Fabrice Hadjadj, scrittore e filosofo francese, di origine ebraica, ci racconta la sua conversione. "La mia conversione non è un punto d'arrivo. E un inizio. Adesso ho un'esigenza di santità, e non direi che mi pesa, ma che mi mette terribilmente in tensione in ogni aspetto della vita, e in un certo senso avrei preferito non averla mai conosciuta, quest'esigenza..."
Già era difficile dover affrontare la questione «Come parlare di Dio oggi?», figuriamoci dover parlare della mia conversione, è ancor più complicato! È estremamente complicato, si tratta di un mistero di intimità dove l’essenziale ci sfugge... Si tratta veramente di qualcosa che mi è caduto addosso, e che però mi ha dato una forza straordinaria, una fiducia straordinaria, perché se uno come me è diventato cristiano, allora può diventarlo anche l’uomo più lontano da Cristo. Grazie alla mia conversione, ho questa certezza: il peggior nemico può diventare amico.
Penso che nessuno avrebbe potuto essere più lontano di me dalla fede cristiana. Per diverse ragioni: innanzitutto sono di famiglia ebraica, quindi per noi il cristianesimo è un errore. Se mai un ebreo si converte, è il traditore assoluto! Dunque per me era impossibile.
Inoltre la mia famiglia era tendenzialmente marxista, cosicché nostro modello di pensiero era il materialismo dialettica. La giustizia doveva essere realizzata digli uomini e per gli uomini, e non da Dio o per Dio... perciò nella religione non potevo vedere altro che “l’oppio dei popoli”.
Oltretutto ero figlio della scuola repubblicana francese dove inculcano l’idea che il cristianesimo è un oscurantismo ed è molto raccomandabile liberarsene attraverso una pseudo-razionalità, una razionalità chiusa, secolarizzata, che finge di ignorare il mistero e confonde l’incomprensibile con l’inconoscibile.
La quarta ragione è che le mie letture mi avevano avvicinato, per una speciale affinità, a Nietzsche. E ancor oggi, proprio come resto ebreo, resto discepolo di Nietzsche! Ma è vero che ero profondamente segnato dal pensiero nietzschiano, quindi da un pensiero che afferma piuttosto l’anticristo, perché, come sosteneva Nietzsche stesso, il Cristo sembra un maestro di nichilismo.
Infine, ovviamente, ero un peccatore... vivevo in modo dissoluto. Mi piacevano troppo le ragazze, ne ho conosciute tante, e quindi, necessariamente, poiché vedevo la Chiesa dall’angolatura della sua morale sessuale, non la vedevo come una madre misericordiosa, ma come una matrigna pronta a condannarmi.
Avevo già cominciato a scrivere e i miei primi testi erano veramente anticristiani Ero davvero molto lontano dalla fede. Certo è che la conversione è una grande grazia. Non lo dico con una foga speciale, quella che rischierebbe di farci scivolare verso il “fondamentalismo”, per l’appunto. Mi riferisco a questa mia certezza che chiunque ha la disposizione a ricevere Cristo, che in realtà nessuno sulla terra se ne è allontanato più di tanto. Ed è forse questo che rende così audaci noi convertiti. Non facciamo che ripeterci: «Ma se è potuto succedere a me, miserabile, indegno, ingrato, allora può succedere a quello lì, che sembra il più polemico, il più ostile! ». Quando nella mia conferenza dicevo che innanzitutto bisogna meravigliarsi della presenza di Dio nell’altro e che sappiamo che il cuore del nemico è nostro alleato, l’ho detto in base alla mia esperienza; è quello che è successo nella mia vita.
Ora, se devo fare un rapporto più circostanziato dei fatti che sono serviti per la mia conversione, come prima sottolineava Kiko, ecco: dei fatti ci sono stati, questo è certo, e questi fatti sono stati anche momenti di presa di coscienza.
Ma come preambolo vorrei fare tre precisazioni.
La prima è che questi fatti sono stati decisivi psicologicamente. Giacché, malgrado tutto, non devono farmi dimenticare tutto ciò che li precede, vale a dire che Dio ci converte con l’intera creazione. Certamente ci può essere un avvenimento tale da farci prendere coscienza, ma, in ultima analisi, se credo in Dio non è solo per questi avvenimenti: è perché ho visto la bellezza degli esseri, perché ho visto la bellezza di un fiore, di un volto..., perché nel mio cuore c’è l’aspirazione alla gioia e questo è fondamentale! Dunque, tutta la creazione ha la funzione di convertirci e dietro gli eventi — che quasi definirei aneddotici — c’è questo evento primo, che è l’evento dell’esistere; tutto il resto è servito a prenderne coscienza. È importante ribadire questo.
La seconda precisazione, è che sarebbe sbagliato ritenere che io sia passato dal giudaismo al cristianesimo. Non sono mai stato un ebreo praticante e mi sentivo ebreo non in senso religioso, ma perché era l’identità della mia famiglia. Eravamo ebrei, ma ebrei assimilati, e spesso Marx era più importante di Mosè, o meglio Mosè era compreso alla maniera marxista, come il liberatore di un popolo. E poi, devo confessarlo, io mi proclamavo ebreo perché così era più facile presentarmi come membro di un popolo di vittime: è molto più facile presentarsi come vittima che come carnefice! Comunque, non si trattava di vero giudaismo, quindi io non sono affatto passato dal giudaismo al cristianesimo. È in Cristo che ho riscoperto la mia ebraicità. E sono molto più ebreo oggi di quanto lo fossi prima della mia conversione.
Ecco la terza precisazione, che io ribadisco sempre: la conversione non ha un termine. Potrei raccontarvi una bella storiella per lusingare il “club” a cui noi apparteniamo Noi siamo il club dei cristiani, e io ne ero lontano. Poi mi sono convertito, e sono entrato nel club dei cristiani e perciò tutti si congratulano con me, tutti sono lusingati perché noi ci troviamo bene tra cristiani. Ma la Chiesa non è un club. E la mia conversione non è un punto d’arrivo. E un inizio. È il dono ricevuto, e se non lo faccio fruttificare finirò per trovarmi in una situazione peggiore di prima. Lo so, si tratta di un’esigenza, di un compito, e io ho ancora molto bisogno di convertirmi. Adesso ho un’esigenza di santità, e non direi che mi pesa, ma che mi mette terribilmente in tensione in ogni aspetto della vita, e in un certo senso avrei preferito non averla mai conosciuta, quest’esigenza, a volte mi piacerebbe sbarazzarmene completamente. Ma non posso farci nulla che il Cristo sia la verità; mi farebbe comodo a volte che non lo fosse, ma non posso farci nulla.
Ecco, queste sono le premesse. Per me sono molto importanti, per evitare di farvi avere un’idea sbagliata di quello che è successo e di quello che rimane da fare.
Cos’è successo?
Direi che due o tre cose hanno permesso la mia presa di coscienza, la mia metanoia, come si dice.
Innanzitutto sono stato segnato dalla riflessione sul corpo, perché ero nietzschiano e perciò avevo l’ossessione di affermare la carne, il corpo. L’affermazione della carne e del corpo in una società sempre più tecnicista, che soprattutto ci trasmetteva l’idea che il corpo umano è troppo debole, troppo fragile, e che ormai bisognava creare un superuomo. Ora, io ero convinto che c’era del buono nella carne. Ero convinto che nell’uomo, nel fatto stesso della sua inadeguatezza, nella sua stessa angoscia, c’era qualcosa di buono. E quindi, a un certo momento, mi sono detto: l’uomo nella sua debolezza, l’uomo nel suo grido, ecco l’uomo vero. Non l’uomo della prestazione, non l’uomo dell’efficienza. Nella mia riflessione sull’uomo tecnocratico, sono giunto alla conclusione che questo superuomo che si vuol fabbricare non è l’uomo vero, è un essere subumano! Ciò che rende grande l’uomo, infatti, non si trova nelle prestazioni materiali, ma si incontra inaspettatamente nella lacerazione dal basso in alto che lo fa rivolgere all’origine delle cose, che lo fa interrogare sull’origine delle cose.
Questa scoperta non poteva che dispormi a incontrare il mistero della croce, vale a dire il mistero del Verbo fatto carne. Abbiamo davanti agli occhi un corpo crocifisso, un corpo flagellato, e ci vien detto: «Ecco l’uomo!» Questo, in seno alla mia riflessione, fu veramente decisivo. Nel mondo della prestazione, scoprivo che ciò che costituisce l’umano non è la prestazione orizzontale, ma una presenza verticale e lacerante.
Un secondo elemento è dato dal fatto che io scrivevo. In realtà non sono un filosofo; per essere esatti sono innanzitutto uno scrittore, ho cominciato a scrivere prima di mettermi a insegnare filosofia, e mi sono messo a insegnare filosofia per essere sicuro di sbarcare il lunario e poter scrivere senza dovermi preoccupare troppo. Ora, avevo alcuni amici scrittori che facevano largo uso della Sacra Scrittura per pervertirla, per prendersene gioco. In particolare avevo un amico che aveva scritto un libro in cui aveva collocato, sopra ogni aforisma, un versetto della Bibbia, in antitesi, per fare dell’humour, dell’ironia, come se mettessi “Lasciate che i bambini vengano a me” sopra la storia W. un orco pedofilo. Allora mi son detto: non è male questa trovata, farò la stessa cosa, mi prenderò gioco della Sacra Scrittura. Uno scrittore, chiunque sia, deve per forza avere un rapporto con la Sacra Scrittura proprio perché è la Scrittura lo zoccolo duro della nostra cultura; arriva sempre il momento in cui bisognerà confrontarsi con essa. Il fatto è che per confrontarsi con essa, per ridicolizzarla, per pervertirla, bisogna leggerla. Ed è quello che è successo: ho dovuto leggerla, qualcosa che non mi era mai capitato davvero. E ho cominciato leggendo i grandi profeti, Isaia in particolare. E sono rimasto sbalordito: «Ma è fortissimo! In fondo Isaia è come Nietzsche, ma in meglio!» Ero stupefatto a un tempo dalla violenza con cui denunciava l’ipocrisia dei “credenti”, ma anche dalla sua poesia, dalla sua forza come scrittore. Dunque, avrei voluto io pervertire la Scrittura ma, in un certo senso, è la Scrittura che ha pervertito me. Non me l’aspettavo assolutamente, neanche mi sfiorava l’idea che questo potesse succedere!
Poi, ci sono altri due fatti, altri due eventi, non tanto eventi di ordine intellettuale (attenzione, gli eventi di ordine intellettuale sono molto importanti per un pensatore!), ma eventi di vita, incontri.
Il primo evento, è quando sono andato al processo di Pani Touvier, perché i miei genitori avevano un amico avvocato ebreo che aveva ricevuto l’incarico di avvocato di parte civile. Pani Touvier era un funzionario francese accusato di aver collaborato alla deportazione degli ebrei, e quindi sono andato al processo con altri intellettuali francesi più anziani di me: c’era in particolare Alain Finkielkraut. Certo, quest’uomo, Paul Touvier, aveva commesso crimini atroci, ma quando sono tornato ho pensato dentro di me: io sono ebreo e per tutta la vita potrei rivendere il fatto di essere ebreo dicendo: ecco, sono dalla parte delle vittime! E il carnefice è l’altro. E mi son detto: Non è vero! Cosa avrei potuto essere all’epoca? Sarei stato senza dubbio come Paul Touvier, forse peggio; non sarei stato un nazista per il solo fatto che sono ebreo, perché mi avrebbero deportato prima, per questo non avrei avuto la possibilità di essere nazista. E tutto d’un tratto dentro di me ho concluso: nessuno è pura vittima, nessuno è puro carnefice, anch’io sono colpevole. Mi sono sentito profondamente colpevole. Sapevo che dimoravano in me potenzialità negative, che avrebbero potuto rendermi carnefice e non solo vittima. E a quel punto mi sono domandato: ma allora chi è l’innocente che salverà il mondo? C’è bisogno di un innocente, c’è bisogno di un innocente puro che salvi il mondo. E non si trattava semplicemente di un’idea, era in me un’esigenza del cuore. In ogni caso, da quel momento ho smesso di sentirmi puro, o meglio ho smesso di carezzare la mia impurità, e ho smesso di considerarmi il supremo giudice!
Il secondo evento esistenziale ha un aspetto piuttosto paradossale, ironico: è quando ho pregato per mio padre malato. Dico ironico, perché mio padre è guarito da quella malattia, ma il fatto che io mi sia convertito è diventata forse la sua malattia più grave.., perciò, vedete, è piuttosto imbarazzante! Mia madre un giorno mi chiama e mi dice che mio padre è malato e teme che possa morire. Ha chiamato l’ambulanza per portarlo all’ospedale e io devo raggiungerli. Ora, la prima cosa che mi viene in mente in quel momento è di entrare in una chiesa! Certo, ero predisposto dalle mie letture e così via... ma al contempo ero molto riluttante, per me era una eventualità per niente concreta, era nella mia testa piuttosto che nell’anima. Comunque sono andato in una chiesa, la chiesa di Saint-Séverin a Parigi, una chiesa che si trova nel quartiere latino, vicino alla Sorbona. Era proprio la chiesa in cui ero entrato la settimana prima. Una settimana prima ero entrato in quella stessa chiesa con uno dei miei amici, un nietzschiano come me, e quest’amico di cognome fa Dieu, cioè Dio. Si chiama Frédéric Dieu. Dunque ero entrato con questo “Dio” nietzschiano in questa chiesa e siamo arrivati davanti a una statua di
Nostra Signora del Perpetuo Soccorso, abbiamo letto gli ex-voto che stavano intorno, e quindi, da nietzschiani, da volterriani che eravamo, ce ne siamo fatti beffe: “Ringraziamento per il felice esito degli esami”, “Grazie per una causa felicemente risolta”, “Un baccelliere pieno di gratitudine”, “In segno di riconoscenza per una guarigione”... Avevamo commentato: chiedere a Dio cose come queste, è veramente ridicolo. Se si deve pregare Dio, non è certo per chiedere qualcosa. Avevamo quest’idea. Ora, che è successo quando mi sono trovato di fronte al fatto che mio padre era malato?... Ero disarmato... non potevo far nulla! Allora sono andato davanti a quella statua di cui mi ero preso gioco e mi sono messo nell’atteggiamento delle persone che avevo disprezzato. E c’è stato un momento di preghiera. Quel che è accaduto non è stato ricevere una grande luce, ma qualcosa come il mormorio del silenzio sottile del monte Oreb (cfr. 1 Re 19,12). Ho avuto l’impressione, forse per la prima volta in vita mia, pregando, pregando la Vergine Maria, di trovarmi al mio posto... È la lacerazione verticale di cui parlavo: essere uomo è volgere lo sguardo al mistero dell’esistenza e aprirsi al suo richiamo. Questa certezza non mi ha mai più lasciato. Ciò non significa che mi trovi sempre al mio posto, non vuol dire che io preghi molto, ahimè! Mi piacerebbe tanto essere un vero uomo di preghiera, ma non lo sono.
Uno scrittore riflette sempre sul mistero della Parola, e quando poco fa ho detto: ogni parola in fondo è legata al fatto di rivolgersi a Dio, al mistero di Dio, è davvero ciò che ho sperimentato in quel momento. Cosa significa parlare veramente? Parlare nella verità? Il mistero dell’uomo è proprio il mistero di una parola che ritorna alla sorgente, che l’interroga e che può anche domandarle: “perché?”. Curiosamente, nel momento stesso in cui ho chiesto a Dio la guarigione di mio padre, mi è stato dato anche ciò che non avevo chiesto: la pace di ritrovarmi al mio posto.
Ecco, all’inizio tutto ciò era rimasto in ambito affettivo e intellettuale, poi c’è stato l’evento del mio Battesimo; è qualcosa che gli altri, se hanno ricevuto il Battesimo da bambini, non sempre riescono a capire. Per me, il Battesimo è stato come dice il Salmo: «É rifiorita la mia carne» (Sal 27,7, LXX), perché è successo qualcosa di fisico. Nel periodo in cui già mi professavo cristiano, mi interessavo ancora a una letteratura molto impura, cercavo il piacere in musiche rumorose, più che musicali, continuavo a vivere o meglio a dibattermi in un’impurità sessuale molto grande. Ora, a partire dal momento del mio Battesimo, ho ricevuto un dono di castità, di continenza... fino al matrimonio, e la mia sensibilità è cambiata, qualcosa è successo nella mia carne.
Adesso, tutto quello che ho detto è comunque molto parziale, perché l’essenziale non può essere visto. Ma vorrei aggiungere un’altra cosa: cioè che la grazia battesimale, per me, si è dispiegata nella grazia coniugale. Capita spesso, siccome sono un convertito, che mi si interroghi sul mio Battesimo senza chiedermi nulla sul mio matrimonio, che tuttavia è il luogo dove il mio Battesimo si dispiega. Devo al matrimonio, devo a mia moglie e ai miei figli se sono uscito da un cristianesimo cerebrale e se ho ritrovato veramente la concretezza, se ho ritrovato la carne. Se ho ritrovato per esempio l’esigenza della politica, dell’impegno. Quando si hanno dei figli, si capisce immediatamente cos’è la vera responsabilità; e Cristo non può più essere un mero affare privato, perché sono in gioco delle esigenze fondamentali: in che mondo lascerò i miei figli? E inoltre si è realizzato un nuovo sviluppo della mia vita affettiva, dato che, grazie a mia moglie e ai miei figli, si sono liberate in noi sorgenti d’amore inimmaginabili, completamente inattese. Ogni nuovo nato libera in me un amore di cui non immaginavo di essere capace.
All’inizio della mia conversione, la mia fede era una fede molto centrata su Cristo crocifisso e sulla sofferenza di Cristo. Oggi la mia fede è diventata una fede veramente centrata su Cristo risorto. Devo ai miei figli questa apertura alla gioia, un’apertura molto più profonda, molto più radicale alla gioia. Il Battesimo mi ha dato la speranza per potermi sposare, per poter donare la vita, ma dopo, è il matrimonio e quindi mia moglie e i miei figli che sono diventati per me veramente presenza di Dio. Quando ho portato mia figlia, la mia primogenita ancora molto piccola, al mio padre spirituale — mio padre spirituale è un monaco benedettino, io stesso sono oblato dell’abbazia di Solesmes, sono stato battezzato a Solesmes e con mia moglie abbiamo anche celebrato il matrimonio a Solesmes — quando gli ho portato mia figlia, dunque, mi ha detto: “Tu ora hai tra le braccia il tuo direttore spirituale!”. Era una frase curiosa, perché un bambino è l’imperfezione stessa; allo stesso tempo però questa è la parola del Cristo: se non diventerete come questo bambino... (cfr. Mt 18,3). Dover vivere con i bambini, quando si è padri di famiglia, è una grande grazia spirituale. Una grazia d’abbandono e una grazia di gioia.
A questo punto, per concludere, vorrei fare una considerazione. Si sente dire sovente, riguardo a coloro che come me aderiscono alla Chiesa da adulti, coloro appunto che possono raccontare come sono arrivati al Battesimo, che la loro esperienza è particolarmente significativa, perché avrebbe una garanzia di maggiore autenticità rispetto all’esperienza di chi è “nato cristiano”, di chi è stato battezzato da bambino. Devo confessarvi che mi mette un po’ in imbarazzo l’apologia dei convertiti rispetto ai cristiani di nascita. Allora che dovrei fare con i miei figli? Non dovrei trasmettergli la fede perché diventino dei convertiti? Dovrei far in modo che i miei figli conoscano il male peggiore, che al limite diventino atei, prostitute, drogati e quant’altro perché dopo possano dire: “Io ero nella notte... ho visto una luce... sono uscito dal tunnel...”? No, è meraviglioso essere cristiani dalla nascita, una meraviglia ancor più grande, ne sono convinto. Sono profondamente impressionato dalle parole di santa Teresa di Lisieux, quando si domanda quale sia il padre più premuroso. É il padre che si prende cura del figlio che è caduto? Oppure il padre che ha visto l’ostacolo sul cammino del figlio e l’ha rimosso in modo che il figlio non cada, il padre che, in qualche modo, l’ha accompagnato sin dalla nascita?
Indubbiamente per chi è cristiano dalla nascita il vero problema è la banalizzazione, l’eccessiva familiarità con il mistero, che così ai nostri occhi finisce per snaturarsi. Ma quando ci rendiamo conto che questa familiarità, nella sua essenza, è un dono straordinario e che non ha niente di banale, penso che allora giungiamo alla consapevolezza più meravigliosa. Il figlio maggiore che accoglie il figliol prodigo senza lamentarsi è la cosa più bella che esista. D’altra parte, possiamo dire che i cristiani dalla nascita sono anch’essi tutti dei convertiti, perché si può parlare di una “seconda conversione”. Il fatto è che la trasmissione, la tradizione, è sempre la cosa più importante, perché è all’interno di questa tradizione che si realizza la novità della vita cristiana. Non può esserci conversione senza tradizione.
Infine, anche quando si è cristiani dalla nascita, non si può far altro che cominciare, entrare nella grande avventura della fede. La posta vera è comprendere che si tratta di una grande avventura e non certo di una sorta di acquisizione banale, così comune da farci impunemente sprofondare nell’ingratitudine e nell’oblio.
Fabrice Hadjadj
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