Contrastare la dispersione scolastica è una priorità per tutta la società; questa sfida si può vincere solo se tutti gli attori sono uniti, in quella “comunità educante” di cui sempre più spesso si parla...
del 13 ottobre 2017
Contrastare la dispersione scolastica è una priorità per tutta la società; questa sfida si può vincere solo se tutti gli attori sono uniti, in quella “comunità educante” di cui sempre più spesso si parla...
In Italia il 15% dei ragazzi abbandonano precocemente la scuola (anno 2015): sono i cosiddetti drop out. Secondo la ricerca “Lost” realizzata da WeWorld nel 2014, il costo sociale della dispersione scolastica sta fra l’1,4 e il 6,8% del Pil, cioè fra 21 e 106 miliardi di euro. Il Terzo settore ogni anno investe 60 milioni di euro in progetti di contrasto alla dispersione scolastica, una cifra comparabile con i 55 milioni investiti dal Miur. Il punto è che contrastare la dispersione scolastica è una priorità per tutta la società, non solo per i drop out di oggi che saranno i Neet di domani. Ma questa sfida si può vincere solo se tutti gli attori sono uniti, in quella “comunità educante” di cui sempre più spesso si parla: una comunità educante in cui tutti gli attori abbiano un ruolo, perché se è vero che la scuola è centrale nel combattere la dispersione scolastica, le azioni più efficaci si sono rivelate quelle che agiscono fuori e dentro la scuola.
Dall’esperienza di We World, con gli oltre 6mila bambini e ragazzi che hanno partecipato ai programmi di Frequenza200, nasce l’idea che fare innovazione oggi sia innanzitutto creare ponti fra scuola e non profit, per far nascere queste comunità educanti. Se ne parlerà domani, 12 ottobre nel convegno “Povertà educativa: protagonismo delle scuole e degli adolescenti” (Milano, via San Vittore 49, ore 9,30-17), con l’aiuto di Andrea Canevaro, pedagogista, professore emerito dell'Università di Bologna, padre della pedagogia speciale in Italia.
Professore, oggi si parla molto di comunità educanti, anche in virtù del fatto che una sinergia di soggetti è sempre più spesso richiesta dai bandi. Cosa contraddistingue una vera comunità educante? E quale deve essere il suo obiettivo?
Dal 2008, quando ho avuto una emorragia cerebrale, metto ogni anno una parola al centro delle mie riflessioni: quest’anno è operosità. Lo dico perché per me la comunità educante è mettere in moto le operosità, vuol dire riconoscere che ognuno ha qualcosa in cui è capace e allo stesso tempo che nessuno può bastare a se stesso. Ognuno può essere operoso a suo modo, mettere in moto qualcosa che può servire ad altri. Questo è lo scopo principale della comunità educante, non far vivere nessuno in una posizione assistenziale, uscire dalla logica di chi ha e chi non ha, chi ha sapienza e chi è sciocco, chi è bene educato e chi è maleducato.
Concretamente questo cosa significa per chi, sui territori, sta cercando di costruire inedite e non scontate alleanze educative?
Dal mio lungo lavoro con le persone con disabilità ho tratto una scaletta di parole, che riguardano tutti: inserimento, integrazione, inclusione. Penso abbiano molto da dire anche in questo caso. L’inserimento è il venire al mondo, l’entrare in un mondo che c’era già, il non pensare che io devo inventare la lingua del mondo, io faccio parte di un mondo che già esiste. Poi c’è l’integrazione, io mi integro facendo un doppio lavoro di adattamento: mio all’ambiente e dell’ambiente a me. A un certo punto però devo immaginare ciò che c’è oltre, uscire, ed è l’inclusione. Pensando alla vita scolastica, significa che man mano che uno cresce ha bisogno di un progetto, alle superiori le cose che si apprendono devono essere collocate non nell’orizzonte dell’interrogazione ma del progetto di vita. Uno impara perché desidera fare qualcosa, ad esempio diventare una guida turistica: chi insegna invece spesso non pensa al progetto in cui si inseriscono i contenuti che trasmette.
Il suo intervento ha un titolo ambizioso: “la comunità educante: come si crea?”. Ecco, come si crea?
Sono fondamentali i mediatori e sono mediatori le persone, gli oggetti e i luoghi. Ad esempio una giornalaia che conosco è un grandissimo mediatore, perché oltre a vendere dei prodotti dà a tutti le indicazioni di cui hanno bisogno, come dove far riparare un vestito. Diventa un organizzatore sociale della comunità. Questo per ricordare la scuola non può pretendere di essere “il” mediatore, è “un” mediatore. Se vicino alla scuola c’è un campetto dove i ragazzi giocano e se nel campetto c’è un chiosco di bibite, anche quel barista dovrebbe essere coinvolto.
Come è possibile far crescere il protagonismo dei ragazzi?
Creando progetti condivisi in cui riconoscersi, dove la parola più importante è “condiviso”, non “progetto”. Progetti che vadano non a rompere i legami con gli altri ma a rinforzarli. E poi ricordandosi che l’aspetto educativo è importante ma non deve mai diventare qualcosa che fa scappare: chiunque scapperebbe da quelli che “vogliamo insegnarti a vivere”! No, nessuno vuole insegnarti a vivere, impariamo insieme a vivere.
Sara De Carli
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