Nella seconda parte della Proposta Pastorale di quest'anno vi sono i grandi orientamenti in vista dell’azione educativo-pastorale nelle nostre realtà salesiane.
«Pietro gli disse: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!”» (At 3,6)
Un secondo orientamento su cui soffermarci riguarda l’attenzione privilegiata verso i più piccoli e i più poveri. Si tratta di una scelta carismatica originaria, che oggi siamo chiamati a riscoprire. Siamo per tutti i giovani, ma in maniera specifica e speciale per i più poveri, abbandonati e pericolanti. Portare la gioia del Vangelo a coloro che più di altri ne sono privi dovrebbe essere per noi un dovere, un onore e un piacere.
Soprattutto è un atto di amore, perché «l’uomo viene redento mediante l’amore. Ciò vale già nell’ambito puramente intramondano. Quando uno nella sua vita fa l’esperienza di un grande amore, quello è un momento di “redenzione” che dà un senso nuovo alla sua vita» (Spe salvi, n. 26).
La necessità di ripartire dagli ultimi e di non lasciare indietro nessuno è sia radicalmente evangelica che profondamente carismatica. Prendere per mano e rialzare amorevolmente le persone che sono state abbattute dalle vicende della vita è un modo privilegiato di partecipare all’azione redentrice del Signore Gesù, che si fa più tenero e delicato con chi è allontanato e discriminato.
Innumerevoli sono i momenti in cui Dio esprime il suo atteggiamento positivo e propositivo nei confronti degli ultimi. Egli si avvicina a loro con tenerezza, li accoglie con misericordia, li risana con amore e li rialza con determinazione, aiutandoli a riscoprire la loro dignità.
Lasciamoci ancora guidare dal libro degli Atti degli Apostoli. La Chiesa delle origini partecipa della sollecitudine per i piccoli e i poveri, agendo nel nome e per conto del suo Signore. D’altra parte l’efficacia dell’evangelizzazione affonda le sue radici nella forza della rivelazione, e non potrebbe essere altrimenti. Andiamo a vedere uno splendido episodio contenuto nel terzo capitolo degli Atti degli Apostoli in cui Pietro, nel nome di Gesù, guarisce uno storpio alla porta del tempio:
1Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera delle tre del pomeriggio. 2Qui di solito veniva portato un uomo, storpio fin dalla nascita; lo ponevano ogni giorno presso la porta del tempio detta Bella, per chiedere l’elemosina a coloro che entravano nel tempio. 3Costui, vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio, li pregava per avere un’elemosina. 4Allora, fissando lo sguardo su di lui, Pietro insieme a Giovanni disse: “Guarda verso di noi”. 5Ed egli si volse a guardarli, sperando di ricevere da loro qualche cosa. 6Pietro gli disse: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!”. 7Lo prese per la mano destra e lo sollevò. Di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono 8e, balzato in piedi, si mise a camminare; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio. 9Tutto il popolo lo vide camminare e lodare Dio 10e riconoscevano che era colui che sedeva a chiedere l’elemosina alla porta Bella del tempio, e furono ricolmi di meraviglia e stupore per quello che gli era accaduto (At 3,1-10).
È una narrazione di guarigione e, per certi versi, di risurrezione. Un vero e proprio passaggio pasquale: dalla morte alla vita, dalla tristezza alla gioia, dalla staticità al movimento. Pieno di luce e di grazia. Un uomo malato che viveva di elemosina, che stava ai margini della società e del tempio, viene preso per mano, sollevato e guarito nel nome di Gesù. Viene in un certo senso ringiovanito. È da notare che il primo soggetto è Pietro, che prende e solleva; ma poi il soggetto cambia: è lo storpio, le cui caviglie vengono rinvigorite, che si mette a camminare con le proprie forze. Quest’uomo diventa di nuovo protagonista della propria esistenza e la orienta verso la comunità e il tempio. L’autorità di Pietro è generativa e, nel nome di Gesù e attraverso la sua azione, lo storpio viene fatto partecipe della salvezza e corresponsabile della missione.
Qui vengono alla luce, in forma narrativa, quelli che potrebbero essere “i tre verbi dell’oratorio”: camminare, saltare, lodare. Sono i tre atteggiamenti di chi è stato risollevato, perché quando gli ultimi sono divenuti oggetto dell’attenzione di una comunità, la loro umanità rifiorisce.
Ci si rimette in cammino: lo storpio riprende energia e si mette a camminare, con Pietro e Giovanni, in una direzione ben precisa. Insieme con loro va verso il tempio. Una splendida immagine di sinodalità, di Chiesa che ritrova la propria unità con il popolo di Dio e intende confermare la propria unità con Dio. L’oratorio è davvero un luogo in cui si cammina insieme, dove si fa esperienza reale di sinodalità.
Si comincia a saltare: le caviglie si rinvigoriscono, riprendono forza! Possiamo immaginare la scena di quest’uomo che salta di gioia, che ha riacquistato energia nuova nel corpo e forza nell’anima. Il verbo saltare rimanda alla vitalità dei dinamismi giovanili dell’oratorio, che richiamano il gioco e il sano divertimento, la gioia contagiosa che viene dallo stare insieme, e l’esperienza di condivisione della vita di fede che mai possono mancare in ogni realtà educativa salesiana.
Si ritrova il ritmo della lode: essere riconoscenti a Dio è ciò che scaturisce da un cuore e da un corpo risanati e ringiovaniti. La fede si esprime in forma prioritaria attraverso la gratitudine per la salvezza ricevuta. È relazione felice e feconda con il Dio dell’alleanza, che gratuitamente ci giustifica con la sua grazia, e così diventa seme di rinnovamento e di compimento dei dinamismi dell’umano. L’oratorio, come dice la stessa parola, è un luogo di preghiera: non ci può non essere spazio appropriato e tempo dedicato per la lode e la celebrazione.
La vicinanza agli ultimi allarga poi l’essere Chiesa: Pietro e Giovanni hanno conquistato un nuovo membro che si inserisce nel loro cammino comune. Hanno riscoperto ancora una volta che la comunità ecclesiale non è elitaria ed escludente, ma in grado di accogliere i più piccoli e i più poveri. In tal modo si mostra che essa è costituita da peccatori perdonati, da ammalati risanati, da ciechi che recuperano la vista, da muti che incominciamo a lodare Dio. È una Chiesa che attraverso i poveri e i piccoli riacquista la sua identità propria di popolo in cammino.
Il carisma salesiano nasce dal contatto con i giovani più poveri. È la risposta storica che Dio ha ispirato a don Bosco – non senza l’intervento materno di Maria – nel tempo in cui le periferie urbane delle grandi città industriali erano diventate spazio di degrado e di abbandono e dove i giovani, porzione più delicata della società, hanno rischiato la marginalizzazione sociale e l’abbandono ecclesiale. Lì il Signore ci ha fatti nascere e crescere. Lì tanti giovani disperati – parola che letteralmente significa “privi di speranza” – sono stati toccati dalla speranza viva che viene dal Vangelo. Lì dobbiamo sempre tornare per riscoprire la nostra identità e missione.
Papa Francesco, in occasione del Capitolo Generale 28° della Congregazione Salesiana svoltosi a Valdocco tra il febbraio e il marzo del 2020, ha indirizzato una commovente lettera ai capitolari. Tutti ricordiamo che per via dell’inizio della pandemia non ha potuto andare di persona a Valdocco. In quel testo del 4 marzo 2020 egli parla continuamente dell’Opzione Valdocco. Di che cosa si tratta? Egli ci invitava a ravvivare il dono che abbiamo ricevuto attraverso l’originaria esperienza apostolica di don Bosco a Valdocco. Ma qual è questo dono? Sono i giovani più poveri e abbandonati! Li abbiamo ricevuti da Dio stesso come centro della nostra esistenza e cuore della nostra missione educativa. Così si è espresso il pontefice argentino:
Scegliendo e accogliendo il mondo dei bambini e dei giovani abbandonati, senza lavoro né formazione, ha permesso loro di sperimentare in modo tangibile la paternità di Dio e ha fornito loro strumenti per raccontare la loro vita e la loro storia alla luce di un amore incondizionato. Essi, a loro volta, hanno aiutato la Chiesa a reincontrarsi con la sua missione: «La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo» (Sal 118,22). Lungi dall’essere agenti passivi o spettatori dell’opera missionaria, essi divennero, a partire dalla loro stessa condizione – in molti casi “illetterati religiosi” e “analfabeti sociali” – i principali protagonisti dell’intero processo di fondazione. La salesianità nasce precisamente da questo incontro capace di suscitare profezie e visioni: accogliere, integrare e far crescere le migliori qualità come dono per gli altri, soprattutto per quelli emarginati e abbandonati dai quali non ci si aspetta nulla.
È forte l’idea secondo cui i giovani hanno aiutato la Chiesa a re-incontrare se stessa. In quella lettera si dice che Don Bosco «non scoprì la sua missione davanti a uno specchio, ma nel dolore di vedere dei giovani che non avevano futuro». È quindi evidente che i giovani, soprattutto i più emarginati, non sono dei meri destinatari della nostra azione, ma sono coloro che più di altri possono aiutarci a riscoprire “chi siamo” e “per chi siamo”. I giovani, viene ribadito ancora dal Santo Padre, «potremo chiamarli co-fondatori delle vostre case».
Dal coraggio di andare alla realtà nasce la capacità di convocare con fiducia e speranza per coinvolgere ogni giovane e adulto a condividere i talenti, di corresponsabilizzare per creare un ambiente in cui tutti si sentano soggetti della missione: in tutte le nostre opere ogni operatore pastorale «sarà esperto nel convocare e generare questo tipo di dinamiche senza sentirsene il padrone». E, aggiunge papa Francesco, «trovare negli ultimi la fecondità tipica del regno di Dio» non è «una scelta strategica, ma carismatica».
Possiamo dire quindi che l’Opzione Valdocco è stata per tutti i giovani un’Opzione speranza. Lo è stata non solo per i giovani, ma anche per la Chiesa, che servendo i giovani e camminando con loro ha ritrovato se stessa.
Il nostro contesto globale e locale attuale è stracolmo di giovani poveri e abbandonati, sotto molti punti di vista. La “cultura dello scarto”, prodotta dal neoliberismo imperante a tutti i livelli che riduce tutto a tre verbi – compra, usa, getta –, sembra essere al massimo della sua produzione, e si espande a macchia d’olio nel tempo della globalizzazione dell’indifferenza: migranti, disoccupati, emarginati, carcerati, poveri, ignoranti, ecc. I giovani più di tutti patiscono di questa situazione. Tale mentalità, agendo poi di conseguenza, contagia gli affetti più cari, le relazioni sociali, l’economia e la finanza e perfino la visione stessa dell’esistenza umana. Viene chiamata “cultura dello scarto”, ma a ben vedere questo non ha proprio nulla a che vedere con la nobile parola “cultura”: è in realtà la negazione di ogni cultura e di ogni dignità umana.
Di fronte a questa situazione non possiamo permetterci il lusso di non commuoverci. Se non lo facessimo saremmo infedeli al carisma salesiano, che nasce dalle lacrime amare e dal cuore ferito di don Bosco quando incontra i giovani chiusi nelle carceri di Torino o li vede girovagare senza senso e senza meta tra le periferie insane della città. Anche noi siamo chiamati, come don Bosco all’inizio della sua missione, a discernere circa le azioni da compiere per venire incontro alle povertà di oggi. Anche papa Francesco ci spinge in questa direzione:
«Esorto le comunità a realizzare con rispetto e serietà un esame della propria realtà giovanile più vicina, per poter discernere i percorsi pastorali più adeguati» (Christus vivit, n. 103).
Rispetto a tutto ciò, è necessario interrogarsi in vista di un’azione coraggiosa e profetica nelle nostre realtà salesiane verso i giovani più emarginati, fragili e a rischio.
Ci possiamo innanzitutto fare delle domande a partire dalle esigenze della speranza:
Ci sono poi degli interrogativi che ci vengono dall’ambito della fede in relazione alla speranza:
Infine, siamo anche sfidati a proposito della carità, sempre in relazione alla speranza:
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