Dobbiamo abbandonare una volta per tutte la mentalità del ‚Äòfinchè la cosa non mi tocca in prima persona...' ed essere un po' più volontari, donatori...
del 07 gennaio 2017
Dobbiamo abbandonare una volta per tutte la mentalità del ‘finchè la cosa non mi tocca in prima persona…’ ed essere un po’ più volontari, donatori...
Dopo aver seguito da distanza ravvicinata la realtà del campo sfollati di San Severino Marche, cerchiamo di tirare le fila di questa esperienza assieme a Riccardo, volontario CISOM nelle zone terremotate. Nelle sue riflessioni si annida la sfida del nostro presente, tra individualità e gratuità.
Perchè un ragazzo di 18 anni come te dovrebbe lasciare famiglia, amici e scuola per affrontare un’avventura del genere?
Credo sia qualcosa di naturale: mi è sempre piaciuta l’idea di aiutare qualcuno in difficoltà, senza dover necessariamente cercare dei perchè. Poi c’è il fattore emotivo, lo abbiamo provato tutti: cosa c’è di più bello di tornare a casa dopo un lungo viaggio e sentirsi al sicuro? Siamo fortunati. Quando è nata l’idea di recarsi nelle zone terremotate dentro di me è scattato qualcosa di intrinseco, qualcosa di profondamente connaturato in noi giovani: quando sei felice, lo vuoi condividere; quando sei fortunato, vuoi condividere con gli altri la tua fortuna; quando hai del bello, lo vuoi far conoscere al mondo. Ma questo non vale solo nell’eccezionalità, come può essere un terremoto, ma anche e soprattutto nel nostro quotidiano. Per questo ho scelto di essere un volontario CISOM, per condividere la fortuna e la bellezza che ho ricevuto in famiglia e con gli amici, nel servizio agli anziani e agli ammalati, a scuola e nel volontariato. Ognuno può scegliere la strada che preferisce, ma la direzione è la stessa: donare se stessi. Non è semplicemente un dovere, ne va della nostra felicità!
Cosa ti ha colpito maggiormente nell’incontro con le persone sfollate?
La loro semplicità. Erano grati non tanto per ciò che facevo, quanto per il semplice fatto di essere lì a condividere le loro paure e le loro difficoltà. Ricordo un lungo abbraccio con una signora di origini marocchine al momento della partenza, incredibile: senza che io avessi fatto nulla di particolare per lei. Occupandomi dei censimenti, ho incontrato centinaia di persone, ho chiesto informazioni sul loro stato di salute, sulle loro case. Molte erano inagibili o comunque poco sicure, eppure in tanti preferivano continuare a viverci pur di non sottrarre il posto a chi ne aveva più bisogno. Dicevano: ‘Non vi preoccupate, per pasti e quant’altro mi posso organizzare, al massimo chiederò di poter passare la notte qui, mi basta un tetto. Ma date la precedenza a chi ne ha più bisogno!’. E io non potevo fare a meno di essere stupito. La convivenza al campo non è mai stata facile: basti pensare alle abitudini alimentari dei musulmani oppure all’attesa in coda per essere censiti, spesso lunga quasi due giorni. Eppure raramente qualcuno si è lamentato, pareva quasi non volessero disturbare noi volontari: non insistevano mai troppo, nemmeno per le necessità primarie. Forse perchè bastava la nostra presenza lì, tutto il resto era secondario.
Cosa ti ha insegnato il rapporto con gli altri volontari del campo?
Non ho mai conosciuto una persona tanto carismatica quanto B., capo missione, raccordo tra volontari e comune di San Severino. Non ci sono parole per definirla: disponibilità, energia, voglia di fare, instancabile. Quando è ripartita, la sera del mio secondo giorno, ci siamo abbracciati a lungo. Come è possibile creare legami così forti in meno di 72 ore? La verità è che da soli non si può far nulla: in occasioni del genere bisogna mettere da parte l’orgoglio, la smania di dire sempre la propria, l’egoismo. Nelle emergenze non ci sono gerarchie, gruppi o ideologie, non ci sono anziani saggi e giovani incoscienti, ma soltanto volontari disposti a mettere in gioco il meglio delle proprie capacità. Al campo ho imparato a fare squadra al di là di ogni distinzione o simpatia, ho imparato il valore della collaborazione e della sinergia. Ho lasciato un pezzo di cuore in quel comune, diviso tra la popolazione, i miei compagni volontari e i giovani Scout cittadini, che mai ci hanno fatto mancare il loro supporto.
Rifaresti questa esperienza anche alla luce dei sacrifici e della fatica che ha comportato? Perchè?
Sì, perchè non c’è niente di più bello che essere utile a qualcuno. Possiamo discuterci per ore, ma non c’è niente da fare: è così.
Suggeriresti ai tuoi compagni di fare altrettanto? Perchè?
Direi proprio di sì, sarebbe una bella cura contro l’egoismo che sta dilagando tra noi giovani. Dobbiamo abbandonare una volta per tutte la mentalità del ‘finchè la cosa non mi tocca in prima persona…’ ed essere un po’ più volontari, donatori. Il volontario, in qualsiasi luogo e azione sia coinvolto, non pretende mai di ricevere qualcosa in cambio, si dà tutto senza aspettative. Ed è questa la vera conquista: il donarsi.
Ti senti cambiato ora che sei tornato alla vita di tutti i giorni?
Ho scoperto la gratuità. Non siamo più abituati a dire ‘grazie’ per qualcosa: ogni nostro gesto è sempre finalizzato ad ottenere qualcosa, diamo per scontato che sia così. Forse sarà perchè al campo l’ho sentito ripetere infinite volte, ma adesso che son tornato non desidero altro che ringraziare tutto e tutti, senza pretendere nulla in cambio.
Alvise Renier
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