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La libertà soffocata

l “grande maestro” è chiaramente il Dalai Lama in esilio, che non calpesta la sua terra da 49 anni, ma conosce bene i gravi problemi del Tibet. Sa quanto sia difficile, se non impossibile allo stato attuale delle cose, far cambiare rotta a Pechino...


La libertà soffocata

da Attualità

del 04 aprile 2008

S’insinua come un serpente ai piedi delle cime dove si poggia il cielo azzurrissimo del mondo. È il treno che collega Pechino con Lhasa, capitale del Tibet, inaugurato in pompa magna nell’estate del 2006 dalle autorità cinesi. Un’opera di ingegneria tecnologica straordinaria, che copre in 40 ore 4.200 chilometri e capace di correre oltre i 5.000 metri di altitudine. Un convoglio sbalorditivo, con vagoni passeggeri costruiti per resistere a quelle altezze: doppi vetri con filtri per smorzare i raggi ultravioletti, pressurizzazione come negli aerei per garantire l’ossigenazione.

Per riuscire in questa impresa titanica, il governo cinese ha stanziato oltre 5 miliardi di euro. Sono serviti a vincere gli ostacoli che il territorio del Tibet metteva di fronte agli ingegneri: stabilità dei binari a quelle altezze, dove il suolo è sempre ghiacciato, precipizi da superare con ponti arditi, varchi da aprire nelle valli remote.

Niente ha fermato le migliaia di operai che, come operose formiche, si sono lanciate nell’impresa, coronando un sogno accarezzato già mezzo secolo fa da Mao, rimasto irrealizzato perché la tecnologia allora era inadeguata.

Il “treno del cielo”, com’è stato ribattezzato, è diventato così il fiore all’occhiello dell’amministrazione di Pechino, che va ad aggiungersi ad altri pesanti interventi attuati negli ultimi anni in Tibet: costruzioni di autostrade, palazzi e grattacieli, impianti per l’estrazione mineraria, gasdotti e dighe. Uno sviluppo simile a quello già attuato in altre zone e città della Cina, che il presidente Hu Jintao ha chiamato “modernizzazione”.

C’è un problema, però. La “modernizzazione” non è stata chiesta dai tibetani, è stata loro imposta: con la forza e la violenza. E, purtroppo, è una storia vecchia.

 

 

Il pugno rosso

 

Grande come l’Europa, il Tibet ha sempre fatto gola alla Cina per la sua strategica posizione geo-politica. Si trova ai confini con l’India e l’Asia Centrale, dal suo territorio sgorgano le vitali sorgenti d’acqua dei maggiori fiumi del continente (lo Yangtze, il Fiume Giallo, il Mekong, l’Indo, il Brahmaputra) e custodisce giacimenti di minerali preziosi come oro e uranio. Lo capisce subito Mao Zedong che, appena un anno dopo la conquista del potere, nel 1950 scatena l’Esercito di Liberazione Popolare, che invade la regione all’ombra dell’Himalaya arrivando fino alla capitale, Lhasa.

I cinesi hanno vita facile nell’occupazione. Di fronte, si trovano un popolo numericamente ridotto (6 milioni di abitanti), militarmente “disarmato” (8.000 soldati tibetani contro 40.000 cinesi), sostanzialmente mite, costituito da pastori, montanari e monaci. È una società, difatti, in cui la religione, il buddismo, ha un’importanza centrale. Seguita praticamente da tutti gli abitanti, con monasteri sparsi nell’intero territorio, ha in Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, la sua suprema guida spirituale e politica, riconosciuta dai tibetani. È infatti lo stesso Dalai, allora adolescente, che cerca all’inizio una mediazione con Mao affinché il suo popolo e la sua cultura millenaria non vengano brutalmente cancellati. Sono tentativi inutili. L’esercito cinese opera arresti e repressioni di massa, tanto che nel 1959 il Dalai, in pericolo di vita, lascia il Tibet e fugge avventurosamente in esilio in India. Troverà ospitalità a Dharamsala, insieme a migliaia di profughi, dove stabilisce il suo quartiere generale intorno alla “nuova” comunità tibetana.

 

 

Aumenta la repressione

 

L’occupazione cinese, intanto, non allenta la sua morsa. Anzi, nel 1965, in piena “Rivoluzione culturale”, si fa più cruenta. Scrive Federico Rampini, corrispondente del quotidiano La Repubblica dall’Oriente e autore di libri di successo, nel suo L’ombra di Mao: «Il fanatismo radicale delle Guardie Rosse aizzate da Mao devasta uno dei più ricchi patrimoni artistici e archeologici dell’umanità. Molto prima dei talebani in Afghanistan o di Pol Pot in Cambogia, i comunisti cinesi decidono di annientare tutto ciò che ricorda la religione: castelli e statue, dipinti e libri antichi vengono distrutti. Dei seimila templi e monasteri censiti prima del 1959, nel 1976, dopo dieci anni di Rivoluzione culturale, non ne resta intatto neanche uno». Anche il numero dei morti fa tremare i polsi. Oltre un milione di tibetani, monaci e monache compresi, sono uccisi dai militari, un quinto dell’intera popolazione. La terribile tempesta rossa non piega però l’anima tibetana, che resta comunque devota ai principi del buddismo e alla sua guida in esilio, il Dalai Lama, di cui è proibito tenere l’immagine. Il popolo prova persino a rialzare la testa nel decennio successivo, con insurrezioni e contestazioni, favorito da un leggero calo di attenzione del regime. Il risultato, alla fine, è l’arrivo di un giovane rampante della nomenclatura di Pechino, Hu Jintao, attuale presidente della Cina, a cui è affidato il compito di mettere ordine nella regione. Nel 1988, Hu istituisce la legge marziale e dà il via a una nuova ondata di sanguinose repressioni. Saranno le ultime, almeno di così grosse proporzioni. All’orizzonte si fa largo un altro tipo di repressione, più subdola e strisciante, ma non meno devastante della passata.

 

 

IL TEMPO DELLA MODERNIZZAZIONE

 

Il cambio di rotta voluto da Deng Xiaoping, con l’apertura economica al mercato internazionale, e proseguita con i suoi successori, ha fatto diventare la Cina il colosso che è oggi. Quel cambio, più che in altre regioni lontane da Pechino, ha avuto riflessi significativi anche in Tibet.

Il nuovo corso, difatti, segue due vie che si intersecano fra loro: quella della ricchezza capitalistica e quella della colonizzazione, con una vasta immigrazione di cinesi sotto le cime dell’Himalaya. «La Cina globalizza il Tibet – dice Gabriel Lafitte, esperto di economia tibetana all’università di Melbourne, Australia - . Investimenti stranieri, alta tecnologia, borsa valori, infrastrutture. C’è fretta di integrare non solo il Tibet, ma tutta la metà occidentale del Paese, drenare le sue risorse e fronteggiare un malcontento diffuso delle popolazioni di quelle aree lasciate indietro dallo straordinario sviluppo concentratosi soprattutto a est». Il Tibet, in particolare, offre la possibilità di invertire il flusso di manodopera cinese, finora diretto verso le ricche metropoli ormai ai limiti della sopportazione demografica.

 

 

Risorse da sfruttare

 

Il tetto del mondo, d’altra parte, benché ostico dal punto di vista climatico, è tra i più appetibili. «Il Tibet è stato da sempre considerato uno scrigno di tesori – scrive lo scomparso giornalista e scrittore Tiziano Terzani, che ha vissuto buona parte della sua vita in Oriente - . E i suoi abitanti, prigionieri dei loro tabù e terrorizzati dalle proprie superstizioni, non hanno mai mosso un sasso alla ricerca di minerali, né hanno mai cercato di aprire delle strade pensando che ciò avrebbe reso sterile la terra».

Secondo Robert Thurman, uno dei più autorevoli studiosi del Tibet, grazie alla loro adorazione di tutto ciò che vive, i tibetani hanno preservato il più sofisticato ecosistema della Terra, «un ambiente così fragile che, una volta scomparso, non potrà ritornare mai più». Un angolo di Paradiso, dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità.

A Pechino, però, tutto questo poco importa. La svolta “modernista” deve proseguire a spron battuto. Ci sono risorse da sfruttare per soddisfare il bisogno “energivoro” della Cina e che possono dare lavoro a migliaia di cinesi, incentivati a fare le valigie verso Lhasa e ad allentare così le tensioni sociali interne al Paese. Non a caso, il governo ha facilitato le pratiche per la residenza in Tibet e la regione riceve più sussidi che in altre Province.

È un nuovo tipo di “occupazione”, in parte meno violenta di quella militare, ma forse più destabilizzante. L’afflusso di coloni cinesi ha ormai ridotto a minoranza i tibetani e il “miracolo economico” in atto nella regione ha portato loro scarsi benefici.

A Lhasa, specchio del cambiamento, si ricostruiscono interi quartieri, si innalzano grattacieli e si asfaltano strade. «I tibetani – riporta il giornalista Joshua Kurlantzick in un articolo apparso sul mensile Rolling Stone – vengono sospinti ai margini: nei quartieri più recenti non riesco a trovare neppure un negozio di proprietà di un tibetano. Il flusso di contante ha generato crescita e creato prosperità, favorendo però i cinesi».

I coloni, insomma, viaggiano su corsie preferenziali, favoriti dal fatto che i centri di potere sono tutti nelle mani delle autorità di Pechino, che non si sforzano neppure di imparare la lingua del Tibet. È cresciuto così l’impoverimento di tanti tibetani, incapaci di competere con gli immigrati e di inserirsi in un mondo imprenditoriale dominato dai cinesi. Il risultato è l’emarginazione sociale ed economica.

La “modernizzazione”, intanto, apre le porte anche al turismo, che sbarca dagli aerei migliaia di visitatori, cinesi e stranieri, in Tibet. Un numero in aumento con la nuova linea ferroviaria Pechino-Lhasa, che inonda il territorio di 800.000 immigrati e turisti all’anno. Ad accoglierli, nella capitale in trasformazione e sempre più simile alle megalopoli cinesi, hotel di lusso, grandi magazzini, fast food, locali notturni con contorno di prostituzione e di spaccio di droghe, problemi un tempo sconosciuti.

 

 

L'armonia spezzata

 

A osservare questo mesto panorama, c’è il maestoso Potala, il palazzo sacro più elevato del mondo a 3.800 metri di altitudine. Per 360 anni è stato la dimora dei vari Dalai Lama, di cui ospita le salme. Oggi, restaurato e aperto dalle autorità cinesi che in passato lo avevano chiuso, è meta di continue visite da parte di turisti cinesi e occidentali, ma anche di molti pellegrini locali.

È il segno di una religiosità ancora profonda e diffusa, che resiste nel popolo tibetano nonostante gli sforzi delle autorità cinesi di cambiarla con ogni mezzo. «Un’antica cultura muore – spiega Renata Pisu, giornalista attenta ai problemi dell’Oriente – e si tenta di farla sopravvivere nei suoi aspetti folkloristici, e cioè danze tibetane, maschere tibetane, salmodiare di preghiere, il tutto a uso e consumo di un turismo incolto e vorace».

La Cina, infatti, da circa un decennio, ha cambiato registro nei confronti della religione buddista. Una volta constatato quanto sia difficile estirparla, ha concesso delle aperture, ovviamente a suo modo. Lo spiega bene Joshua Kurlantzick: «Pechino sostituisce sistematicamente i monaci locali più venerati con propri leader fantoccio, torturando e uccidendo coloro che si rifiutano di sommettersi all’autorità cinese». E chi si ostina a pretendere libertà viene messo a tacere con discrezione dalle forze di polizia.

Tra i religiosi che vivono sul filo del rasoio, sempre sotto controllo delle autorità, c’è Nyima Tsering, 38 anni, il vice-abate del tempio buddista Jokhang, uno degli edifici più antichi e sacri di Lhasa. Confessa a Federico Rampini: «Per accumulare denaro si distrugge l’armonia tra gli uomini, e tra gli uomini e la natura. Non ho nulla contro i cinesi che arrivano, se vengono per studiare la nostra cultura. Il buddismo appartiene anche a loro, a tutta l’umanità. Ma vengono per il business, distruggono la natura, questa è una tragedia». E aggiunge: «L’altra delusione della mia vita, dopo essere entrato in monastero, è l’assenza di un maestro. Non si impara bene il buddismo senza un grande maestro. Qui non ce ne sono».

 

 

Dialogo e non violenza

 

ll “grande maestro” è chiaramente il Dalai Lama in esilio, che non calpesta la sua terra da 49 anni, ma conosce bene i gravi problemi del Tibet. Sa quanto sia difficile, se non impossibile allo stato attuale delle cose, far cambiare rotta a Pechino. Per questo, da tempo, ha modificato le sue legittime richieste: non chiede più l’indipendenza, ma il riconoscimento di una vera autonomia del suo Paese all’interno della Costituzione della repubblica popolare cinese.

Dal 2001, ci sono stati sei incontri tra la delegazione tibetana e il governo cinese che sembravano aprire spiragli positivi. Poi, all’improvviso, nel 2006, il dietro front di Pechino, con l’aumento della repressione in Tibet e l’attuazione di una strategia di denigrazione verso il Dalai. Proprio lui, che ha avuto parole benevoli persino per il “treno del cielo” Pechino-Lhasa: «La mia terra è arretrata. Siamo un grande Paese ricco di risorse naturali ma del tutto sprovvisto di tecnologie o conoscenze per sfruttarle. Perciò se restiamo dentro la Cina potremmo ottenere benefici più grandi, a patto che si rispetti la nostra cultura e il nostro ambiente naturale. La nuova ferrovia, per esempio, è un’ottima cosa, utile allo sviluppo, purché non la usino politicamente».

Come la usino i cinesi, si è visto. E la dichiarazione del Dalai non è piaciuta ad alcune frange più estremiste del Tibet, che sono per la lotta armata. Una soluzione, questa, che la massima guida spirituale tibetana non accetta e di cui non vuole sentire parlare. Anche se i crimini contro i diritti umani continuano nel suo Paese, l’unica via da seguire, per lui, passa attraverso la non violenza e il dialogo. I gesti terroristici, inoltre, offrirebbero a Pechino la scusa per stringere ancora di più la morsa sul suo popolo.

La strada scelta, quindi, è in salita e tortuosa. Se è vero che il “progresso” ha portato un certo diffuso benessere e dei miglioramenti nella società, come fanno intuire le parole del Dalai, è altrettanto vero che questo benessere raggiunge una minima parte dei tibetani. Non solo. La millenaria cultura della regione sta scomparendo, sostituita da “valori” che non appartengono al suo popolo.

I cinesi, per quanti sforzi facciano, per adesso non sono ancora riusciti a farla scomparire. L’immagine del Dalai Lama è proibita e il suo nome non si può dire. Il suo pensiero e la sua fede, però, superano la cornice delle vette himalayane e arrivano ugualmente nel suo Paese. E forse non sono mai andati via dal Tibet e dalla sua gente, perché è difficile cancellare ciò che custodisce l’anima.

Claudio Facchetti

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