia si pone da 2.500 anni almeno.
«Certo. Oggi abbiamo un po’ più di tecnologia di quanto siamo invece sviluppati a livello psicologico, emotivo, spirituale, etico. Pensiamo di essere delle macchine: siamo anche macchine, ma non solo delle macchine. Questo è il senso profondo della mia ricerca. Però, ovviamente, viviamo in un modo scientifico e quindi asserzioni come questa devono essere provate: è il lavoro che abbiamo davanti».
Carlo Dignola
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