Prima lettera ai TessalonicesiL'efficacia della preghiera e la sua necessità vanno cercate in un'azione che essa esercita non su Dio, ma su «colui stesso che prega». Dio è sempre disposto a colmarci dei suoi doni; ma noi non sempre siamo pronti ad accoglierli: la preghiera ce ne rende capaci.
del 01 gennaio 2002
Il lettore che dia una scorsa alle lettere di San Paolo rimane probabilmente sorpreso dal posto che vi occupa la preghiera, specialmente quell'aspetto particolare di essa che si potrebbe chiamare la preghiera apostolica: questa, essendo essenzialmente legata all'apostolato, non solo da esso trae la sua origine e trova in esso il suo alimento, ma lo prepara, lo accompagna, e persino lo supplisce (1).
S. Paolo, per limitarci a un esempio, nei cinque capitoli della prima lettera indirizzata alla comunità di Tessalonica, ricorda questa preghiera non meno di cinque volte:
Rendiamo grazie a Dio in ogni istante per voi tutti, quando vi ricordiamo nelle nostre preghiere. Ripensiamo senza posa, alla presenza del nostro Dio e Padre, all'attività della vostra fede, alla fatica della vostra carità, alla costanza della vostra speranza, che sono l'opera di nostro Signore Gesù Cristo (1,2-3). Ecco perché noi pure non cessiamo di render grazie a Dio, perché voi, una volta ricevuta la parola di Dio..., l'avete accolta non come una parola d'uomo, ma, quale essa è realmente, la parola di Dio (2,13). Come potremmo rendere a Dio grazie sufficienti riguardo a voi, per tutta la gioia di cui voi ci fate lieti davanti al nostro Dio? Notte e giorno gli domandiamo con estrema insistenza di rivedere il vostro volto e di poter completare ciò che ancora manca alla vostra fede (3,9-10).
E alle preghiere di Paolo i fedeli devono aggiungere le proprie: Pregate senza posa. In ogni cosa state nell'azione di grazie... Pregate anche per noi (5, 17-25 ) (2). Preghiere di ringraziamento o di domanda; preghiere di Paolo o dei fedeli: tutte sono preghiere 'apostoliche'; ogni volta ne viene specificato l'oggetto: si tratta sempre del regno di Dio che dev'essere incrementato.
La preghiera di Paolo non solo è incessante, continua, come deve essere quella di ogni cristiano «notte e giorno» (1Tess. 2,9), - ma si rivolge a Dio con estrema insistenza: l'avverbio, intraducibile («supereccessivamente»), creato probabilmente dall'Apostolo, è usato un po' più avanti nella stessa lettera (5, 13) per dire la stima in cui i cristiani devono tenere i loro superiori, e in Ef. 3,20 per qualificare la potenza di Dio, capace di esaudirci «infinitamente più di quanto noi possiamo domandare o concepire». È chiaro che qui
Paolo vuol esprimere qualcosa dell'intensità della sua supplica. Già questo suggerisce che per lui la preghiera è una specie di lotta, di combattimento che l'uomo ingaggia con Dio. Certo è che in altri passi San Paolo non ha esitato ad usare tale termine. Alla fine della lettera ai Romani, riprendendo dopo lunghe esposizioni teologiche il tono confidenziale dell'amicizia, confessa ai fedeli di Roma l'inquietudine che lo tormenta. Li supplica che preghino secondo le sue intenzioni, affinché sfugga alle imboscate dei Giudei, e perché le elemosine raccolte con tanta cura tra le chiese dei gentili siano accettate di buon grado dalla chiesa-madre di Gerusalemme: «Ve lo domando, o fratelli, per il Signore nostro Gesù Cristo e per la carità dello Spirito, lottate con me nelle preghiere che per me indirizzate a Dio» (Rom. 15,30).
Nella lettera ai Colossesi lo stesso verbo caratterizza la preghiera di Epafra, il fondatore della chiesa di Colossi (Col. 1,17), per quelli che ha istruito: «Epafra, vostro compatriota, vi saluta: questo servitore del Cristo Gesù non cessa di lottare per voi nelle sue preghiere, affinché voi siate fermi, perfetti e decisi in tutti i voleri divini» (Col. 4,12). Anche all'inizio del capitolo secondo in un contesto simile ritorna la stessa immagine. Tutto effettivamente, e in special modo il passo parallelo di 4,12, fa capire che Paolo intende parlare dell'attività apostolica che egli, come Epafra, esercita per mezzo della preghiera. Prigioniero a Roma e lontano da Colossi, che è nell'Asia Minore, egli ha cura di informare i suoi destinatari che non cessa di essere attivamente il loro apostolo: «Poiché desidero che voi sappiate quale lotta io combatto per voi e per quelli di Laodicea - ai quali chiede che la sua lettera sia trasmessa (4, 16) e per tanti altri che non mi hanno mai visto con i loro occhi» (2, I). Paolo sicuramente concorre alla loro «edificazione nel Cristo» con tutta la sua vita di prigioniero e segnatamente con le sofferenze. che per essi sopporta «completando nella sua carne ciò che manca alle tribolazioni del Cristo per il suo Corpo che è la Chiesa» (Col. 1,24). Ma in tale attività apostolica del «prigioniero» la preghiera ha il suo posto, come l'aveva in quella di Epafra. Orbene, anche qui Paolo parla di una lotta che l'apostolo sostiene con Dio per la salvezza delle anime che gli sono affidate.
Concezione ardita, ma perfettamente in accordo con l'insegnamento del vangelo, quale si ha, per esempio, nella parabola dell'amico importuno (Lc. 11, 5-8), la quale non dimentichiamolo, appare come un commento del Pater, cioè dell'insegnamento di Cristo sulla preghiera (3). E il Cristo non faceva altro che riprendere a sua volta la dottrina che la Bibbia si sforzava di inculcare fin dall'inizio. Si pensi alla preghiera di Abramo in favore di Sodoma e Gomorra, la prima che si incontri, come se dovesse servire da modello a tutte le altre (Cen. 18,17-39), oppure alla grande preghiera di Mosè (Es. 32, 11 - 14 e 30-32), quando, «prostrato davanti a Jahvé per quaranta giorni e quaranta notti senza mangiar pane né bere acqua» (Deut. 9,18 e 25), intercede per il popolo di Israele. Cristo, novello Mosè, inaugurerà lui pure la sua carriera messianica, subito dopo il battesimo, con un soggiorno misterioso di quaranta giorni e quaranta notti nel deserto, nel digiuno e - senza dubbio nella preghiera; soggiorno che S. Matteo chiaramente accosta alla solenne intercessione di Mosè sul Sinai nell'atto di concludere la prima alleanza (Mt.4,2). Né Cristo né San Paolo hanno esitato a insegnare che Dio vuol essere quasi importunato dalle nostre preghiere e lasciarsi strappare a viva forza, si direbbe, ciò che gli domandiamo. Così facendo essi si sono tenuti nello spirito della più pura tradizione biblica, che non rifugge dai paragoni più audaci. Si pensi che i Padri hanno visto nella lotta di Giacobbe coll'angelo di Jahvé raccontata nel Genesi (32,23-33) una immagine dell'efficacia della preghiera.
Non bisogna però dimenticare che si tratta di espressioni paraboliche, di cui si deve precisare il significato. Col pretesto della fedeltà alla Scrittura si potrebbe lasciar capire che l'uomo con la preghiera si propone di piegar Dio a volere ciò che prima non voleva, come se la creatura potesse esercitare un'azione su Dio stesso, o come se Dio non fosse il padre pieno di amore, sempre disposto a dare ai suoi figli ciò che loro conviene (4), infinitamente più sollecito del loro vero bene che di nutrire gli uccelli del cielo o vestire i gigli del campo (5). Ciò equivarrebbe ad attentare a due prerogative del «Dio vivente», la trascendenza e l'amore, che la Bibbia presa nel suo insieme - poiché il Nuovo Testamento spiega l'Antico - sembra gelosa di salvaguardare più di ogni altra cosa.
Se Paolo, fedele all'insegnamento di Cristo e della Bibbia, si compiace di designare la preghiera come una lotta che l'uomo sostiene con Dio, lo fa sicuramente per sottolineare la necessità. Orbene, è possibile fare ciò senza togliere nulla né alla trascendenza di Dio né al suo amore. Il problema non è solo di oggi, e già in passato eccellenti soluzioni furono proposte soprattutto da parte di Sant' Agostino. Il suo insegnamento fu poi ripreso da San Tommaso in formule di particolare limpidezza; per esempio nel Compendio di Teologia rimasto incompiuto, in cui verso la fine spiega insieme «la necessità della preghiera e la differenza tra la preghiera che si rivolge a Dio e quella che si rivolge a un uomo»:
Rivolta a un uomo la preghiera si presenta anzitutto per esprimere il desiderio di colui che prega e la sua indigenza e in secondo luogo per piegare il cuore di colui che si prega fino a farlo cedere. Quando invece si prega Dio..., non intendiamo manifestare i nostri bisogni o i nostri desideri a lui, che conosce tutto... Ancor meno intendiamo piegare con parole umane la volontà divina a volere ciò che prima non voleva... Ma, per ottenere qualcosa da Dio, la preghiera è necessaria all'uomo in ragione di colui stesso che prega per mezzo di essa egli si rende capace di ricevere (6).
L'efficacia della preghiera e la sua necessità vanno cercate in un'azione che essa esercita non su Dio, ma su «colui stesso che prega». Dio è sempre disposto a colmarci dei suoi doni; ma noi non sempre siamo pronti ad accoglierli: la preghiera ce ne rende capaci. Perciò non si deve temere di essere importuni. Infine la sola cosa che possiamo domandare nelle nostre preghiere è il pieno compimento della volontà divina: «venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà»; ma, proprio perché essa si compia, non è indifferente che noi preghiamo, perché ciò costituisce la parte di collaborazione della nostra libertà, che Dio rispetta sempre in modo sovrano.
Naturalmente ciò che San Tommaso afferma della preghiera che il cristiano indirizza a Dio per se stesso si applica a ciò che l'apostolo indirizza a Dio per le anime a lui affidate; Dio vuole servirsi di noi per l'espansione del suo regno e cioè, concretamente, per procurare la salvezza e la santificazione dei nostri fratelli, specialmente di quelli di cui ci ha fatti responsabili a un titolo particolare. Ora noi, così come siamo, non siamo strumenti adatti ad essere utilizzati da Dio: la preghiera - ogni preghiera, ma specialmente quella che indirizziamo a Dio per queste anime - permette a lui di servirsi di noi per comunicar loro i suoi doni secondo il piano della sua sapienza.
È pur vero che la preghiera possiede ugualmente un'efficacia generale in virtù della comunione dei santi, ma ciò che abbiamo detto ci fa comprendere meglio, mi sembra, perché San Paolo attribuisce tale posto alla preghiera di intercessione - azione di grazia e di domanda, correlative l'una dell'altra - e perché nella sua fedeltà alla più pura tradizione biblica egli la concepisce volentieri come una lotta che l'Apostolo combatte con Dio in favore della missione stessa che gli ha assegnato. Quindi la preghiera, essendo effetto essa stessa della grazia di Dio, non esercita su di lui alcuna pressione, non mira affatto a cambiare la volontà di Dio, che non può essere se non una volontà d'amore, ma ha per fine di rendere lo strumento apostolico atto a compiere la parte di strumento di Dio e di permettere così a Dio di realizzare in noi e nell'umanità intera i suoi disegni d'amore. Una tale preghiera, lungi dall'entrare in conflitto con le «necessità dell'azione», trova piuttosto in questa la sua ragion d'essere: parte integrante quale essa è del nostro compito apostolico, se manchiamo ad essa manchiamo alla parte più importante del nostro dovere di apostoli.
[1]. Nella rivista «Christus» n. 10 (1958), pp. 222-229, si troverà un'esposizione un po' più ampia delle stesse idee. [2]. Vedere anche, tra i molti altri esempi, 2 Tess. 1,3 e 11; 2,13; 3,12; oppure 2 Cor. 1,2-4 e 11; 2,14; 8,16; 9,15; 12,7-9; 13,7-9 e 14. [3]. Lc.11,1-4. La stessa dottrina si trova anche nell'episodio della Cananea, Mc. 7,24-30; Mt.15,2I-28. [4]. Lc. 11,11-13; Mt.7,9-11. [5]. Lc. 12,22-31; Mt.6,25-34. [6]. Compendium Theologiae II 2.
Stanislao Lyonnet
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