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La fragilità salvata

Terza tappa in preparazione al Convegno di Verona. La riflessione ha toccato il mondo della “debolezza” umana alla luce del mistero di Cristo. Una rilettura della sofferenza di Giovanni Paolo II. Il volto della solitudine nelle città.


La fragilità salvata

da Teologo Borèl

del 22 aprile 2006

  “Una fragilità salvata”: questo è il tema della riflessione, che ha caratterizzato la terza tappa (1ª tappa: Palermo, con Ricorda, racconta, cammina; 2ª tappa: Terni, con L’amore si fa storia) o ambito di avvicinamento al quarto convegno ecclesiale di Verona (16-20 ottobre) e che si è inserita nel Progetto Passio della diocesi di Novara, attraverso un ventaglio di iniziative che si sono avvicendate dal 24 marzo al 7 aprile. Questo terzo percorso è stato promosso dal Progetto culturale della Cei, in collaborazione con la diocesi di Novara e l’associazione culturale diocesana La Nuova Regaldi. In merito a tale tematica, così si esprime la Traccia di riflessione in preparazione al convegno nazionale: «Un terzo ambito di testimonianza è costituito  dalle forme e dalle condizioni di esistenza in cui emerge la fragilità umana. La società tecnologica non la elimina; talvolta la mette ancora di più alla prova, soprattutto tende a emarginarla o, al più, a risolverla come un problema cui applicare una tecnica appropriata… La speranza cristiana mostra in modo particolare la sua verità proprio nei casi della fragilità: non ha bisogno di nasconderla, ma la sa accogliere con discrezione e tenerezza, restituendola, arricchita di senso, al cammino della vita».             

         

 

Individuare i molteplici volti della fragilità umana.

 

Nella lettera che Renato Corti, vescovo di Novara, aveva inviato alla diocesi in occasione di questa tappa novarese così scriveva: «I cristiani laici si devono chiedere come incarnare un presenza significativa in tutte quelle situazioni nelle quali, per un motivo o per un altro, l’uomo si misura con la sua fragilità… Sono chiamati a diffondere nell’opinione pubblica l’idea che la cultura è a misura dell’uomo quando sospinge a prestare speciale attenzione all’uomo nella sua debolezza». Dunque, «si tratta di prestare attenzione non soltanto alle situazioni estreme, ma anche a quelle che toccano l’ordinarietà della vita quotidiana, perché è la nostra stessa condizione creaturale a collocarci nella fragilità». Per il vescovo il primo passo da compiere è quello di superare quella mentalità «che sembra dire che chi non rende non esiste. Il cristiano oggi è chiamato ad andare in direzione contraria, è chiamato a chiedersi come affrontare il rischio che molte persone siano dimenticate e ignorate proprio quando hanno bisogno che qualcuno si prenda cura di loro».

Andare oltre l’indifferenza è, per mons. Corti, un impegno culturale: «Solo una cultura che sa dare conto di tutti gli aspetti dell’esistenza è davvero a misura dell’uomo. Il cristiano è chiamato dare testimonianza della via del vangelo in ogni situazione di debolezza e fragilità che incontra. Dalla difesa del nascituro all’attenzione ai poveri, dall’attenzione ai carcerati alla cura dei malati e al sostegno degli anziani. Ma anche nella vicinanza a chi va verso la morte, forma suprema di fragilità». Quindi alla comunità cristiana sono richieste  attenzione e impegno per tutte quelle realtà difficili e per quel mondo che, alla maggior parte delle persone, rimane nascosto. Punto fondamentale – continua mons. Corti – è comprendere che la fragilità riguarda tutti gli uomini: «La Bibbia dice che siamo come un filo d’erba. Va fatta crescere la consapevolezza che viviamo tutti la condizione di fragilità, perché siamo tutti delle creature di Dio». Il percorso del Progetto Passio termina con un’apertura all’orizzonte della speranza, tema del convegno di Verona: «Una speranza che viene da Cristo che, dopo avere accettato con la croce la fragilità umana, è risorto».           

Questa terza tappa ha previsto diverse iniziative e ha toccato diversi ambiti o “linguaggi” culturali (la musica, il teatro, il cinema, i riti, i pellegrinaggi) nel territorio della diocesi, interessando le province di Novara, del Verbano-Cusio- Ossola e di Vercelli per la Valsesia. Essa si è collocata all’interno di un più articolato programma, dal titolo Passio. Cultura e arte attorno al mistero pasquale, avviato lo scorso 1° marzo e che si chiuderà il 3 maggio e che prevede circa 130 eventi artistici, culturali e religiosi, volti a valorizzare – spiegano gli organizzatori – «il mistero della passione di Gesù e la speranza che nasce e risorge da quella fragilità umana da lui salvata». La riflessione coniuga la dimensione esistenziale, segnata dal dolore e dalla sofferenza, con il mistero della passione di Cristo, che la interpreta donandole speranza. Il filo conduttore del progetto richiama esplicitamente il paradosso cristiano di una debolezza che diviene la dimensione in cui la potenza salvifica di Cristo si può pienamente esprimere, comunicando all’uomo una forza che non viene dalle sue capacità e qualità, ma dalla presenza di Dio.

«Lo scopo centrale di Passio è quello di ridire, secondo i codici della cultura e della comunicazione, il mistero pasquale – ha sottolineato il referente diocesano del Progetto culturale, don Silvio Barbaglia, durante la conferenza stampa di preparazione –. Con il gusto estetico e con gli strumenti mediatici dell’oggi vogliamo raccontare la passione, nucleo centrale dei vangeli che affronta proprio il tema della debolezza e della fragilità umana». Vedere, ascoltare, rappresentare, immaginare, riflettere, peregrinare, celebrare, sostenere, approfondire, comunicare: questi dieci verbi evocano, nell’orizzonte dell’esperienza della fragilità umana, l’architettura di Passio 2006 nelle sue molteplici manifestazioni, rivolte non solo alla comunità dei credenti, ma a tutti coloro – società civile, istituzioni, operatori della cultura e dei media – che sono provocati dal mistero della fragilità umana e dalla sofferenza. Abbinata a queste iniziative, vi è un’iniziativa di solidarietà per aiutare la Caritas della Georgia e aprire un poliambulatorio nella capitale Tbilisi.

Due appuntamenti significativi nel contesto di questa tappa sono stati, lo scorso 24 marzo, un convegno su Giovanni Paolo II nel suo primo anniversario dell’agonia e della morte, dal titolo “Non abbiate paura! Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo”. Il lungo pellegrinaggio di papa Wojtyla, e un convegno sulla solitudine nelle città, lo scorso 5 aprile.

 

 

Giovanni Paolo II “volto” di speranza nella sofferenza.

 

Per quanto riguarda il primo appuntamento, la diocesi di Novara ha scelto la figura di Giovanni Paolo II per la sua testimonianza di come la debolezza dell’uomo possa diventare speranza. Nel suo intervento in duomo, madre Anna Maria Canopi, badessa del monastero benedettino Mater ecclesiae dell’isola di San Giulio, ha voluto sottolineare questo aspetto della figura del papa polacco: «Dalla sua infanzia, con la perdita prematura delle persone care, alla sua missione come papa, l’intera vita di Giovanni Paolo II potrebbe essere letta come una via crucis… Man mano che passava il tempo, non era più soltanto colui che si fermava accanto a tutte le croci dell’uomo di oggi, ma era lui stesso un uomo crocifisso». Una via crucis che, di viaggio in viaggio, lo ha portato a identificarsi sempre più con i deboli che incontrava, e soprattutto con i più piccoli: «Nell’abbracciare i bimbi, il viso del vecchio papa e i loro avevano la stessa espressione di dolore innocente; spesso le loro lacrime si mescolavano, ed erano lacrime che lasciavano trasparire il sorriso dell’anima». Per madre Canopi, il papa polacco, trascinatore di folle sterminate, «ha mostrato il senso della malattia, dando una risposta inconfutabile a quella scienza che presume di manipolare la vita, escludendo il più possibile la sofferenza».

Mons. Corti ha aggiunto: «Sin dalla sua vocazione sacerdotale, nella quale un ruolo fondamentale lo hanno avuto le sofferenze e le difficoltà vissute nella Polonia invasa dai nazisti», questo fatto non lo ha mai privato della gioia di vivere: «“Conservo ancora intatto il gusto della vita” ha scritto, quasi in confidenza, in una lettera agli anziani del 1999. Un esempio del coraggio con cui seppe affrontare la sofferenza e viverla come speranza».

 

 

La solitudine, come “voragine” per l’interiorità dell’uomo.

 

Un altro appuntamento è stato il convegno sulla solitudine, dal tema “Non è bene che l’uomo sia solo” (Gen 2,18). Nel cuore delle città il grido silenzioso della solitudine. Nella tavola rotonda si è parlato del mondo “fragile” della solitudine come luogo dell’anima in cui fare chiarezza dentro se stessi, ma che può anche assumere il volto di una voragine. Novara ha voluto concludere la sua riflessione sui molteplici aspetti della fragilità umana con un serata dedicata a quella che, nella società della comunicazione, è ancora una delle forme più preoccupanti di debolezza: la solitudine.

Lo psichiatra Eugenio Borgna ha evidenziato: «La solitudine più terribile è quella del dolore, quella che esclude l’orizzonte della speranza. La “notte oscura dell’anima” di cui parla san Giovanni della Croce. Una solitudine figlia dello sradicamento, dall’essere sottratti dalla rete di relazioni che danno un senso alla vita. È la condizione di chi ha subìto un lutto e di chi è costretto in ospedale, fuori dalle dinamiche sociali di tutti i giorni. Ma anche quella del migrante, di colui che ha dovuto lasciare la propria casa, il proprio mondo». Inoltre, esiste un altro tipo di solitudine: «È la solitudine che apre al mondo interiore, il rifugio dal chiasso dell’oggi, una ribellione al modello dell’homo faber, della cultura del fare, del correre».

Il direttore della Caritas georgiana p. Witold Szulczynski ha affermato: «Non dimenticherò mai quando fuori dal mio ufficio di Tbilisi ho trovato il cadavere di una donna morta di freddo e di stenti. Chiamai la polizia e dovetti aspettare ore prima di vederla portare via sul camion della nettezza urbana. Quello fu un inverno molto freddo, ma il ghiaccio che mi resta nel cuore è quello della solitudine che dovette provare quella donna negli ultimi giorni della sua vita».

Per mons. Corti l’attenzione alla solitudine del prossimo diventa una responsabilità per la comunità cristiana: «Dobbiamo chiederci: la solitudine è un luogo della fragilità che vogliamo disertare? Il vangelo ci chiede di essere presenti… Gesù visse entrambe le solitudini, quella della riflessione e quella della disperazione della croce, ma – come dice s. Agostino nel commento al salmo 85 –, condividendo con l’uomo la sua fragilità, l’ha riscattata, le ha dato dignità, sino a salvare la fragilità suprema, la morte».

Mauro Pizzighini

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