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LA CARNE LA MORTE IL DIAVOLO NELL'ESPERIENZA CRISTIANA

Il Cardinale Biffi sussurra al Papa le sue idee forti sulla Chiesa. Come una banda di poveracci può salvarci dall'assurdo... Pubblichiamo due meditazioni degli esercizi spirituali predicati dal cardinale arcivescovo emerito di Bologna alla Curia vaticana e a Papa Benedetto XVI per l'inizio della Quaresima di quest'anno: la seconda meditazione di lunedì 26 febbraio sul senso della morte, e la prima di giovedì 1 marzo sulla natura della Chiesa. L'editore Cantagalli ha raccolto il testo integrale degli esercizi in un libro che uscirà mercoledì 21 marzo.


LA CARNE LA MORTE IL DIAVOLO NELL’ESPERIENZA CRISTIANA

da Teologo Borèl

del 18 marzo 2007

 

Sul senso della morte

 

1 - La liturgia delle Ceneri, che ha aperto il tempo quaresimale, c’invita senza tanti complimenti anche a riflettere sulla nostra morte personale, e lo fa utilizzando le parole con le quali Dio, secondo la narrazione della Genesi, preannuncia i castighi che attendono Adamo dopo la sua trasgressione: “Polvere tu sei e in polvere tornerai” (Gen 3,19). Non è un soggetto di meditazione piacevole per nessuno; non è tra gli argomenti che giovano alla popolarità di un predicatore che si decide a trattarlo. E si capisce: la morte è per l’uomo una disfatta totale, tutto in essa viene azzerato. Il nostro destino appare qui assimilato a quello dei bruti, sicché c’è in questa nostra fine quasi un’oggettiva irrisione nei confronti di quanto, tra le creature viventi, ci fa diversi e più nobili: la razionalità, l’amore personale, il sentimento della bellezza, l’anèlito a una gioia senza offuscamenti e senza deteriorabilità. Solov’ëv nota che, considerata per se stessa, “la morte livella ogni cosa e di fronte ad essa l’egoismo e l’altruismo sono parimenti privi di senso”; e vuol dire che l’esistenza più perversa e quella più generosa hanno la medesima conclusione e ricevono, parrebbe, la medesima ricompensa.

2 - Il gesto dell’imposizione delle ceneri, con cui la sapienza della Chiesa inaugura la Quaresima, è significante e perspicuo: ci induce con forza a pensieri austeri e gravi. Ci richiama implacabilmente alla verità delle cose – dalla quale nella nostra superficialità siamo così spesso tentati di rifuggire – e così disperde molte illusioni dell’uomo: smentisce, per esempio, il convincimento inconscio (e irragionevole) che la vita terrena sia per noi un possesso inalienabile; sembra addirittura farsi gioco del culto ossessivo tributato alla salute fisica, quasi fosse una nuova religione capace di assicurarci una speranza illimitata e un benessere senza tramonto; relativizza la troppa fiducia e l’eccessivo entusiasmo suscitati dalle realtà fascinose del mondo, che sono anch’esse – come il nostro corpo mortale – effimere, destinate all’incenerimento e dunque a lasciarci disingannati. La liturgia che avvia la Quaresima – a una considerazione più approfondita – allude poi all’esito di sconforto che fatalmente attende chi conta solo su di sé, sulle sue forze, sulle sue fortune; e ci fa intravedere, col simbolo della cenere, la “cultura del niente”, che è l’approdo ineluttabile di chi non si risolve ad aprirsi a nessuna luce dall’alto. Questo è un rito che, a saperlo leggere, vanifica molte nostre divagazioni e ammutolisce le nostre chiacchiere. Ma proprio perciò – una volta che ci ha ridotti a un provvidenziale silenzio interiore – esso ci spinge a invocare l’aiuto di una misericordia sopramondana e ad appellarci a una salvezza trascendente. Parte quindi da qui, da questo gesto, l’itinerario verso un nostro decisivo riscatto, il pellegrinaggio verso la vittoria della Pasqua; parte dal Mercoledì delle Ceneri la nostra ennesima avventura quaresimale, che è un altro tentativo della misericordia del Signore – il quale non si arrende mai – di farci avanzare finalmente sulla strada della santità.

3 - La mentalità dominante ha di fronte alla morte un atteggiamento contraddittorio. Da una parte non ne vuol sentir parlare e la censura con ogni mezzo, come se il chiudere gli occhi e il distrarsi bastasse a esorcizzare la catastrofe oscura e certa con cui ogni esistenza umana si conclude. Dall’altra parte, per bocca di qualche suo pensatore, addirittura definisce l’esistere intrinseco dell’uomo un “essere per la morte”. Così l’umanità si proibisce ogni speranza e corre incontro al disastro quasi con voluttà; in tal modo si spiega il dilagare dei suicidi e quella tipica forma di sacrificio rituale collettivo delle giovani vite stroncate puntualmente a ogni fine settimana, all’uscita dalle discoteche. Il cristiano, invece, non rifugge dal pensiero della morte. Non ha vergogna di provarne tristezza e sgomento, perché così è avvenuto al suo Maestro e Signore. Ma sa che proprio dal fatto che tutto sulla terra sembra finire nel niente, ci è data la garanzia di una vita migliore e più vera di questa: non avrebbe senso infatti nascere per morire, e l’intera vicenda dell’uomo non può essere tanto assurda. Solo il Leopardi, nella sua logica implacabile e conseguente, ha potuto arrendersi esplicitamente all’insensatezza, quando scrive nel “Cantico del gallo silvestre”: “Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono”. Il cristiano guarda in faccia alla morte e vede in lei una nemica – l’“ultima nemica”, di cui parla san Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (15,26) –; ma una nemica che è stata dominata e vinta dall’immolazione di Gesù, ed è anzi posta oggettivamente al servizio della nostra gioia futura. La Quaresima non è mai separabile dalla Pasqua. L’una e l’altra esprimono insieme la drammatica bellezza del destino che in Cristo è stato pensato per noi. Tutto è annualmente ripresentato alla nostra meditazione e alla nostra dedizione esistenziale, in vista del nostro farci sempre più intimi al Figlio di Dio crocifisso e glorificato. Ogni cosa è stata prevista e predisposta nel disegno eterno incentrato in Cristo, per farci crescere progressivamente nella conoscenza amorosa del suo mistero, e farci sperimentare la potenza della sua risurrezione, oltre che per comunicarci sempre più la forza di partecipare alle sue sofferenze, perché la nostra morte sia conformità salvifica alla sua, e si irrobustisca in noi la speranza di giungere come lui e con lui a risorgere a vita nuova.

4 - E’ sintomatica la cura con la quale nel mondo di oggi la morte è celata ai piccoli: ai bambini, si pensa, fin che si può non si devono dire le cose come stanno. Curiosamente si ritiene giusto e saggio prepararli alla vita e all’impatto con la realtà, censurando gli eventi naturali della vita e nascondendo la realtà ai loro occhi e alla loro facoltà di riflettere. In genere di morte oggi non si può nemmeno parlare tra persone civili, se non per allusioni ed eufemismi: sono, a ben vedere, i nuovi tabù di una umanità che immagina di essere diventata libera e spregiudicata, solo perché ha dato libera cittadinanza in ogni ambiente alle aberrazioni sessuali e al turpiloquio. Ma a questa umanità la Chiesa non teme di rivolgere l’ammonimento: “Ricòrdati che sei polvere e in polvere ritornerai”; aggiungendo così una ragione in più all’antipatia di cui essa già gode tra le persone del mondo. Si direbbe tuttavia che anche noi ci siamo lasciati un po’ intimidire da questa interdizione sociologica: una seria considerazione sulla morte non ha quasi più spazio nella nostra predicazione. Invece, un’evangelizzazione che vuol essere davvero incisiva deve riproporre il tema con qualche vigore. Bisogna però intendersi bene. La morte non va tanto chiamata in causa a sorreggere e a giustificare l’attenzione a una realtà extramondana, che per l’uomo “naturale” (psichicòs, direbbe san Paolo) è del tutto inverificabile. Essa deve piuttosto essere additata come lo scacco totale e irreparabile inflitto all’uomo che non sa vedere oltre la sua soglia: scacco certo, indiscutibile, verificabilissimo. Su questo dobbiamo riflettere e far riflettere. L’ipotesi dell’annientamento – e sul piano sperimentale la morte è percepita proprio così – non è solo la negazione di ogni sopravvivenza ultraterrena: prima ancora è la vanificazione di ogni valore terrestre. E’ la rassegnazione a vivere in uno stato di intrinseca ingiustizia, dal momento che in questa vita i conti troppo spesso non tornano e nel nulla nessun conto potrà mai più essere pareggiato. E’ il riconoscere che non c’è motivo al mondo di distinguere il bene dal male, se tutto è ripagato allo stesso modo. E’ la vittoria dell’assurdo, dove il vero e il falso, la rettitudine e l’iniquità, l’egoismo e la magnanimità, l’essere e il non essere vengono assimilati. Presa per se stessa, la morte non è solo la fine della vita: è l’attestazione che tutta la vita – e dunque tutto l’uomo – è senza plausibilità e senza consistenza. La scelta dell’uomo “naturale” – che continua a cercar di sussistere per qualche aspetto in tutti noi – non è tra una vita futura, di cui egli non sa niente, e una godibile vita presente. La scelta è tra un’esistenza svuotata – e svuotata già adesso, da sùbito – di verità, di scopo, di ragionevolezza, e la speranza che qualche evento venga a darci un senso e un traguardo. La morte è un fatto, e contro i fatti nessuna filosofia, nessuna ideologia, nessuna illusione estetica, nessuna determinazione volontaristica riesce a spuntarla. A un fatto soltanto un altro fatto può opporsi vittoriosamente. Solo l’avvenimento del trionfo sulla morte – cioè il fatto della risurrezione di Cristo (che è il “cuore” del Vangelo), come principio e garanzia della nostra – può salvare l’uomo dall’avvenimento della morte; vale a dire, può salvare l’uomo dalla sua invalicabile assurdità. Come si vede, il “cuore” del Vangelo di salvezza è perfettamente correlativo al “cuore” del nostro fallimento e della nostra disperazione; il progetto del Padre è risposta esauriente all’implorazione intrinseca e totale del nostro essere; la vicenda redentrice del Figlio di Dio è commisurata all’enigmatica e tragica avventura dell’uomo.

5 - In sintesi, possiamo dire che la Quaresima intende evocare una fondamentale verità sull’uomo e sul suo destino. La verità è questa: se la nostra vita non viene considerata nella sua globalità – e cioè nella sua origine, nei suoi valori, nella sua mèta ultima e trascendente – essa appare come una fiammata momentanea, che ha come unico esito un pugno di cenere. Se priviamo l’avventura umana della consapevolezza che veniamo da un Dio che ci è Padre – da cui tutto comincia –, della certezza che sotto le membra corporee pulsa una ricchezza spirituale imperitura – che il linguaggio cristiano tradizionale ha sempre chiamato “anima” –, della prospettiva del Regno eterno come nostro approdo felice, allora tutto si riduce a ben miserabile cosa. E tutto diventerebbe assurdo e senza speranza. Anche ciò che tanto ci incanta e seduce – salute, bellezza, amore, passione, slanci creativi, entusiasmi, godimenti estetici – tutto si ridurrebbe alla fine a un po’ di polvere spenta. Attenzione: la cenere, sulla quale la Chiesa ci invita a meditare, non ci dice quello che l’uomo è, ma quello che l’uomo sarebbe se fosse vera la visione puramente materialistica ed edonistica della vita. La Quaresima non vuol spegnere in noi la gioia; piuttosto vuol renderci più persuasi che solo il credente può essere, logicamente e razionalmente, nella gioia. Non vuol incuterci la paura della morte, vuol incuterci la paura di un’esistenza vissuta con l’idea desolata che la morte sia l’accadimento conclusivo di tutto. In fondo, vuol solo ricordarci quanto sarebbe spiritualmente arida, concettualmente insensata, umanamente misera e sconfortante la nostra vita, se non riuscissimo a rianimare e a rinvigorire ogni giorno la nostra fede.

 

 

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Sulla natura della Chiesa

 

1 - Il Cristo che sta al principio e al centro del disegno del Padre porta nelle sue carni di “Crocifisso risorto” i segni di un’aspra lotta. Noi perciò giustamente leggiamo nell’adorabile figura del Salvatore un antecedente progetto divino che suppone, tra i suoi elementi caratterizzanti, la lotta contro il male e – per così dire – una guerra di riconquista dopo la provvisoria vittoria di Satana. Dice sant’Ireneo che ha un forte senso dell’unità del progetto divino: “Poiché preesisteva il Salvatore, doveva venire all’esistenza anche ciò che doveva essere salvato, affinché il Salvatore non fosse inutile”. L’universo redento – e cioè vitalmente connesso col Redentore – si chiama Chiesa. La Chiesa – dice sant’Agostino – è il “mondo riconciliato”. La nostra meditazione – dopo aver contemplato “il Primo, l’Ultimo e il Vivente” (cfr. Ap 1,17) – passa adesso al secondo grande tema: la realtà ecclesiale vista come il risultato dell’azione redentrice di Cristo e anzi come il completamento del suo stesso mistero.

2 - A considerare la realtà ecclesiale, ciò che si vede a un primo sguardo è un insieme di uomini legati tra loro dall’ascolto della stessa parola di Dio, accomunati dalla vita liturgica, raccolti e guidati da capi riconosciuti. Ma non è sempre uno spettacolo splendente e umanamente glorioso. La Chiesa rifulge sì spesso di testimonianze eroiche, di insegnamenti lucidi e coraggiosi, di impressionanti esempi di carità, di eccezionali manifestazioni di bellezza. Al tempo stesso, però, è segnata e deteriorata da grettezze, da miopie culturali, da litigiosità ricorrenti, sicché l’occhio non esercitato a oltrepassare l’esteriorità non percepisce molta differenza nei confronti di altre eterogenee aggregazioni presenti e attive nella storia. E spesso nelle vicende della storia appare sconfitta. Tanto più dunque diventa necessaria, a proposito di “Chiesa” un’esplorazione trascendente o “anagogica”.

3 - E’ una necessità che già gli Apostoli e i primi cristiani hanno avvertito concordemente. Noi ci limiteremo a offrire qualche esemplificazione. All’indomani della Pentecoste, sono numerosissimi quelli che, toccati dall’annuncio evangelico, cominciano a radunarsi e a essere compaginati dalla fede in Gesù di Nazaret crocifisso e risorto, dalla speranza nella sua venuta, dal tentativo di vivere secondo la legge nuova della fraternità. E’ una folla composita, piena di entusiasmo, ma non immune da malintesi e dissidi (cfr. At 6,1). Conosce impressionanti dimostrazioni di generosità (cfr. At 4,32-37), ma anche qualche caso di ipocrisia e di imbroglio (cfr. At 5,1-11). Il libro degli Atti ci informa che godevano della simpatia popolare (cfr. At 2,47), ma sperimentavano anche la diffidenza e il malessere dell’isolamento: “degli altri nessuno osava accostarsi a loro” (cfr. At 5,13). Soprattutto era un’umanità che aveva sì qualche giorno di pace (cfr. At 9,31), ma più spesso era osteggiata e senza un’efficace difesa: “Tutti, ad eccezione degli Apostoli, furono dispersi nelle regioni della Giudea e della Samaria” (cfr. At 8,19). I discepoli del “Signore della gloria” (cfr. 1 Cor 2,8) sperimentano sia la mediocrità di qualche aspetto della loro vita sia l’attacco frastornante e la persecuzione da parte delle potenze ostili. E ciò può rappresentare un’insidia alla loro fede e mettere in pericolo la loro perseveranza.

4 - San Pietro nella sua prima Lettera manifesta paterna comprensione per le molte sofferenze cui i cristiani sono sottoposti, “afflitti da varie prove” (cfr. 1 Pt 1,6) “ingiustamente” (cfr. 1 Pt 2,19), amareggiati da “quelli che malignano – egli dice – sulla vostra buona condotta” (cfr. 1 Pt 3,16), “insultati per il nome di Cristo” (cfr. 1 Pt 4,14). Ebbene, proprio questa comunità dolente e avvilita viene chiaramente identificata con il vero Israele, il popolo del “patto”, il qahal che ha il Signore come condottiero, legislatore, alleato. Tutto ciò è espresso dall’appellativo di “ecclesìa”, che i discepoli di Gesù si appropriano fin dai primi tempi (cfr. At 5,11: “un gran timore si diffuse in tutta la ‘ecclesìa’”). Pietro però sa scrutare la realtà ecclesiale con una intelligenza che va oltre la desolante “scena” esteriore. E anzi si preoccupa di attirare l’attenzione dei suoi destinatari sulla magnificenza della loro vocazione e sull’incredibile ricchezza che già connota la “verità” della Chiesa: “Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce; voi, che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete il popolo di Dio; voi, un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia” (1 Pt 2,9-10).

5 - Dal canto suo, anche l’autore della Lettera agli Ebrei non si fa troppe illusioni sulla cristianità cui si rivolge: ne conosce bene la meschinità, i cedimenti, le tentazioni. I suoi membri sono stati “esposti pubblicamente a insulti e tribolazioni” (cfr. Eb 10,33). E molti sono fortemente inclini ad apostatare (cfr. Eb 6,6-8; 10,26-31). In mezzo a loro si può temere che spunti qualche “radice velenosa” così che “molti ne siano infettati” (cfr. Eb 12,15). Egli nota che la stessa vita comunitaria manca di assiduità e fervore. Perciò si rende opportuna l’esortazione a “non disertare le riunioni, come alcuni hanno l’abitudine di fare” (cfr. Eb 10,25). Ed è pertinente il richiamo alla disciplina e al rispetto di chi ha il compito di guidare: “Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché essi vegliano su di voi, come chi ha da renderne conto; obbedite, perché facciano questo con gioia e non gemendo: ciò non sarebbe vantaggioso per voi” (Eb 13,17). Tuttavia questo gruppo di credenti così squallido e sconfortante possiede – viene ripetutamente ricordato – una fonte inesauribile di energia e di vitalità nel Sacerdote della Nuova Alleanza, che nel santuario celeste è sempre in atto di offrire il suo unico ed esauriente sacrificio (cfr. ad esempio Eb 7,26-28). Sicché a nostro favore è sempre operante una “redenzione eterna” (cfr. Eb 9,12). Anzi, chi attraverso l’esperienza rinnovatrice dell’iniziazione battesimale comincia a far parte della famiglia dei discepoli di Gesù, riceve in eredità un “regno incrollabile” (cfr. Eb 12,28) ed entra in una festa cosmica che coinvolge cielo e terra e tutta la vicenda salvifica. Appunto questa è la sostanza dell’appartenenza al “nuovo Israele”, dice un testo che abbiamo già citato: “Voi vi siete accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli…” (cfr. Eb 12,22-24).

6 - Un caso particolarmente ricco ed emozionante di “lettura anagogica” dei dati ecclesiali è l’intero libro dell’Apocalisse. Lo scritto è indirizzato a una cristianità che ha appena subito la persecuzione crudele di Domiziano (o forse di Nerone) e ha visto l’effusione del sangue di numerosi fratelli. Tra i fedeli è facile pensare che serpeggiasse una domanda angosciosa: come mai il Signore ci ha abbandonato ai suoi nemici e ha lasciato il suo popolo senza difesa? Giovanni intende infondere negli animi sconvolti consolazione e speranza. E molto originalmente raggiunge il suo scopo, mostrando ai suoi interlocutori la realtà della Chiesa, come la vedono gli occhi di Dio. C’è senza dubbio in queste pagine anche una prospettiva escatologica, che fa conoscere quale sarà la condizione finale. Ma al tempo stesso c’è la “rivelazione” (apocalypsis) delle cose come stanno già adesso, di là dalla tragica vicenda nella quale i discepoli di Gesù sono immersi. La visione del capitolo 12 è sotto questo profilo esemplare. La sorte della “donna” – nella quale si ravvisa incontestabilmente la Chiesa – è descritta come un insieme di splendore e di sofferenza, di insidia e di sicurezza, che è difficile interpretare secondo un succedersi diacronico che tende a un esito conclusivo: in tal caso, infatti, la “gloria” dovrebbe essere posta al termine e non al principio della descrizione. Qui invece si vuol dire che la Sposa dell’Agnello (cfr. Ap 19,7) – la quale secondo la sua dimensione storica e terrestre dolora e geme per il travaglio del parto (cioè per la fatica di dare al mondo l’Adamo salvifico e di generare l’umanità nuova) – secondo la sua dimensione eterna (“eviterna”, direbbero i medievali) è già una regina felice e cosmicamente gloriosa, “vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle” (cfr. Ap 12,1). Colei che è perseguitata dal “serpente antico” (cfr. Ap 12,1), furioso contro di lei e contro la “discendenza” (cfr. Ap 12,17), è anche al sicuro nel “rifugio preparato per lei” (cfr. Ap 12,14). Come a dire che non potrà mai essere ferita o contaminata dalle forze del male. Nel “cielo” – cioè nella realtà già in atto come è vista da Dio – si canta l’inno della vittoria contro l’“Accusatore” (cfr. Ap 12,10). Gli “sconfitti”, nella verità delle cose già sono “vincitori”; la Chiesa, avvilita e disorientata nelle vicissitudini cui deve sottostare, già adesso trionfa: “Allora udii una gran voce nel cielo che diceva: ‘Ora si è compiuta/ la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio/ e la potenza del suo Cristo,/ poiché è stato precipitato/ l’accusatore dei nostri fratelli,/ colui che li accusava davanti al nostro Dio/ giorno e notte./ Ma essi lo hanno vinto/ per mezzo del sangue dell’Agnello/ e grazie alla testimonianza del loro martirio;/ poiché hanno disprezzato la vita fino a morire./ Esultate, dunque, o cieli,/ e voi che abitate in essi…’” (Ap 12,10-12a). Anche negli ultimi capitoli dell’Apocalisse c’è una visione evidentemente sincronica. La Chiesa escatologica, che è “la città santa, la nuova Gerusalemme” che “scende dal cielo” (Ap 21,2), e “il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima” (Ap 21,11), è altresì la Chiesa che è ancora alle prese con le traversie della storia, anela alla realizzazione delle promesse – “non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno” – e ancora deve implorare la venuta dello Sposo (Ap 22,17: “La Sposa e lo Spirito dicono: Vieni…”).

7 - Particolarmente illuminante è l’anagogia ecclesiale che san Paolo sviluppa progressivamente nelle “grandi Lettere” (Galati, Corinti, Romani). Lo sguardo dell’Apostolo sulle sue comunità è disincantato: conosce bene la loro povertà spirituale, anche se gli restano sempre carissime. Ha a che fare con gente sciocca e volubile: “O insensati Gàlati […] Siete così privi d’intelligenza che, dopo aver incominciato con lo Spirito, ora volete finire con la carne?” (Gal 3,1-3). Ed è gente anche umanamente mediocre: “Non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili” (cfr. 1 Cor 1,26). Sono facili a dividersi in fazioni (cfr. 1 Cor 1,10-12), pronti a inorgoglirsi senza motivo (cfr. 1 Cor 4,6-14), propensi a litigare fino ad adire ai tribunali civili contro i fratelli (cfr. 1 Cor 6,1-11), inclini a mettere in discussione gli indirizzi pastorali dell’Apostolo, il quale vibratamente reagisce: “Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio” (1 Cor 11,16). “Chi ritiene di essere profeta o dotato di doni dello Spirito, deve riconoscere che quanto scrivo è comando del Signore; se qualcuno non lo riconosce, neppure lui è riconosciuto” (1 Cor 14,38). E l’elenco delle magagne ecclesiali potrebbe continuare. Ma proprio a questa umanità difettosa e senza fulgore Paolo assegna una “natura teologica”, che la sua riflessione scopre sempre più ammirevole ed alta. La comunità cristiana è l’“Israele di Dio”, che custodisce dentro di sé la “elezione”, la vocazione alla salvezza, l’alleanza nuova ed eterna. Benché non manchino tra i suoi membri incoerenze e peccati, la compagine ecclesiale è il vero tempio di Dio, dove dimora lo Spirito di santità; e perciò è in se stessa consacrata e santa: “Non sapete che siete il tempio di Dio e lo Spirito di Dio abita in voi?” (1 Cor 3,16). Chi attenta alla struttura e alla vitalità della Chiesa, incorre nella collera divina: “Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui, perché santo è il tempio di Dio che siete voi” (1 Cor 3,17).

8 - Nelle “grandi Lettere” comincia anche a tralucere l’immagine nuziale. Paolo, amico dello Sposo, si sente il “pronubo” che vuol garantire e custodire l’illibatezza verginale della comunità cristiana: “Io provo infatti per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2 Cor 11,2). E si delinea altresì l’immagine del “corpo”. L’esperienza apostolica e pastorale lo induce a meditare sulla connessione vitale che lega i cristiani tra loro e oltrepassa anche le aggregazioni locali, compaginando tutte le Chiese in una sola realtà trascendente. Il discorso aveva le sue premesse già nella cultura greco-romana, nel notissimo paragone di Menenio Agrippa, rielaborato e illuminato poi dalla riflessione stoica sulla solidarietà universale. In Paolo però c’è qualcosa di decisivo in più, ed è la consapevolezza che i cristiani non solo sono un “corpo”, ma sono il “corpo di Cristo”: “Voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte” (1 Cor 12,27). “Come il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo” (1 Cor 12,12). “Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri” (Rm 12,4-5). E’ una verità che si fa a lui presente assiduamente nella celebrazione del mistero eucaristico, nel quale la realtà sacramentale del corpo di Cristo è principio unico e unificante di vita per tutti i partecipanti. Più radicalmente è il messaggio fondamentale che Paolo aveva ricevuto già nella prima trasformante esperienza da lui vissuta sulla strada di Damasco, mentre si accingeva a colpire e a perseguitare le comunità cristiane: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” (cfr. At 9,4; cfr. anche At 22,7 e At 26,14). Nelle “Lettere della prigionia”, soprattutto nella Lettera agli Efesini, questa prospettiva anagogica sulla Chiesa si farà più meditata e convinta, come vedremo.

card. Giacomo Biffi

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