«Quando ho visto per la prima volta Bergoglio sul balcone ho pensato: oddio, stiamo tornando a 40 anni fa: come se non ci fosse stato Wojtyla. E invece...».
Intervista di Martino Cervo a Giovanni Gobber, ordinario di linguistica generale e linguistica tedesca all’Università Cattolica di Milano
«La fortuna di Bergoglio? Si è perso il ’68 perché non era in Europa». Il professor Giovanni Gobber, ordinario di Linguistica generale alla Cattolica di Milano, affronta con L’Ordine una riflessione sulla rivoluzione (anche) di linguaggio del nuovo Papa. Quella iniziata nella fresca sera del 13 marzo con: «Fratelli e sorelle, buonasera» da un pontefice preso «alla fine del mondo», e fatta di parole semplici, spesso tagliate con l’accetta, metafore terrigne, perifrasi anche spietate: la bordata contro i «cristiani da salotto», la denuncia di troppe «facce da peperoncino sott’olio», il richiamo alle suore che devono essere «madri, non zitelle», la necessità di spalancare il «cuore stropicciato», l’insistenza sull’«uscire», sulle «perfierie esistenziali»: il tutto amplificato dalla scelta di abbandonare quasi integralmente il latino in favore dell’italiano anche durante le celebrazioni e le preghiere pubbliche. Un approccio che, incontro dopo incontro e omelia dopo omelia ha spiazzato molti, Gobber compreso, al di là della novità in sé del primo gesuita e del primo extraeuropeo a salire sul soglio petrino: «Quando ho visto per la prima volta Bergoglio sul balcone ho pensato: oddio, stiamo tornando a 40 anni fa: come se non ci fosse stato Wojtyla. E invece…».
E invece, professore?
«L’impressione iniziale è stata completamente ribaltata. Il primo punto sul fronte linguistico è riflettere su una domanda: per chi parla Papa Francesco? Ecco, non è il pubblico di Ratzinger. Intendiamoci: il Papa parla sempre al mondo. Ma come linguaggio il pubblico su cui è plasmata la comunicazione di Bergoglio non è europeo. Ho l’impressione che questo pontefice prescinda dai problemi legati al dibattito in Europa cui siamo stati abituati per anni, e questo si sente molto nei suoi discorsi».
Ad esempio?
«La questione dell’atteggiamento “protestantico”, cioè della rivendicazione dell’autonomia dei fedeli rispetto ai vescovi. Si tratta di un dibattito molto forte, soprattutto in Germania dove per le sue posizioni in merito Ratzinger era molto avversato. Bergoglio dà per superate queste discussioni. Per lui sono chiare a monte, dunque non ne parla. Tutte le sue uscite non sono che uno sviluppo ulteriore del pontificato di Ratzinger, per quanto ci sia stata una bolla mediatica – favorita da ignoranza “laica” – che l’ha presentato come un innovatore ostile alla tradizione e all’autorità. Ha l’intelligenza e la semplicità di passare oltre certe questioni dialetticamente sfiancanti».
Dunque alla rivoluzione di linguaggio non si abbina una rivoluzione di contenuti?
«Al contrario. Bergoglio parla della propria esperienza, che è molto pastorale, e si rivolge – come stile – a fedeli non europei. Indica un cammino esistenziale. Ma proprio facendo questo esprime continuità con Benedetto XVI: un altro punto in comune è il non clericalismo, su cui questo Papa insiste quasi quotidianamente. Oppure i rapporti con l’ortodossia: quelle che oggi sono considerate aperture da parte di Francesco – e che sono figlie anche di intelligenti scelte di linguaggio – non fanno che inscriversi nel percorso di Ratzinger».
Questa bolla di simpatia mediatica non è forse in calo?
«Direi che si è affievolita, ma non è ancora scoppiata. Mi sembra di rivedere Paolo VI, che dopo l’Humanae Vitae si beccò una “condanna” mediatica a seguito dell’innamoramento iniziale. Questa dinamica forse è già iniziata con Bergoglio, per esempio sui diritti dell’embrione. Il Papa indica questi diritti come pre-religiosi. Fa riferimento al diritto naturale, fondamento del pensiero della chiesa nel mondo anche per il dibattito che genera: il diritto contemporaneo infatti prescinde dal diritto naturale. Anche qui, Bergoglio non ha preso di petto la questione dal punto di vista teologico-culturale come ha fatto Ratzinger: la dà quasi per superata, passa alle conseguenze».
Non è rischio per un Papa essere così apprezzato da tutti, essere percepito così vicino al “mondo”?
«No, è un bene per la chiesa. E lui è perfettamente in grado di gestire la situazione. E non avrà difficoltà a vivere nelle avversità, quando arriveranno».
Torniamo al linguaggio, professore. Che origine ha questa peculiarità? Geografica? Culturale?
«Il suo mondo è quello ispano-americano, ed è quello di vescovi che parlano a paesi a maggioranza cattolica. E risente molto del modo di comunicare dei gesuiti, del resto lui è un gesuita di vecchia scuola. Ha sempre mostrato grande fedeltà alla tradizione della chiesa, e grande energia nel proporre il cristianesimo come avvenimento dentro le modalità della vita quotidiana. Ricorda papa Luciani, che aveva analoga semplicità negli esempi. Ma non è banalità: è astuzia, nel senso migliore ed evangelico del termine. La retorica ratzingeriana è a grado zero: puro contenuto da presentare alla ragione dell’interlocutore. Bergoglio dà questo passaggio per fatto, cerca di riproporre il portato della vita cristiana in forma persuasiva, carnale. E questo colpisce americani e inglesi, che apprezzano la buona comunicazione. È uno pratico: presuppone il teoretico, non lo ignora. Il che è un modo neppure troppo indiretto per sottolineare l’irrilevanza dell’Europa occidentale per la chiesa mondiale, sede petrina a parte».
Dopo averlo visto incitare la folla a gridare: “Viva la Madonna!”, qualcuno ha paragonato il linguaggio di Bergoglio a quello di un curato degli anni ’50, per qualità omiletica ed efficacia nella comunicazione al popolo. È d’accordo?
«Sì, nel senso migliore del termine. La distanza dall’Europa gli ha consegnato poi una grandissima fortuna: quella di essersi perso il ’68 per come l’abbiamo vissuto noi. Anche se ovviamente lo conosce, tanto che ha combattuto la teologia della liberazione sul piano teorico ma non pratico, come aveva fatto Wojtyla. Questo passaggio è essenziale anche per capire la posizione anti-ideologica che Francesco ha sul Concilio. Bergoglio non ha fatto l’oppositore di bandiera al regime, ha fatto il prete. Non è che non abbia visto le battaglie di pensiero: l’Argentina è un paese molto laico, con una massoneria forte. Ma non si è fatto definire da quello: ha colto e superato il riduzionismo ideologico di cui sono invece rimasti vittima tantissimi prelati proprio negli anni ‘70. Wojtyla – alle prese col totalitarismo in Polonia, e Bergoglio – ben lontano dai centri culturali e di pensiero di quel periodo, non potevano correre questo rischio per ragioni molto contingenti. Ratzinger invece l’ha corso, analizzato, giudicato e sconfitto con la sola forza della fede e dell’intelletto».
Martino Cervo
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