Crescere è faticoso, ma anche educare non lo è da meno. Lo sanno bene tutti gli adulti che a qualsiasi titolo portano avanti il compito educativo.
Crescere è faticoso, ma anche educare non lo è da meno. Lo sanno bene tutti gli adulti che a qualsiasi titolo portano avanti il compito educativo.
Educare è difficile, e oggi forse lo è più di un tempo. Basta ascoltare per un attimo le considerazioni e gli sfoghi degli educatori per rendersene conto.
I genitori sono subissati di richieste dai loro figli: richieste di cose – il cellulare fin dagli anni della fanciullezza, il motorino a 14 anni, i-pod sempre più moderni e sofisticati, videogiochi... –; richieste di permessi – rientrare sempre più tardi la sera, stare più a lungo con gli amici, frequentare certi ambienti –; richieste di esperienze – frequentare il bar o la discoteca fin dalla preadolescenza, andare in vacanza con la ragazza...–. I giovani si rendono conto del benessere e della libertà che è attorno a loro, e non capiscono perché le loro istanze non debbano essere accolte; d'altra parte, subiscono la pressione della pubblicità, che offre loro prodotti sempre più elaborati, e quella dei coetanei che hanno abitudini e regole che sembrano sempre meno severe delle proprie.
Così i dialoghi familiari sono spesso una continua contrattazione, che impegna gli adulti a spiegare, a dare ragioni, a resistere alle richieste, a fare da argine. Indubbiamente una fatica ben maggiore di quella dei tempi in cui i genitori, con un "no" deciso, ponevano fine ad ogni pretesa.
A questo confronto con le giovani generazioni possono far fronte solo genitori ben consapevoli delle loro responsabilità educative, dotati di energia per incanalare l'energia di chi sta crescendo. Dove questo non c'è, i ragazzi crescono potendo fare ciò che vogliono, senza regole o, peggio ancora, con regole che sanno di poter infrangere di continuo senza conseguenze.
A scuola le fatiche non sono minori; oggi i ragazzi portano nella scuola, più prepotente del loro interesse ad apprendere, la paura del futuro, le fragilità, le irrequietezze e le angosce che accumulano nell'ambiente complesso in cui vivono. La stessa cosa vale per il contesto parrocchiale, o per quello associativo, ricreativo, sportivo.
Genitori, insegnanti, educatori sono spiazzati da altri maestri, che mettono in discussione la loro autorità con la maggiore forza persuasiva delle loro proposte e dei loro linguaggi: la pubblicità, la tv, il mondo luccicante e pieno di lusinghe che si spalanca davanti ai ragazzi attraverso i media, vecchi e nuovi.
Gli adulti educatori oggi sono in crisi, per una serie complessa di ragioni. «Non pochi hanno la sensazione di essere educatori impotenti e inutili. [...] Si accorgono che i tempi sono cambiati e insieme è cambiata la società: vengono cioè proposti valori nuovi e deprezzati quelli vecchi; coscienza e costume sociali si sono modificati notevolmente; alcune certezze si sono trasformate in dubbio» (C.M. Martini, Dio educa il suo popolo, 1987, n. 23).
Senza pretendere di sviluppare una riflessione articolata, si accenna qui ad alcune delle ragioni che mettono in crisi gli educatori.
Innanzitutto vi è la condizione di stanchezza degli adulti. Si percepisce in essi un senso di pesantezza esistenziale, che li rende scontenti della propria vita. Vi sono adulti che sembrano sopravvivere alle loro giornate e ai loro impegni e comunicano ai più giovani, al di là delle parole, l'impressione che l'esistenza umana sia soprattutto una fatica. Come dare ai giovani la voglia di affrontare con impegno un futuro che non appassiona? Un'esistenza che appare, per dirlo con le parole del Qoelet, solo fatica e affanno (cfr. 1,2-3)? La generazione adulta è stanca della sua vita di corsa, per afferrare obiettivi di cui non sempre è convinta e che, una volta raggiunti, fanno sentire aridi e svuotati. A volte si rinuncia ad educare per mancanza di energia a reggere l'impegno – essere disponibili, dimenticare le proprie preoccupazioni e la propria stanchezza, essere accoglienti, aver voglia di dialogare, confrontarsi, discutere... – che educare comporta. Educare è un compito a tratti gravoso, e l'attuale generazione adulta, oltre che essere affaticata, ha escluso dalla propria esistenza alcune dimensioni antropologiche irrinunciabili: il limite, il sacrificio, la rinuncia, parole tutte bandite dal vocabolario di una generazione addomesticata dal consumismo e dalle sue illusioni. Si tratta di un segnale che rivela come, ancor prima dell'educazione, sia in crisi la dimensione generativa della vita adulta, sempre più in difficoltà ad esprimersi nel dono di sé, che richiede la disponibilità a porre l'altro prima di se stessi.
La generazione adulta è spiazzata dalla complessità e questo la rende disorientata quanto i giovani. Gli adulti faticano a muoversi in mezzo a situazioni che spiazzano e sorprendono; situazioni per le quali hanno l'impressione di non avere la bussola adatta. È un senso di spaesamento, nel senso letterale del trovarsi in un paese sconosciuto, diverso da quello cui si è abituati. In questa condizione è difficile offrire ai giovani degli orientamenti sicuri e credibili, sia per quanto riguarda il modo di pensare la vita che per quanto riguarda gli atteggiamenti da assumere in pratica di fronte ad essa.
L'ubriacatura di una libertà senza confini si alterna alle manifestazioni di disagio, di malessere e di sofferenza interiore di chi non conosce il senso della propria esistenza e le condizioni che ad essa danno valore.
Nella generazione adulta è in crisi il progetto di vita. In tal modo, essa è in difficoltà a mostrare il senso secondo cui essa vive. Oggi gli adulti sembrano non essere in grado di testimoniare e di narrare il valore e la bellezza della vita, in tutti i suoi aspetti. Ai giovani che sono avidi di vita, sta di fronte una generazione adulta che sembra non avere maturato quella sapienza che sa far intravvedere il valore dell'esistenza e delineare quegli stili che la possono interpretare. È come se la nostra bisaccia di adulti fosse vuota, o piena di cianfrusaglia che serve solo a ingombrare; che fa volume, ma non ha consistenza.
A tutto questo va aggiunta la difficoltà degli adulti a fare gli adulti. Atteggiamenti, abitudini, persino l'abbigliamento tradiscono la resistenza a lasciare l'età giovanile per diventare adulti, con gli impegni, le responsabilità, le solitudini che questo comporta. Adulti che non hanno ancora scoperto il senso di pienezza che accompagna la loro età e non si sono riconciliati con le fatiche che essa comporta difficilmente possono diventare educatori efficaci e soprattutto autorevoli. Afferma Benedetto XVI: «Alla radice della crisi dell'educazione c'è infatti una crisi di fiducia nella vita» (Benedetto XVI, Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell'educazione, 2008).
La crisi della comunicazione tra le generazioni è un altro dei fattori che spiegano la fatica educativa.
L'educazione ha bisogno di parola, di vicinanza, di fiducia, di scambio. Solo così i più giovani possono ricevere il patrimonio di senso, di valori, di idee che possono aiutarli ad orientarsi nella vita; solo così gli adulti possono accogliere i turbamenti, le domande, le inquietudini dei più giovani, facendosene carico e accompagnandosi a loro, nel cammino della loro crescita.
Oggi invece le diverse generazioni comunicano con difficoltà: si ha poco tempo a disposizione; i tempi del lavoro si conciliano a fatica con i tempi della famiglia, del dialogo e dell'incontro. La difficoltà aumenta con il passare dell'età, dall'infanzia via via verso l'adolescenza e la giovinezza. La difficoltà di comunicare, proprio nel tempo in cui vi è una continua esigenza di motivare e spiegare indicazioni e richieste, può essere affrontata solo da adulti autorevoli, che sanno farsi ascoltare non perché alzano la voce, ma perché sono credibili e dunque possono essere presi sul serio dai ragazzi. Ma anche in questo caso è difficile cancellare l'impressione di estraneità tra giovani e adulti. Dove non vi sia l'affetto a motivare lo sforzo di mettersi in relazione, si finisce con il vivere ciascuno nella propria solitudine.
Complessivamente si può dire che sia in crisi la naturale vocazione educativa degli adulti, che hanno smarrito il senso dell'educare ancor prima che la pratica dell'educazione, che diviene un impegno che schiaccia e di cui non si coglie il profondo valore umano; in effetti oggi si parla di educazione citando la fatica che essa comporta. Così si spiegano gli atteggiamenti minimalisti, di delega o di vere e proprie dimissioni educative; si comprende perché, soprattutto in famiglia, ad atteggiamenti di intenso affetto e talvolta addirittura possessivi nei confronti dei figli non si affianchino anche quelli della consegna dei valori di fondo dell'esistenza e del senso del vivere.
Nella scuola, in parrocchia, nei gruppi associativi è sempre più difficile trovare persone disponibili a dedicarsi all'educazione: basti pensare allo scarso spessore educativo della scuola, o alla difficoltà di trovare educatori disponibili nella comunità cristiana. La passione educativa si è affievolita ed è quasi impossibile parlare di vocazione educativa.
Da queste considerazioni appare chiaro che la questione dell'educazione non riguarda in primo luogo i giovani, ma gli adulti. Benedetto XVI, nella Lettera sul compito urgente dell'educazione, nota che «viene spontaneo incolpare le nuove generazioni, come se i bambini che nascono oggi fossero diversi da quelli che nascevano nel passato» (Ibidem). Non possiamo giudicare e condannare le giovani generazioni per i loro comportamenti, per il loro disimpegno, per le loro fragilità: in essi si riflettono e si scaricano le tensioni, le immaturità e le fatiche dei padri e delle madri. «Oggi – affermano i vescovi italiani – è la comunità adulta ad aver perso l'autorevolezza della figura paterna e materna. Di qui l'esigenza che gli adulti ritrovino il coraggio delle proprie convinzioni e sappiano accreditarsi davanti ai giovani come compagni di viaggio avvicinabili e autorevoli» (Conferenza episcopale italiana, Comunicato finale dell'Assemblea dei vescovi, giugno 2008). C'è una crisi degli adulti che si trasmette ai giovani: è l'inconsistenza del patrimonio etico, la resistenza a entrare nella relazione necessaria per consegnarlo, accettando di portare ragioni, di mettersi in gioco, di lasciarsi porre in discussione.
È l'esito di un modello di civiltà di cui gli adulti stessi sono vittime e che è costruito sull'esaltazione delle cose e del loro possesso; sulla smania dell'immagine e del successo; sull'affermazione di sé come criterio di valore, in un processo che si pretende sganciato dall'uomo e dai suoi valori. È l'esito di una civiltà che, nella distrazione di quanti non hanno esercitato un sufficiente senso critico, ha portato allo svuotamento delle coscienze e a quell'affanno di vivere che fa vittime soprattutto gli adulti: smarriti, delusi, ripiegati su loro stessi.
Così, nell'intreccio tra responsabilità personali e contesto sociale, si finisce con il pensare che si educano i propri figli se si fa di loro dei «personaggi di spicco, atleti, uomo e donna di successo, competitivi nella società del benessere. E ci si dimentica di aiutarli ad acquisire le virtù che li rendono veramente umani: la lealtà, l'onestà, la giustizia, la fede, la sobrietà, la fortezza, la bontà» (C.M. Martini, Dio educa il suo popolo, n. 23).
Paola Bignardi
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