La sfida dell'educazione 2 Le difficoltà della famiglia

Esso non impedisce che i singoli abbiano molti rapporti con la realtà esterna; sotto il profilo cronologico, il tempo passato fuori della famiglia prevale decisamente rispetto a quello passato in famiglia.

La sfida dell'educazione 2 Le difficoltà della famiglia

da Quaderni Cannibali

del 02 dicembre 2009

 

 

La sfida dell’educazione

 

2. Le difficoltà della famiglia: soli, i genitori non ce la possono fare

 

 

 

Le difficoltà del rapporto educativo hanno alla loro radice la nuova forma della famiglia, e in specie la spiccata di-stanza tra famiglia e società; essa impedisce alla famiglia di adempiere a una funzione che invece è irrinunciabile perché si realizzi il processo educativo: la tradizione culturale da una generazione all’altra. Cercheremo prima di precisare questa diagnosi sintetica, e poi di mostrare come le diagnosi correnti e allarmate del nichilismo dei giova-ni ignorino invece questo nesso.

 

La famiglia affettiva

I rapporti sociali confinano oggi la famiglia entro uno spazio rigorosamente “privato”, il quale priva la famiglia di quelle normali ragioni di scambio con il contesto sociale, che invece le sarebbero indispensabili. La figura di tale confino del nucleo familiare deve essere precisata.

 

Ề un confino soltanto obiettivo, non deliberato, e neppure consapevole.

Esso non impedisce che i singoli abbiano molti rapporti con la realtà esterna; sotto il profilo cronologico, il tempo passato fuori della famiglia prevale decisamente rispetto a quello passato in famiglia, ma tali rapporti esterni sono vissuti a titolo individuale, non hanno effetto configurante per rapporto alla qualità delle relazioni interne al-la famiglia.

Appunto a seguito di questo difetto di intreccio i rapporti familiari mancano di realizzare un effetto “cosmologiz-zante”, che invece sarebbe nella loro natura.

 

Per rendere pi√π comprensibile la descrizione, accenno a qualche illustrazione esemplificativa pi√π concreta.

 

1.1. Relazioni coniugali

 

Immaginiamo un uomo che abbia un appuntamento professionale importante; la scadenza molto lo coinvolge, gli provoca tensione. Nel momento preciso in cui si realizza l’evento ha la percezione netta della sua tensione e insie-me del suo difetto di naturalezza. Concluso l’incontro, avverte il desiderio ovvio di raccontarlo, per appropriarsene; il racconto gli permette di dare una figura a ciò che, nella vicenda immediata, è rimasto implicito, contratto e con-fuso.

 

A chi, se non alla moglie? Il racconto configura la memoria, il vissuto soggettivo; integra l’evento nella storia personale. Configurato non è soltanto in trancio di vita; configurata è insieme la relazione coniugale; attraverso il racconto la relazione coniugale concorre a dare figura alla coscienza e anche al mondo rispettivi. Avere un mondo comune è una positiva risorsa in ordine all’educazione dei figli.

 

Vanno di fatto così le cose? È facile il racconto al coniuge? Non è così facile, né così frequente. Manca anzitutto il tempo. Poi mancano le condizioni di sfondo. Il mondo che lui o lei frequentano a livello professionale è distante ed estraneo al coniuge.

 

La distanza dello spazio familiare da quello professionale minaccia di rendere difficile la comunicazione tra i due. Quel che accade all’adolescente nei confronti dei genitori accade in qualche misura anche all’adulto nei confronti del coniuge. L’adolescente non gradisce avere il genitori come testimoni nel momenti vissuti con i coetanei; allora infatti egli molto recita; l’occhio del genitore scoprirebbe in maniera inesorabile il suo gioco. Anche la persona a-dulta, specie in certe mansioni, recita; una maschera serve più di un’identità; ma la maschera non può essere adotta-ta se testimone è il coniuge.

 

1.2. Relazione genitori/figli

 

Che ci sia intreccio tra relazioni familiari ed extrafamiliari ha grande rilievo sull’educazione; soltanto grazie a tale intreccio gli affetti configurano i significati del vivere. La fisionomia di tale efficienza educativa la si vede più fa-cilmente quando si osservano i piccoli; vale però anche per le età successive.

 

Il bambino piccolo (tre o quattro anni), che comincia a frequentare uno spazio esterno alla famiglia, conosce il de-siderio spontaneo di raccontare a casa quel che ha vissuto fuori. Il desiderio non è sempre realizzato; spesso quando il bimbo torna la mamma non ha subito tempo per ascoltarlo; spesso non è a casa; non c’è nessuno che possa assol-vere al bisogno del bambino di “addomesticare”  il mondo. Due o tre ore dopo, quando la mamma torna, il bimbo ha già dimenticato quel che voleva dire alla mamma. Il difetto di intreccio tra i due spazi fa mancare l’opportunità che lo spazio familiare strutturi la percezione simbolica dello spazio della scuola.

 

La famiglia assume connotazione soltanto affettiva. Essa deve soltanto garantire una rassicurazione emotiva prima-ria.

 

La migliore formulazione di questa prestazione della famiglia è oggi ancora quella proposta da E. Erikson in Infan-zia e società (1950). La famiglia deve propiziare la “fiducia di base” (basic Trust), un sentimento dunque o una di-sposizione emotiva, non un modo di vedere. Tale fiducia trova la sua struttura emotiva molto prima che se ne pos-sano dire le ragioni. La fiducia nel mondo precede la conoscenza di esso. Di più, soltanto la fiducia consente la co-noscenza.

 

C’è un periodo precoce nel quale la rassicurazione del bambino viene soltanto dalla presenza sensibile della mam-ma; poi al bambino basta la memoria interiore di lei per vedere l’ordine cosmico; in ogni caso, la persuasività delle parole successive riposa su questa rassicurazione originaria. Il passaggio dal messaggio affettivo alla sua articola-zione verbale si produce progressivamente. Le probabilità di successo del passaggio sono legate all’obiettiva con-gruenza delle parole e dei gesti della mamma con la testimonianza resa al bambino da altri,

 

Nella scuola primaria rimane una fondamentale prossimità tra codice familiare e codice scolastico; essa diminuisce già con la media infe-riore. La scuola insegna, e non si occupa dei significati elementari della vita, non si cura di propiziare il passaggio dalla loro declinazione infantile a quella adulta. Quando affronta i grandi temi della vita, la scuola lo fa nel registro dell’etica pubblica più che in quello della morale e della religione. È in tal modo sanzionata la solitudine della fa-miglia.

 

1.3. Il rapporto tra pari

 

Diverso dal codice familiare è soprattutto quello alla base della comunicazione tra pari; scatta qui precocemente l’attesa di riconoscimento da parte del gruppo; il minore, insicuro, cerca tale accettazione attraverso la mimica dei comportamenti altrui. Alimenta la mimica l’industria dell’immagine. Adolescenti e preadolescenti si nascondono nel gruppo e cercano di sottrarsi a tutti i confronti con la generazione adulta.

 

Le opportunità che i genitori hanno di realizzare un compito educativo a quel punto appaiono ridotte. Mancano in-trecci tra relazioni familiari e relazioni tra coetanei. Di pregiudizio è anche l’incertezza dei genitori; il loro modo di pensare infatti non ha presso i figli valore di semplice espressione biografica; è invece testimonianza dell’ordine cosmico, del difetto di un così. Questa risonanza del modo di fare, dire o sentire dei genitori non è percepita dalla cultura pubblica. Le convinzioni morali e religiose sono oggi ormai considerate da tutti e sempre espressione della coscienza privata e insindacabile. Almeno la relazione genitori/figli imporrebbe invece una correzione del princi-pio; il genitore assume sempre e di necessità presso il figlio la consistenza di testimone del senso di tutte le cose.

 

1.4. Censura dei genitori

 

La densità di senso della relazione genitori/figli non è riconosciuta dalla cultura riflessa: non dalla sensibilità dei singoli, e neppure dai modi di pensare comuni; a quella relazione è riconosciuto soltanto un compito affettivo. Appunto questa mortificazione della relazione genitori/figli è il fattore decisivo della difficoltà del compito educativo. La mortificazione non si produce soltanto nei modi di pensare, ma prima nelle forme pratiche che assume il rapporto; gli obiettivi di rassicurazione affettiva minacciano sempre di prevalere rispetto ad altri obiettivi, che in astratto sono riconosciuti come pertinenti, ma nei fatti paiono non perseguibili.

 

Sul tema della pratica impossibilità per i genitori di educare manca letteratura; il problema non è percepito. Ancor meno sussistono le risorse di carattere teorico necessarie per chiarire le ragioni di carattere antropologico culturale che spiegano le difficoltà del compito educativo nel presente.

 

2. Due analisi del “disagio” dei giovani

 

Due saggi recenti, sul difetto di speranza e di autonomia dei giovani, illustrano concretamente come il fattore fami-glia sia ignorato dagli intellettuali.

 

2.1. M. BENASAYAG – G. SCHMIT, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli 2004.

 

Saggio di due psichiatri; descrive il malessere dei ragazzi, collocandolo nel contesto della più generale crisi di civil-tà. L’analisi ha i toni di una denuncia allarmata e allarmistica. La filosofia segreta del nostro tempo sarebbe la pau-ra; il futuro è visto come minaccia; non rimane nell’anima posto per altra cura che sventare la minaccia. La domi-nanza della paura genera una filosofia di vita cinica. Gli autori vedono che la soluzione non può essere quella solo clinica; rimanda alla cultura dell’epoca; invocano dunque la collaborazione di tutti per risolverla (multidisciplinari-tà); di tutti, tranne che dei genitori. La soluzione indicata è una generica uscita dallo specialismo. 

 

A conferma del difetto segnaliamo uno sviluppo proposto dagli autori. Crisi dell’educazione e adolescenza intermi-nabile – essi dicono – sarebbero un ri¬flesso della crisi del principio di autorità. Non si può che consentire; è da ap-prezzare la franchezza che sfi¬da i luoghi comuni. Ma che cos’è autorità? La risposta degli autori è deludente; citano un’etnologa (F. Héritier): «rappresenta automaticamente una fonte di autorità l’anteriorità, l’anzianità – in altri termini, il preesistente rispetto al giovane» (p. 29). Una rappresentazione come questa giustifica il sospetto nei con-fronti dell’autorità.

 

2.2. U. GALIMBERTI, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007.

 

Il saggio, per caratterizzare la “filosofia” di vita dei giovani, privilegia la categoria di nichilismo, e quindi il pensie-ro di Niatsche. Di esso i giovani non sono certo autori, ma soltanto ospiti (l’ospite inquietante). Chi conduce il ni-chilismo a casa dei giovani? La tradizione culturale tutta dell’Occidente, e dunque in radice Platone con il suo di-sprezzo delle cose sublunari, divenienti e caduche?

 

Oppure il mercato con il suo cinismo? La risposta di Galimberti privilegia la denuncia della tradizione dell’Occidente. Evita dunque di approfondire le cause sociologiche del nichi-smo dei giovani e il suo nesso con la latenza dei padri. Indica di conseguenza rimedi tratti dalla filosofia, e non rife-riti ale forme della vita sociale. Il rimedio sarebbe quello indicato da Nietsche ne La gaia scienza: «La vita non mi ha disilluso. Di anno in anno la trovo sempre più ricca, più desiderabile e più misteriosa (…) La vita come mezzo di conoscenza. Con questo principio nel cuore si può non soltanto valorosamente, ma anche gioiosamente vivere e gioiosamente ridere».

 

 

La Sfida dell’educazione:

 

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don Giuseppe Angelini

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