La città di Dio. Cioè il luogo della grazia

Il dualismo tra le due città non si identifica con il conflitto tra Chiesa e Stato. Anzi, Agostino afferma la necessità dell'ordinamento civile che ha la semplice finalità di assicurare una convivenza pacifica tra opposti interessi...

La città di Dio. Cioè il luogo della grazia

da Teologo Borèl

del 27 ottobre 2009

 

È interessante notare come l’attualità presente di Agostino coincida con l’inattualità della versione medievale del suo pensiero, con il definitivo tramonto di quell’agostinismo politico che fornì la legittimazione teorica della supremazia del potere papale su quello imperiale nella controversia che va da Gregorio VII a Bonifacio VIII. Gli studi che si sono succeduti negli ultimi decenni sull’opera del vescovo di Ippona, da quelli di Reinhold Niebuhr, a quelli di Étienne Gilson, Sergio Cotta, Joseph Ratzinger, per non citare che alcuni1, procedono tutti a una rivalutazione della posizione agostiniana, in particolare di quella espressa nel De civitate Dei, unitamente alla critica dell’agostinismo politico medievale. I risultati cui questi studi pervengono potrebbero essere così sintetizzati: per Agostino il dualismo tra le due civitates, la città di Dio e la città terrena, non si identifica con il conflitto tra Chiesa e Stato.

 

«La città di Dio, fulgida nelle sue mura adamantine, è la meta soprannaturale del credente; con sant’Agostino, diventa attuabile in questa vita. Ne sono cittadini tutti i giusti. Il conflitto cessa d’essere cristiani contro romani, Chiesa contro Impero, provinciali contro il governo: esso è trasferito nell’interiorità delle coscienze»2. Il modello agostiniano si diversifica, in secondo luogo, tanto dall’escatologia potenzialmente rivoluzionaria di Origene, che tende a delegittimare gli ordinamenti e le leggi dello Stato poiché non conformi ai dettami evangelici, quanto dalla teocrazia politica di Eusebio di Cesarea che, identificando l’universalismo cristiano con quello romano, pone i fondamenti ideologici su cui Bisanzio fonderà il suo impero “cristiano”3.

 

Questa duplice distinzione, da Origene e da Eusebio, consente, in terzo luogo, di pensare il modello espresso nel De civitate Dei come assolutamente non teocratico, e questo nonostante Agostino nella controversia donatista lasci intendere, in particolare nella sua Epistola  93 indirizzata al vescovo Vincenzo, un possibile uso in tale direzione. È questo “uso” che spiega la vicenda dell’“agostinismo politico” per cui, come bene spiega il Gilson, «nei suoi successori si è affermata una tendenza duplice e complementare. Da una parte dimenticando la grande visione apocalittica della Gerusalemme celeste, essi hanno ridotto la città di Dio alla Chiesa che nella prospettiva agostiniana autentica non ne era che la parte “pellegrina”, operante nel tempo ad arruolare cittadini per l’eternità. Dall’altra, si è sempre più affermata la tendenza a confondere la città terrena di Agostino – città mistica della perdizione – con la città temporale e politica. Da questo momento il problema delle due città è diventato quello dei due poteri, quello spirituale dei papi e quello temporale degli Stati o dei prìncipi»4.

     

Ora nella fuoriuscita da questa strettoia e nel delinearsi dei tre punti sopra indicati sta, come si è detto, l’attualità presente della posizione agostiniana. Per essa diviene nuovamente comprensibile, in tutto il suo valore, il significato della civitas Dei come luogo della grazia. Questa percezione si fa netta nel tramonto di quella identificazione tra natura e grazia che Romano Guardini in La fine dell’epoca moderna definisce la «slealtà moderna», l’indebita appropriazione di contenuti e valori che solo la presenza e l’azione del soprannaturale può mantenere vivi e autentici. Si fa chiara, altresì, nel venir meno di quell’identificazione tra città ideale e città politica che contrassegna tanto il sogno teocratico medievale quanto, su un piano diverso, l’utopia moderna il cui modello sorge, sul finire del Medioevo, grazie alla secolarizzazione della nozione di “età dello Spirito” così come viene affermata nella teologia della storia di Gioacchino da Fiore5.

     

La comprensione della peculiarità agostiniana riporta così la riflessione sul cristianesimo a una situazione che precede il Medioevo, alla condizione della Chiesa degli inizi. Agostino, come scrive Ratzinger, «ha praticamente preso come base la situazione della Chiesa delle catacombe quando ha progettato la sua determinazione del rapporto tra Chiesa e Stato. La Chiesa non appare ancora per nulla come elemento attivo in questo rapporto, l’idea di una cristianizzazione dello Stato e del mondo non appartiene decisamente ai punti programmatici di sant’Agostino»6.

 

Ciò non significa indifferenza nei confronti del mondo e della res publica, in particolare, significa piuttosto che «la sua dottrina delle due civitates non mira né a ecclesializzare lo Stato né a statalizzare la Chiesa, ma, in mezzo agli ordinamenti di questo mondo, che rimangono e devono restare ordinamenti mondani, aspira a rendere presente la nuova forza della fede nell’unità degli uomini nel corpo di Cristo, come elemento di trasformazione, la cui forma completa sarà creata da Dio stesso, una volta che questa storia abbia raggiunto il suo fine»7. In questo modo Agostino non si preoccupa di elaborare una costituzione cristiana del mondo, l’idea di una “cristianità”. «Qui non è consentito abbandonarsi ad alcuna illusione: tutti gli Stati di questa terra sono “Stati terreni” anche quando sono retti da imperatori cristiani [...]. Sono Stati su questa terra e quindi “terreni” e nemmeno possono divenire di fatto qualcosa d’altro. In quanto tali sono forme di ordinamento necessarie di quest’epoca del mondo ed è giusto preoccuparsi del loro bene»8.

 

È manifesto come una prospettiva simile si imponga all’attenzione nel momento stesso in cui l’ideale, che ha segnato il cattolicesimo postbellico, quello di una “nuova cristianità”, ulteriore e diversa da quella medievale, mostra ovunque segni inequivocabili di consumazione e di logoramento. Non si tratta appena del passaggio da una versione eccessivamente ottimistica dell’elemento politico – della democrazia come naturaliter cristiana – a una più pessimistica; da una prospettiva fiduciosamente giusnaturalistica a una contrassegnata da Realpolitik, da Tommaso ad Agostino visto come antesignano di Machiavelli e Hobbes9. Se l’attualità di Agostino dipendesse semplicemente da ciò, il suo ritrovamento verrebbe a coincidere con lo scacco della presenza dei cattolici in politica, con l’abbandono di una loro testimonianza ideale nell’ambito della sfera pubblica.

 

Di contro all’“agostinismo politico” medievale avremmo qui l’agostinismo spiritualistico quale cifra della disfatta del cattolicesimo politico degli ultimi decenni. In realtà il ritorno ad Agostino può avere un suo significato effettuale e non meramente ideologico solo se esso consente una critica alla sovradeterminazione del momento politico, il coraggio di ammettere l’imperfezione senza elevarla a ideale, e, insieme, la consapevolezza dell’alterità della civitas Dei rispetto a ogni res publica. Questo divario è spinto da Agostino sino al punto da magnificare apertamente le virtù civiche che hanno fatto la grandezza di Roma: «Mostrando, attraverso l’opulenza e la gloria dell’Impero romano, tutto ciò che possono produrre le virtù civiche anche disgiunte dalla vera religione, Dio intendeva dimostrare che questa rende gli uomini cittadini di un’altra città, dove la verità è regina, la carità legge e la cui durata è eterna».

 

La nuova città prodotta dalla grazia, la quale vive nei suoi abitanti mescolata alla città terrena, non abbisogna, per mostrarsi, del naufragio delle virtù “naturali” anche se questo, in realtà, è quello che per lo più accade.

     

Il “ritorno ad Agostino” coincide così con la consapevolezza che il nostro, come il tempo in cui si riattualizza per tanti aspetti la condizione del cristianesimo delle origini, è più che mai il tempo della “grazia”, il tempo degli “incontri” in cui, come descrive Gustave Bardy nel suo splendido volume La conversione al cristianesimo nei primi secoli, mediante testimonianze vive e profonde diviene possibile il miracolo di un cambiamento. Il tempo, quindi, di una comunità cristiana che sa di essere «senza patria», «comunità di stranieri, che accetta e usa le realtà terrene, ma non è a casa propria in esse»10; di una civitas infine che, fuori dall’immagine clericale di fortezza assediata, logorata dal conflitto col potere, sa percepire la condizione degli inizi: «Cristianesimo che ancora pensa rivolto agli spazi illimitati delle genti e che ha ancora la speranza della salvezza del mondo»11.

    

    

 

 

 

      Note

      1 R. Niebuhr, Christian Realism and Political Problems, New York 1953 (su Niebuhr studioso di Agostino, cfr. G. Dessì, Niebuhr. Antropologia cristiana e democrazia, Roma 1993); M. Borghesi, Cristianesimo e democrazia in Reinhold Niebuhr, in Il Nuovo Areopago, 1 (1994), pp. 31-42; É. Gilson,Les métamorphoses de la cité de Dieu, Paris 1952 (tr. it. La città di Dio e i suoi problemi, Milano 1959, pp. 40-81); S. Cotta, La città politica di sant’Agostino, Milano 1960; J. Ratzinger, Volk und Haus Gottes in Augustinus Lehre von der Kirche, Ismaning 1971 (tr. it. Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, Milano 1978); id., Die Einheit der Nationen. Eine Vision der Kirchenväter, München 1971 (tr. it. L’unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa, Brescia 1973).

      2 L. Storoni Mazzolani, Sant’Agostino e i pagani, Palermo 1987, pp. 93-94.

      3 Per questa distinzione e, in particolare, per la differenza tra Origene e Agostino, cfr. J. Ratzinger, L’unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa, cit.

      4 É. Gilson, La città di Dio e i suoi problemi, cit., p. 81.

      5 Cfr. A. Crocco, Il superamento del dualismo agostiniano nella concezione della storia di Gioacchino da Fiore, in Aa.Vv., L’età dello Spirito e la fine dei tempi in Gioacchino da Fiore e nel gioachimismo medievale, San Giovanni in Fiore 1986, pp. 143-161. Sulla diversità tra il modello agostiniano, che presuppone le due civitates, e quello gioachimita, che porta all’unificazione di Chiesa e società in un’unica città, cfr. M. Borghesi, L’“età dello Spirito” e la metamorfosi della città di Dio, in Il Nuovo Areopago, 13 (1994), pp. 5-27 (tutto il numero, con contributi di J.-R. Armogathe, G. B. Contri, C. Dalmasso, O. Grassi, M. Vallicelli, è dedicato al confronto tra Gioacchino da Fiore e Agostino). Sulla secolarizzazione della terza età gioachimita, cfr. H. de Lubac, La posterité spirituelle de Joachim de Flore, 2 vv., Paris 1979-1981 (tr. it. La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore, 2 vv., Milano 1981-1984). Sulla trasformazione della città di Dio agostiniana nel corso dell’epoca moderna, si veda É. Gilson, La città di Dio e i suoi problemi, cit.

      6 J. Ratzinger, Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, cit., p. 313.

      7 J. Ratzinger, L’unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa, cit., p. 105.

      8 Ibid., p. 96.

      9 Su questa linea si situa la rivalutazione di Agostino operata da R. Esposito, Nove pensieri sulla politica, Bologna 1993.

      10 J. Ratzinger, L’unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa, cit., p. 107.

      11 H.U. von Balthasar, Il filo di Arianna attraverso la mia opera, Milano 1980, p. 6.

 

Massimo Borghesi

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