1. UNA GIORNATA DELL'ORATORIO
Garanzia per tre anni
La nuova chiesa era una costruzione poverissima. Tuttavia c'era un contratto regolare che ce la garantiva per tre anni, e questo ci liberava dal timore di venire sfrattati quando meno ce l'aspettavamo. Le emigrazioni, a Dio piacendo, erano finite. A me questa chiesina sembrava il luogo dove in sogno avevo visto la scritta: « Questa è la mia casa, di qui uscirà la mia gloria». I disegni di Dio, invece, erano diversi.
La sede del nostro Oratorio, purtroppo, era vicina a una casa dove abitavano donne di vita equivoca, e dove era aperta fino a notte l'osteria della Giardiniera. Lì, specialmente nei giorni festivi, si davano convegno gli ubriachi della città. Nonostante questi vicini allarmanti, abbiamo cominciato regolarmente le nostre riunioni.
Quando i lavori di adattamento furono terminati, l'Arcivescovo ci permise di benedire e di usare come chiesa quel povero locale. Questo avvenne la domenica di Pasqua, 12 aprile 1846.
Per dimostrare la sua soddisfazione, l'Arcivescovo ci rinnovò tutti i permessi che già ci aveva dato quando l'Oratorio era al Rifugio. In questa cappellina potevamo cantare la Messa, celebrare tridui e novene, organizzare gli Esercizi Spirituali, ricevere la santa Comunione e anche la Cresima. L'Arcivescovo permise persino, a tutti i ragazzi che frequentavano l'Oratorio, di ricevere la Comunione pasquale nella cappella Pinardi. (In quel tempo la Comunione di Pasqua si doveva fare nella propria parrocchia).
La Storia Sacra raccontata a puntate
La stabilità della sede, i segni di affetto dell'Arcivescovo, le celebrazioni solenni, la musica, l'allegra baraonda dei giochi, attraevano ragazzi da tutte le parti. Molti dei preti che mi avevano lasciato solo, cominciarono a tornare. Mi davano una valida mano don Giuseppe Trivero, don Giacinto Carpano, don Giovanni Vola, don Roberto Murialdo, e sempre l'infaticabile don Borel.
Ecco come si svolgeva la nostra giornata festiva.
Di buon mattino aprivo la chiesa e cominciavo a confessare i ragazzi. Le confessioni duravano fino all'ora della Messa. Era fissata alle otto, ma per accontentare tutti quelli che desideravano confessarsi, sovente la tramandavo alle nove, e anche più tardi.
Se c'era con me qualche prete, assisteva i ragazzi e li aiutava a pregare, recitando le orazioni a voce alternata. Durante la Messa quelli che erano preparati facevano la santa Comunione. Subito dopo salivo su un piccolo pulpito e spiegavo il Vangelo (dopo qualche domenica cominciai il racconto della Storia Sacra a puntate). Questi racconti erano fatti in maniera semplice e popolare, e resi pittoreschi dalla descrizione dei luoghi e della maniera di vivere dei vari tempi. Piacevano ai piccoli, ai grandi e persino ai preti che li ascoltavano. Dopo la predica cominciava la scuola, che durava fino a mezzogiorno.
Il catechismo, il Rosario, i Vespri
All'una del pomeriggio cominciava la ricreazione: bocce, trampoli, fucili e spade di legno, attrezzi da ginnastica. Alle due e mezzo iniziava il catechismo. I ragazzi che frequentavano l'Oratorio in quel tempo erano molto lenti nell'apprendere. Mi capitò parecchie volte di cominciare il canto dell'A ve Maria: su 400 ragazzi presenti, nessuno era capace di continuare se cessava la mia voce. Dopo il catechismo recitavamo il Rosario. A poco a poco, però, insegnai a cantare i Vespri. Cominciammo a imparare l'Ave Maris Stella, poi il Magnificat, poi uno per uno i salmi. Infine le antifone. Nello spazio di un anno riuscimmo a cantare tutto il vespro della Madonna.
Ai Vespri (o al Rosario) seguiva una breve predica, che consisteva quasi sempre in un fatto, con cui insegnavo una virtù o invitavo a combattere una cattiva abitudine. Tutto terminava con il canto delle Litanie della Madonna e la benedizione con il SS. Sacramento.
La parola all'orecchio
All'uscita dalla chiesa cominciava il tempo libero, che ognuno occupava come voleva. Qualcuno continuava la scuola di catechismo, prendeva lezioni di canto o di lettura. La maggior parte dei ragazzi giocava, correndo e saltando fino a sera. Sotto la mia assistenza entravano in azione tutti gli strumenti di gioco, persino gli arnesi dei saltimbanchi, che avevo imparato ad usare sul prato dei Becchi. Solo con tanti strumenti di questo genere si potevano impedire le risse e mantenere un'allegria ordinata in quell'esercito di ragazzi. Di molti di essi si poteva dire con la Sacra Scrittura: «Come i cavalli e i muletti scalpitano, ma non capiscono».
Devo però testimoniare che anche nei ragazzi senza nessuna istruzione ho sempre ammirato un grande rispetto per la Chiesa e i preti, e un grande desiderio di conoscere la Religione Cristiana.
Io mi servivo di quelle ricreazioni lunghissime per avvicinare ogni ragazzo. Con una parola all'orecchio, a uno raccomandavo maggior obbedienza, a un altro maggior puntualità al catechismo, a un terzo di venirsi a confessare, a un altro ancora suggerivo un pensiero di riflessione, e così via. Posso dire che la ricreazione era il tempo in cui agganciavo un bel numero di ragazzi, che al sabato sera o alla domenica mattina venivano con molta buona volontà a fare la loro confessione.
«Inginòcchiati e confèssati»
Quando vedevo che qualcuno trascurava per molto tempo questi importanti doveri, interrompevo i suoi giochi e lo conducevo a confessarsi. Racconto uno dei tanti fatti.
Un ragazzo, invitato più volte da me a fare la confessione e la Comunione di Pasqua, prometteva ma non manteneva. Un pomeriggio, dopo le sacre funzioni, si mise a giocare con grande foga. Mentre correva rosso in faccia e molle di sudore, lo chiamai deciso: «Vieni con me in sacrestia. Ho bisogno di te per un affare».
Voleva venire com'era, in maniche di camicia. «No, gli dissi, mettiti la giacchetta e vieni». Giunti in sacrestia gli dissi: - Inginocchiati a questo inginocchiatoio.
Capì che doveva trasportare l'inginocchiatoio e stava per farlo.
- No, lascialo dov'è.
- Ma allora, cosa vuole da me? - Confessarti.
- Non sono preparato. - Lo so.
- E allora?
- E allora prepàrati e poi ti confesserò.
- Bene. Ha fatto bene a prendermi così. Altrimenti, per vergogna dei miei compagni, non mi sarei mai deciso a venire. Mentre recitavo il Breviario, si preparò un poco. Poi fece bene la sua confessione e il ringraziamento. D'allora in poi fu tra i più costanti nel compiere i suoi doveri cristiani. Raccontava lui stesso il fatto ai compagni, dicendo:
- Don Bosco è stato molto furbo, per prendere un merlo come me.
Al calare della notte, il suono di un campanello invitava ancora tutti in chiesa. Recitavamo alcune preghiere oppure il Rosario. Terminavamo la giornata cantando: « Lodato sempre sia il nome di Gesù e di Maria ».
L'ultimo canto al rondò'
La partenza dall'Oratorio era una scena indimenticabile. Usciti di chiesa, ognuno diceva mille volte « buona sera », ma non si decideva a staccarsi dagli altri compagni. Avevo un bel dire: « Andate a casa che si fa notte e i parenti vi aspettano ». Era inutile. Si stringevano intorno a me, sei dei più robusti intrecciavano con le braccia una specie di sedia, sopra la quale, come sopra un trono, dovevo mettermi a sedere. Come ad un segnale, i ragazzi si ordinavano in alcune file, e portando su quel palco di braccia don Bosco, procedevano cantando, ridendo e schiamazzando fino al rondò (= un piazzale con aiuola che si trova all'incrocio di corso Regina Margherita, allora chiamato corso San Massimo, con altre strade. Era chiamato «rondò della forca» perché in quel luogo avveniva l'esecuzione dei condannati a morte). Là si cantavano ancora alcuni canti sacri, che si concludevano sempre con il solenne Lodato sempre sia il nome di Gesù e di Maria.
Poi si faceva un profondo silenzio, e io auguravo a tutti buona sera e buona settimana. Con tutta la voce che avevano, rispondevano: buona sera! Allora potevo finalmente scendere dal mio trono. Ognuno tornava alla sua famiglia. Alcuni più grandi, però, mi accompagnavano fino a casa,' mezzo morto di stanchezza.
2. RE CARLO ALBERTO SALVA L'ORATORIO
« Mi sembrò l'inizio del giudizio universale »
Nell'Oratorio c'erano ordine, disciplina, tranquillità. Tuttavia il Marchese Cavour, Vicario di città, voleva mettere fine alle nostre riunioni, che egli riteneva pericolose. Era stato informato che io ero sempre andato avanti con l'appoggio dell'Arcivescovo. Ora, poiché l'Arcivescovo non poteva recarsi da lui essendo ammalato, egli convocò la Ragioneria nel palazzo arcivescovile. La Ragioneria era l'insieme dei più autorevoli consiglieri municipali. Nelle mani di questi consiglieri si concentravano tutti i poteri cittadini. Il capo della Ragioneria (che in quel momento era il Marchese Cavour) aveva un potere superiore a quello del Sindaco, e veniva chiamato Vicario di città, Maestro di Ragione o anche Primo Decurione.
Mi disse poi l'Arcivescovo:
- Quando vidi tutti quegli uomini potenti nella mia sala, mi sembrò l'inizio del giudizio universale.
Si discusse molto sul bene e sul male dell'Oratorio. Alla fine si decise che quelle riunioni dovevano essere assolutamente vietate e disperse, poiché compromettevano la tranquillità pubblica.
L'intervento del Re
Faceva però parte della Ragioneria il conte Giuseppe Provana di Collegno, insigne benefattore dell'Oratorio. In quel tempo il re Carlo Alberto gli aveva affidato la carica di «Ministro al Controllo generale», cioè di Ministro delle Finanze. Più volte il Conte mi aveva portato aiuti in denaro a nome del Re e a nome suo personale. Carlo Alberto ascoltava con piacere notizie dell'Oratorio. Quando celebravamo qualche festa, leggeva volentieri la relazione scritta che gli mandavo, o il racconto che gli faceva il Conte Provana. Mi fece più volte dire che egli aveva grande stima del nostro ministero tra i giovani del popolo, perché assomigliava a quello dei missionari in terra straniera. Egli sperava che opere come la nostra si diffondessero in tutte le città e paesi del suo Stato. Ad ogni capodanno ci man-dava gli auguri accompagnandoli con 300 lire destinate «ai monelli di don Bosco».
Quando venne a sapere che la Ragioneria stava per discutere la chiusura del nostro Oratorio, chiamò il conte Provana e gli ordinò di comunicare la sua volontà con queste parole:
- Il Re vuole che queste riunioni festive siano aiutate e protette. Se c'è pericolo di qualche disordine, si cerchi il modo di prevenirlo e di impedirlo.
Il conte Provana assistette in silenzio a tutta la vivace discussione. Quando vide che si era arrivati alla decisione di chiudere l'Oratorio e di sciogliere le sue riunioni, chiese la parola. Si alzò e comunicò la volontà del Re. Carlo Alberto prendeva sotto la sua protezione la nostra opera microscopica. Davanti alla volontà del Re, il Vicario e la Ragioneria an-nullarono ogni decisione.
Le guardie all'Oratorio
Con urgenza, il Vicario di città mi mandò nuovamente a chiamare. Usò ancora il tono minaccioso, mi chiamò ostinato. Ma alla fine passò a parole meno pesanti:
- Io non voglio il male di nessuno. Lei lavora con buona intenzione, ma ciò che fa è pieno di pericoli. L'obbligo di proteggere la pubblica tranquillità è tutto sulle mie spalle, quindi manderò le guardie a sorvegliare lei e le sue adunanze. Alla minima irregolarità, farà disperdere i suoi monelli, e lei me ne renderà conto.
Sarà stata l'agitazione di quei giorni, sarà stata qualche malattia che già lo tormentava, fatto sta che quella fu l'ultima volta che il Marchese Cavour si recò a Palazzo municipale. Assalito dalla podagra, soffrì molto, e nello spazio di pochi mesi morí. Nei sei mesi che visse ancora, ogni domenica mandava alcune guardie civiche a passare con noi tutta la giornata. Vigilavano su tutto ciò che dicevamo e facevamo in chiesa e fuori chiesa. Un giorno domandò a una di queste guardie:
- In conclusione, che cosa avete visto e udito tra quella marmaglia?
- Signor Marchese, abbiamo visto un esercito di ragazzi divertirsi in cento maniere diverse. E in chiesa abbiamo sentito delle prediche che mettono paura. Don Bosco racconta tante cose sull'inferno e sul diavolo, che ha fatto voglia anche a me di andarmi a confessare.
- E di politica?
- Di politica non si parla mai. Quei ragazzi non ne capirebbero niente. Si parlasse di pagnotte, allora si che ognuno potrebbe dire la sua.
Da quando mori il Marchese Cavour, il Municipio non ci creò più ostacoli, anzi, fino al 1877 ci aiutò sempre.
3. ANCHE GLI ANALFABETI HANNO DIRITTO ALLA SCUOLA
Testo fondamentale: il catechismo
Già quando iniziavo l'Oratorio a San Francesco di Assisi, capivo la necessità di fare scuola. Alcuni giovani erano avanti negli anni e non conoscevano ancora niente della loro religione. Le lezioni normali di catechismo, fatte a viva voce, per loro erano noiose e inconcludenti. Capitava che, dopo qualche lezione, non li vedevo più.
Pensai già allora di fare un po' di scuola seria, ma non avevo locali e non trovavo maestri che mi dessero una mano. L'esperimento non riuscì.
Al Rifugio e in casa Moretta cominciammo una regolare scuola domenicale, e poi anche la scuola serale.
Per ottenere buoni risultati, svolgevamo un solo argomento per volta. Per esempio: durante due domeniche ripassavamo l'alfabeto e la formazione delle sillabe. Poi prendevamo il piccolo Catechismo, e leggevamo e rileggevamo le prime due domande e risposte tante di quelle volte, che alla fine riuscivano a leggerle benissimo. Questa era anche la lezione della settimana. La domenica dopo aggiungevamo un'altra domanda e risposta. In questa maniera, nello spazio di otto domeniche, sono riuscito a far sì che alcuni leggessero e studiassero da soli intere pagine di catechismo. Fu un grande guadagno di tempo, specialmente per i più grandi. Con le normali lezioni di catechismo fatte a voce, essi dovevano impiegare anni per avere un'istruzione sufficiente ed essere ammessi alla confessione.
Leggere, scrivere, istruirsi nella religione
Per molti, la scuola domenicale dava buoni risultati. Per altri, invece, era insufficiente, perché avevano pochissima memoria: da una domenica all'altra dimenticavano tutto ciò che avevano imparato. Fu questa costatazione che mi fece cominciare le scuole serali giornaliere: le iniziammo al Rifugio, divennero più regolari in casa Moretta, si perfezionarono ancora di più a Valdocco, nella prima sede finalmente stabile.
Le scuole serali regolari davano due buoni risultati: incoraggiavano molti ragazzi ad intervenire per imparare a leggere e a scrivere, di cui avevano urgente bisogno; nello stesso tempo davano a tutti la comodità di istruirsi nella religione, ciò che formava lo scopo fondamentale del nostro lavoro.
Il tempo dei «maestrini»
Ogni giorno, si può dire, dovevo aprire nuove classi. Dove trovare tanti maestri? Usai questo sistema: mi misi a far scuola a un bel gruppo di ragazzi cittadini. Insegnavo loro gratuitamente italiano, latino, francese, aritmetica. L'unica condizione che mettevo era: poi verrete a darmi una mano nell'insegnare catechismo, nel fare la scuola domenicale e serale. Questi « maestrini » all'inizio erano otto o dieci, ma il loro numero aumentò progressivamente. Da essi cominciò la categoria degli « studenti » (che nell'Oratorio affiancò dal 1850 la categoria degli « artigiani »).
I primi « maestrini » cominciarono ad aiutarmi fin da quando ero al Convitto di San Francesco d'Assisi. Allora erano ragazzi, ora occupano posti onorati di lavoro nella città. Ricordo Giovanni Coriasco, ora maestro falegname, Felice Vergnano, negoziante in tendaggi, Paolo Delfino, professore di materie tecniche.
Al Rifugio ebbi come aiutanti Antonio Melanotte, oggi droghiere, Giovanni Melanotte, fabbricante di dolci, Felice Ferrero, mediatore, Pietro Ferrero, compositore, Giovanni Piola, padrone di un laboratorio di falegnameria. A essi si unirono Luigi Genta, Vittorio Mogna e altri, che però non mantennero la loro promessa di venire ad aiutarmi. Per far loro scuola dovevo spendere molto tempo e molto denaro, e purtroppo al momento di cominciare a darmi una mano, la maggior parte mi abbandonava.
A costoro si aggiunsero bravi cristiani di Torino. Per molto tempo mi aiutarono Giuseppe Gagliardi e Giuseppe Fino, venditori di chincaglieria, Vittorio Ritner, orefice, e altri. Alcuni preti mi aiutavano specialmente per la celebrazione della Messa, la predicazione e la scuola di catechismo ai più grandi.
Perché e come don Bosco scrisse la Storia Sacra
Una grande difficoltà la trovavo nei libri. Terminato il piccolo catechismo, non avevo più nessun libro di testo per la scuola di religione e di lettura. Esaminai tutte le «Storie Sacre» che si usavano nelle scuole, e non ne trovai una adatta ai nostri alunni. I difetti più comuni erano: linguaggio non popolare, racconto di fatti non adatti ai giovani, questioni che non interessavano i ragazzi e che invece erano tirate in lungo. Molti fatti erano narrati in maniera che potevano offendere la sensibilità morale dei giovani. Inoltre quasi nessuno badava a mettere in luce i punti fondamentali della fede. Venivano trascurati i fatti che insegnano il culto esterno che dobbiamo rendere a Dio, l'esistenza del purgatorio, l'istituzione da parte di Gesù della confessione e dell'Eucaristia.
I tempi in cui dovevamo vivere, esigevano assolutamente ché non trascurassimo questa parte dell'educazione cristiana. Perciò mi sono messo a scrivere una « Storia Sacra » che avesse stile popolare, lingua facile, ed evitasse i difetti che ho sopra elencato. Nacque così la Storia Sacra ad uso delle scuole. Non pretendevo di scrivere un libro elegante, ma impegnai nel lavoro tutta la mia buona volontà per far del bene ai giovani.
Dopo mesi di scuola abbiamo dato alcuni saggi pubblici sul nostro insegnamento festivo. Alla presenza di personaggi celebri come l'abate Aporti, il conte Boncompagni, il vicesindaco Pietro Baricco, il professore universitario Giuseppe Rayneri, gli allievi furono interrogati sulla storia sacra e la geografia della Palestina. Le loro risposte strapparono applausi.
Dalle strade ai libri
Incoraggiato dalla buona riuscita delle scuole serali, alla lettura e alla scrittura aggiunsi l'aritmetica e il disegno. Era la prima volta che nelle nostre zone si realizzavano scuole serali così popolari. Molti ne parlavano come di una grande novità. Professori e persone distinte venivano ad osservare i nostri metodi. Lo stesso Municipio di Torino mandò una commissione presieduta dal commendatore Giuseppe Dupré per osservare se i risultati erano così positivi come si diceva. I commissari interrogarono gli alunni sulla pronuncia italiana, sulle operazioni aritmetiche, fecero declamare alcuni brani. Alla fine erano mera-vigliati nel costatare che giovani rimasti analfabeti anche fino a 18, 20 anni, avevano fatto in pochi mesi rapidi progressi nell'educazione e nell'istruzione. Ciò che entusiasmava quei signori era vedere alla sera un grande numero di giovani raccolti sui libri, mentre tanti altri girovagavano per le strade.
La loro relazione, letta al Municipio, ci meritò un premio di 300 lire, che ci venne assegnato fino al 1878. Da quell'anno fu sospeso e assegnato a un altro istituto. Non ne ho mai saputo il perché.
In quel tempo era direttore dell'Opera La Mendicità Istruita (fondata nel 1783 per l'istruzione popolare) il cavaliere Gonella, conosciutissimo in Torino per la sua fede e la sua carità. Anche lui venne più volte a vedere la nostra scuola, e l'anno seguente introdusse le stesse classi e lo stesso metodo nell'Opera da lui diretta. Avendo parlato agli amministratori della Mendicità Istruita del nostro Oratorio e delle strettezze finanziarie in cui navigavamo, ci assegnarono un premio di lire mille.
Anche il Municipio imitò il nostro metodo. In pochi anni le scuole serali si propagarono in tutte le principali città del Piemonte.
Un libro di preghiera e uno di matematica
Intanto vedevo crescere di giorno in giorno una nuova necessità: un libro di preghiere e di riflessioni adatto ai giovani del nostro tempo. Ce n'erano moltissimi che passavano da mano a mano. Avevano anche autori illustri. Ma in genere gli au
tori non avevano tenuto presenti i lettori giovani, e, col massimo rispetto, avevano cercato di poter servire cattolici, ebrei e protestanti.
Io stavo vedendo un'altra cosa: che i protestanti cercavano di infiltrarsi insidiosamente tra la nostra gente. Tenuto conto di questo pericolo, ho compilato un libro appoggiato alla Bib-bia, adatto ai giovani, che desse nutrimento alla loro fede. doveva esporre le verità fondamentali della religione cattolica con la massima brevità e chiarezza. Lo intitolai II giovane provveduto.
La stessa necessità si manifestava per l'insegnamento dell'aritmetica e del sistema metrico decimale. L'uso ufficiale di questo sistema doveva cominciare all'inizio dell'anno 1850, ma già nel 18461e scuole dovevano insegnarlo, e mancavano i libri di testo. Scrissi allora il libretto II sistema metrico decimale ridotto a semplicità.
4.LA NOTTE IN CUI DON BOSCO DOVEVA MORIRE
Tra le vigne di Sassi a cercare don Bosco
Avevo troppi impegni. Lavoravo come prete nelle carceri, all'ospedale del Cottolengo, nel Rifugio, nell'Oratorio, in varie scuole. Rubavo ore alla notte per compilare i libri che erano necessari ai miei ragazzi. La mia salute, che non era mai stata robusta, peggiorò in maniera tale che i medici mi ordinarono riposo assoluto.
Don Borel, che mi voleva molto bene, mi mandò a passare qualche settimana come ospite del parroco di Sassi (ai piedi della collina di Superga). Durante la settimana riposavo, alla domenica tornavo a lavorare all'Oratorio. Ma presto non si rivelò una buona soluzione. I ragazzi venivano a trovarmi a gruppi sempre più numerosi. Anche i ragazzi di Sassi cominciarono a venirmi a cercare. Finii per essere più occupato che a Torino, mentre i miei piccoli amici dovevano percorrere quattro chilometri a piedi per vedermi.
Non solo i ragazzi dell'Oratorio venivano a piedi fino a Sassi. Presto a loro si aggiunsero gli alunni dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Ecco un episodio tra i tanti.
Gli alunni della scuola «Santa Barbara», dove insegnavano i Fratelli, avevano fatto gli Esercizi Spirituali. Siccome erano abituati a confessarsi da me, al termine degli Esercizi vennero in massa all'Oratorio a cercarmi. Dissero loro che ero a Sassi, e tutti partirono per questo paese, distante dalla città, come ho detto, quattro chilometri. A tratti pioveva, ed essi non conoscevano la strada. Finirono per vagare nei prati, nei campi,
nelle vigne in cerca di don Bosco. Alla fine arrivarono in quattrocento, sfiniti dal cammino e dalla fame, sudati, infangati, ma decisi a confessarsi.
- Abbiamo fatto gli Esercizi - mi dissero. - Vogliamo farci buoni, vogliamo fare la nostra confessione. Abbiamo domandato il permesso ai nostri insegnanti di venire da lei, ed ec-coci qua.
Dov'erano finiti i ragazzi?
Con ogni probabilità i maestri e i genitori li stavano aspettando con ansia. Era necessario farli tornare al più presto alla scuola. Tentai invano di convincerli: ripetevano che erano li per confessarsi. Ci mettemmo in quattro preti: il parroco, il viceparroco, un prete-maestro ed io. Ma di confessori ce ne sarebbero voluti quindici.
Intanto bisognava pensare anche alla fame e allo sfinimento di quei ragazzi. Don Abbondioli, il parroco, mise a loro disposizione tutte le sue riserve: pane, polenta, riso e fagioli, patate, formaggio, frutta.
Alla scuola, intanto, qualcuno cominciò a entrare in ansia. Per la chiusura solenne degli Esercizi Spirituali si stavano radunando i professori, i predicatori, alcuni invitati. Si doveva celebrare la Messa con la Comunione di tutti i ragazzi. Ma i ragazzi dov'erano? Nessuno si faceva vivo. Fu un momento di imbarazzo generale. Quando finalmente i ragazzi riapparvero, fu loro severamente proibito di ripetere un simile disordine.
« Ero pronto a morire »
Dopo il ritorno da Sassi, fui preso da un grande sfinimento. Dovettero portarmi a letto. Ero seriamente malato: bronchite, tosse, febbre violenta. In otto giorni giunsi al limite tra la vita e la morte. Mi diedero la Comunione come Viatico e l'Unzione degli infermi. Ero pronto a morire. Mi rincresceva abbandonare i miei ragazzi, ma ero contento di morire dopo aver dato una forma stabile all'Oratorio.
Quando si sparse la notizia che la mia malattia era grave, tra i giovani si diffuse un dolore vivissimo, una costernazione incredibile. Ogni momento, alla porta della stanza dov'ero ricoverato arrivavano gruppi di ragazzi. Piangevano e chiedevano mie notizie. Non se ne volevano andare: aspettavano di momento in momento una notizia migliore. Io sentivo le domande che rivolgevano all'infermiere, e ne ero commosso.
L'affetto verso di me li stava spingendo a veri eroismi. Pregavano, facevano digiuni, partecipavano alla Santa Messa e facevano la Comunione. Nel Santuario della Consolata si davano il turno giorno e notte. C'era sempre qualcuno che pregava per me davanti all'immagine della Madonna. Al mattino, quelli che dovevano andare a lavorare accendevano una candela che rimanesse al loro posto davanti all'altare. Molti altri trovavno il tempo di andarci anche durante il giorno, e resistevano fino alla sera tardi. Pregavano e scongiuravano la Madre di Dio perché conservasse in vita il loro povero don Bosco.
« Dio li ascoltò »
Molti promisero alla Madonna di recitare il Rosario intero per mesi, altri per un anno, alcuni per tutta la vita. Ci fu persino qualcuno che promise di digiunare a pane e acqua per mesi, per anni, per tutta la vita. Sono certo che molti giovani muratori digiunarono a pane e acqua per settimane intere, continuando il lavoro pesante dal mattino alla sera. Il breve intervallo di tempo libero che veniva loro concesso andavano a passarlo davanti al Santissimo Sacramento. Dio li ascoltò. Era un sabato sera, i medici fecero consulto e pronunciarono la sentenza: quella sarebbe stata la mia ultima notte di vita. Ne ero convinto anch'io, perché non avevo più forze e avevo continui sbocchi di sangue. A notte avanzata sentii una gran voglia di dormire, e mi assopii. Quando mi svegliai ero fuori pericolo. I medici Botta e Caffasso mi visitarono al mattino, e mi dissero di andare a ringraziare la Madonna per grazia ricevuta.
La notizia gettò la gioia tra i miei ragazzi. Non volevano crederci se non mi vedevano. E mi videro infatti pochi giorni dopo. Appoggiandomi a un bastone mi recai all'Oratorio. Mi accolsero cantando e piangendo, con una commozione che è più facile immaginare che descrivere. Cantarono un inno di ringraziamento a Dio, mi avvolsero di acclamazioni e di entusiasmo.
Provvidi subito a una faccenda importante. Molti, quand'ero in pericolo di vita, avevano fatto voti e promesse enormi, praticamente impossibili da mantenere, spinti dall'emozione e dall'affetto. Le cambiai in promesse più semplici e leggere.
« Tra le mie colline»
Quella malattia mi aveva colpito all'inizio del luglio 1846. Abitavo ancora in una cameretta del Rifugio, ma stavo per trasferirmi a Valdocco (dove già era stato portato l'Oratorio).
Andai a trascorrere alcuni mesi di convalescenza presso la mia famiglia ai Becchi. Avrei dovuto stare molto a lungo tra le mie colline, ma i giovani cominciarono a venirmi a trovare in gruppi sempre più numerosi. Non avevo più né pace né tranquillità.
Tutti quelli che parlarono con me in quel tempo, mi consigliarono di lasciare Torino e di recarmi per qualche anno in luoghi lontani, per tentare un vero recupero della salute. Anche l'Arcivescovo e don Cafasso erano di questo parere. Ma mi rincresceva troppo abbandonare i ragazzi. Alla fine mi permisero di tornare all'Oratorio, con l'obbligo però di non confessare né predicare per due anni.
Ho disobbedito. Tornato all'Oratorio, ho ripreso a lavorare come prima, e per 27 anni non ho più avuto bisogno né di medico né di medicine. Da tutto questo ho ricavato una con-vinzione: non è il lavoro che rovina la salute.
5. RITORNO CON MAMMA MARGHERITA
Tutta la fortuna in un canestro
Avevo passato alcuni mesi di convalescenza in famiglia. Ora ero deciso a tornare tra i miei amati ragazzi. Ogni giorno ce n'era qualcuno che veniva a trovarmi o che mi scriveva. Mi dicevano: « Faccia presto! ».
Ma dove andare ad abitare, ora che ero stato licenziato dal Rifugio? Con quali mezzi potevo sostenere un'opera che ogni giorno costava più fatiche e più denaro? Le persone che lavoravano per l'Oratorio, e io stesso, dovevamo pur vivere.
In quel tempo si erano rese libere due stanze in casa Pinardi, e le feci affittare per me e per mia madre.
- Mamma - le dissi un giorno -, dovrei andare ad abitare a Valdocco. Dovrei prendere una persona di servizio. Ma in quella casa abita gente di cui un prete non può fidarsi. L'unica persona che mi può garantire dai sospetti e dalle malignità siete voi.
Essa capì la serietà delle mie parole, e rispose:
- Se credi che questa sia la volontà del Signore, sono pronta a venire.
Mia madre faceva un grande sacrificio. Non era ricca, ma in famiglia era una regina. Piccoli e grandi le volevano bene e le ubbidivano in tutto.
Dai Becchi spedimmo alcune cose necessarie per preparare le stanze. Le altre poche masserizie vi furono trasportate dalla camera che avevo abitato al Rifugio. Prima di partire, mia madre riempì un canestro di biancheria e di oggetti necessari. Io presi il breviario, un messale, alcuni libri e alcuni quaderni. Questa era tutta la nostra fortuna.
Siamo partiti a piedi dai Becchi. Abbiamo fatto tappa a Chieri, e la sera del 3 novembre 1846 siamo arrivati a Valdocco. A vedere quelle camere sprovviste di tutto, mia mamma sorrise e disse:
- Ai Becchi avevo tante preoccupazioni per far andare avanti la casa, per comandare ciò che ognuno doveva fare. Qui sarò molto più tranquilla.
Il corredo da sposa della mamma
Ma come vivere, che cosa mangiare, come pagare l'affitto? E questo non era tutto: molti ragazzi mi domandavano ogni momento pane, scarpe, camicie, abiti. Ne avevano assoluto bisogno per presentarsi al lavoro.
Abbiamo fatto arrivare da casa un po' di vino, frumento, granturco, fagioli. Per far fronte alle prime spese abbiamo venduto una vigna e alcuni campi. Mia madre si fece mandare il suo corredo da sposa che fino allora aveva custodito gelosamente. Alcune sue vesti servirono a fare pianete. Con la biancheria si fecero tovaglie d'altare e indumenti che servirono per la celebrazione della santa Messa. Tutto passò per le mani di madama Gastaldi,' che fin d'allora prendeva a cuore le necessità dell'Oratorio.
Mia mamma possedeva pure una piccola collana d'oro e alcuni anelli. Li vendette per comprare oggetti necessari alla chiesa. Una sera mia madre, che era sempre di buon umore, si mise a cantare: « Guai al mondo - se ci sente forestieri - senza niente».
Tante classi e poco spazio
Dopo le prime sistemazioni domestiche, presi in affitto un'altra stanza. La trasformai in sacrestia. Non avevo ambienti per la scuola, e per qualche tempo feci lezione in cucina o in camera mia. Ma fra gli alunni c'erano anche fior di monelli, che guastavano o mettevano sottosopra tutto. Quando dividemmo le classi, le sistemammo nella sacrestia e nelle varie parti della chiesina. Ma mentre una classe leggeva ad alta voce, un'altra cantava in coro, in una terza arrivavano ritardatari percorrendo tutta la chiesa. Era un disturbo continuo.
Alcuni mesi dopo riuscii ad affittare due altre stanze, e la scuola serale poté funzionare meglio.
Come ho già detto, nell'inverno 1846-47 le nostre scuole serali diedero ottimi risultati. Avevamo in media 300 alunni ogni sera. Le materie che insegnavamo erano lingua e aritmetica, ma anche musica e canto, che tra noi furono sempre fiorenti.
Nota di don Bosco (scritta al termine di questo capitoletto)
Si tenga presente che le prime scuole serali aperte in Torino furono quelle di casa Moretta, nel novembre 1845. In tre classi non potevamo ospitare più di 200 alunni. I buoni risultati ottenuti ci persuasero a riaprirle l'anno seguente, appena trovammo una sede stabile a Valdocco.
Fra quelli che ci aiutavano nelle scuole serali, e che preparavano i giovani alla declamazione e al teatro, devo ricordare don Chiaves, don Musso e don Giacinto Carpano.
6. IL PRIMO « GRUPPO GIOVANILE »
Un Regolamento e una Compagnia
A Valdocco avevamo finalmente una sede stabile e regolare. Mi misi quindi con tutta la buona volontà a realizzare quelle iniziative che dovevano creare nel nostro Oratorio unità di spirito, di azione e di amministrazione.
Per prima cosa ho scritto un Regolamento. In esso erano esposte semplicemente le cose che già si facevano all'Oratorio, e il modo in cui dovevano essere fatte. Questo Regolamento è stato stampato e chiunque può leggerlo.
Il servizio reso da questo piccolo Regolamento fu notevole: ognuno sapeva quello che doveva fare. Lo lasciavo a ognuno la piena responsabilità del suo ufficio. Con il Regolamento ognuno sapeva bene quali erano le responsabilità che gli erano affidate. Molti Vescovi e parroci me ne domandarono copia, e cercarono di introdurre l'opera degli Oratori nelle loro diocesi e nei loro paesi.
Stabilita la base per l'unità di spirito e di azione, occorreva prendere qualche iniziativa per accendere nei giovani l'amicizia del Signore. Per questo fondai la Compagnia di San Luigi. Scrissi delle brevissime Regole adatte ad un gruppo giovanile e le feci vedere all'Arcivescovo. Egli le lesse, le fece leggere ad altre persone che diedero il loro parere. Alla fine l'Arcivescovo le lodò, le approvò il 12 aprile 1847, e concesse alcune indulgenze speciali ai soci della Compagnia.
La Compagnia di San Luigi destò grande entusiasmo tra i nostri ragazzi. Tutti volevano iscriversi. Posi due condizioni perché un giovane potesse esservi accettato: buon esempio in chiesa e fuori chiesa; evitare i discorsi cattivi e frequentare i santi Sacramenti.
La Compagnia portò un notevolissimo miglioramento nella vita cristiana dei ragazzi.
Per la prima volta l'Arcivescovo all'Oratorio
Volevo animare i giovani a celebrare con entusiasmo le sei domeniche che precedevano la festa di san Luigi. Per questo comprai una statua del Santo, feci confezionare un gonfalone, e diedi ai ragazzi una possibilità straordinaria di confessarsi: potevano venire a ogni ora del giorno, della sera e anche della notte. Nessuno dei giovani che frequentavano l'Oratorio aveva ancora ricevuto la Cresima. Decisi quindi di preparare tutti quelli che se la sentivano per la festa di san Luigi. Un numero straordinario accettò la proposta. Riuscii a prepararli con l'aiuto di parecchi sacerdoti e laici. Per il giorno della festa di san Luigi furono realmente tutti pronti.
Era la prima volta che l'Arcivescovo veniva a far visita all'Oratorio e la prima volta che amministrava la Cresima ai nostri giovani. Davanti alla piccola chiesa avevamo preparato una specie di elegante padiglione: lì abbiamo ricevuto l'Arcivescovo. Ho letto alcune parole di ringraziamento, poi alcuni ragazzi recitarono in suo onore una breve commedia intitolata Un caporale di Napoleone. Era la storia buffa di un caporale che raccontava mille barzellette e diceva la sua meraviglia per essere capitato in questa festa. L'Arcivescovo rise di gusto, si divertì un mondo. Alla fine disse che non aveva mai riso tanto in vita sua.
Poi ci parlò, e disse la sua grande gioia nel vedere l'Oratorio fiorente. Incoraggiò tutti a frequentarlo, e ringraziò della festosa accoglienza che gli avevamo fatto.
Celebrò la santa Messa durante la quale diede la Comunione a più di trecento ragazzi. Poi amministrò la santa Cresima. All'inizio della celebrazione, dimenticando che non era in Duomo, quando gli posero in capo la mitria alzò energicamente il capo, e battè contro il soffitto della chiesetta. Scoppiammo a ridere, lui e tutti noi. L'Arcivescovo raccontava sovente questo episodio, ricordando con piacere il nostro Oratorio. L'abate Rosmini paragonava la nostra opera alle Missioni che si aprono in terra straniera.
I preziosi «verbali»
Insieme a monsignor Fransoni erano venuti due canonici del Duomo e molti altri preti. Quando l'Arcivescovo ebbe amministrato la Cresima, si fecero tanti piccoli verbali. Accanto al nome e cognome di ogni ragazzo cresimato si annotò il luogo e la data del giorno, il nome dell'Arcivescovo e quello del padrino. Alla fine quei verbali furono divisi secondo le varie parrocchie (in cui i giovani abitavano). Vennero quindi portati alla Curia e di qui trasmessi ai rispettivi parroci.
7. IL PRIMO ORFANO ARRIVA DALLA VALSESIA
Piccoli ladri sul fienile
Mentre organizzavamo l'istruzione religiosa e scolastica, fui costretto a pensare a un'altra necessità grande e urgente. Molti ragazzi immigrati a Torino volevano sinceramente lavorare e vivere da buoni cristiani. Ma trovavano serie difficoltà: nei primi tempi non avevano né pane né vestiti convenienti. Specialmente non avevano un alloggio. Tentai di ospitarne alcuni che alla sera non sapevano dove andare a dormire. Preparai un fienile con paglia e qualche cosa da coprirsi. Ma erano poveri ragazzi: molte volte mi rubavano coperte e lenzuola. Alla fine mi portavano via anche la paglia, per andare a rivenderla.
Dormì accanto al focolare di mamma Margherita
Una piovosa sera di maggio bussò alla nostra porta un ragazzo di 15 anni, tutto bagnato e intirizzito. Ci chiese pane e ospitalità. Mia madre lo fece entrare in cucina, vicino al focolare. Mentre si scaldava e si asciugava, gli diede pane e minestra. Intanto gli domandai se era andato a scuola, se aveva parenti, che mestiere faceva. Mi rispose:
- Sono un povero orfano. Vengo dalla Valsesia a cercare lavoro. Avevo tre lire, ma le ho spese tutte e non ho trovato lavoro. Adesso non ho più niente e non sono più di nessuno.
- Hai già fatto la prima Comunione?
- No.
- E la Cresima?
- Nemmeno.
- Sei già andato a confessarti? - Qualche volta.
- E adesso dove vuoi andare?
- Non lo so. Per carità, lasciatemi passare la notte in un angolo.
Silenziosamente si mise a piangere. Anche mia madre piangeva, e io ero profondamente turbato.
- Se sapessi che non sei un ladro, ti terrei. Ma degli altri ragazzi mi hanno portato via le coperte, e forse tu farai come loro.
- No, signore. Stia tranquillo. Io sono povero ma non ho mai rubato.
- Se sei d'accordo - disse mia madre - per questa notte lo faccio dormire qui. Domani Dio provvederà.
- Qui dove? - In cucina. - E se porta via le pentole?
- Farò in maniera che non succeda. - Allora d'accordo.
Aiutata dal ragazzo, mia mamma usci fuori e raccolse dei mezzi mattoni. Li portò dentro, fece quattro pilastrini, vi distese alcune assi, mise sopra un pagliericcio e preparò così il primo letto dell'Oratorio. La mia buona mamma, a questo punto, fece a quel ragazzo un discorsetto sulla necessità del lavoro, dell'onestà e della religione. Poi lo invitò a recitare le preghiere.
- Non le so - rispose.
- Allora le reciterai con noi - gli disse. E pregammo insieme.
Per non correre pericoli, la cucina fu chiusa a chiave fino al mattino dopo.
Questo fu il primo ragazzo ospitato nella nostra casa. A lui se ne aggiunse presto un secondo, e poi altri. Ma in quell'anno, 1847, per mancanza di spazio, abbiamo dovuto limitarci a due.
Nuove stanze e nuova musica
Ero persuaso che per molti ragazzi ogni aiuto era inutile se non gli si dava una casa. Per questo mi sono dato da fare per prendere in affitto altre stanze, e poi altre ancora, nella casa Pinardi, anche se il prezzo era esagerato.
Di giorno, queste stanze servivano anche da classi, e così potemmo iniziare la scuola di musica e di canto.
Quella nostra scuola pubblica di musica (iniziata nel 1845) fu la prima. Per la prima volta la musica veniva insegnata in classe a un gran numero di allievi contemporaneamente. Prima d'allora, ogni allievo si cercava un maestro che gli desse lezioni individuali.
Moltissimi giovani si iscrissero. Ogni sera, alle mie lezioni, avevo degli spettatori illustri: i maestri Luigi Rossi, Giuseppe Blanchi, Cerutti, il canonico Luigi Nasi. Era un fatto contrario al Vangelo, dove si legge che il discepolo non pub essere superiore al maestro. Io non possedevo nemmeno un milionesimo della sapienza musicale di quelle celebrità, eppure facevo da maestro davanti a loro. Ma essi non venivano certo per imparare musica. Volevano invece conoscere il nostro metodo di insegnare, quello stesso che oggi è usato in tutte le nostre case.
8. IL SECONDO ORATORIO
Battaglia delle lavandaie
Man mano che le nostre scuole si moltiplicavano, si moltiplicava anche il numero dei ragazzi. Nei giorni di festa era ormai impossibile accoglierli tutti nel cortile e nella chiesa.
D'accordo con don Borel pensai allora di aprire un secondo Oratorio in un altro quartiere della città. Affittammo una piccola casa a Porta Nuova sul viale del Re (ora Corso Vittorio Emanuele Il), che la gente chiamava viale dei Platani per le piante che lo fiancheggiavano.
Per avere quella casa abbiamo dovuto ingaggiare un'accanita battaglia con le persone che l'abitavano. Erano lavandaie, e non volevano cederci la casa a nessun costo, disposte a far crollare il mondo. Ma le prendemmo con le buone, pagammo loro una indennità, e risolvemmo la faccenda senza far scoppiare la guerra.
Della casa e del prato per i giochi era proprietaria la signora Vaglienti, che poi lasciò erede il cavalier Giuseppe Turvano. L'affitto era di lire 450 all'anno. L'Oratorio fu dedicato a san Luigi Gonzaga.
I tentativi non sempre riescono
L'inaugurazione fu fatta da me e da don Borel il giorno dell'Immacolata Concezione 1847. Moltissimi ragazzi cominciarono a frequentarlo, e così la massa compatta che invadeva ogni domenica l'Oratorio di Valdocco si diradò un poco.
La direzione fu affidata a don Giacinto Carpano, che per alcuni anni prestò la sua opera completamente gratuita. Il regolamento scritto per l'Oratorio di Valdocco fu integralmente adottato anche per quello di san Luigi.
In quel medesimo anno, per ospitare un numero più consistente di ragazzi, comprammo tutta la casa Moretta. Ma i muratori che cercarono di adattarla trovarono le mura troppo fragili. Finimmo per rivenderla, tanto più che ci venne offerto un prezzo molto vantaggioso. Comprammo invece 3800 metri quadrati di terreno dal Seminario di Torino. È il luogo dove furono poi fabbricati la chiesa di Maria Ausiliatrice e l'edificio dei laboratori per i nostri giovani artigiani.
9. 1848, ANNO DIFFICILE
Un colpo di fucile in cappella Pinardi
In quest'anno la politica e l'opinione pubblica iniziarono un'azione drammatica di cui era difficile prevedere la conclusione.
Carlo Alberto concesse la Costituzione. Molti pensarono che insieme alla Costituzione veniva concessa la libertà di fare il bene e il male secondo il proprio capriccio. Questa convinzione nasceva dalla libertà accordata agli ebrei e ai protestanti. « Non c'è più distinzione tra essere cattolici e essere di un'altra religione », si diceva. Questo era vero per ciò che riguardava la vita politica, ma non modificava i doveri religiosi.
In quei giorni, una specie di frenesia si diffuse tra i giovani. Si radunavano in vari punti della città, nelle vie e nelle piazze, prendevano d'assalto preti e chiese. Ogni offesa alla religione era considerata « una bella impresa ». Io fui assalito più volte in casa e in strada.
Un giorno, mentre facevo catechismo, un colpo di archibugio (= vecchio fucile) entrò per una finestra, mi stracciò la veste tra il braccio e il torace, e andò a fare un largo squarcio nel muro.
Un'altra volta, mentre ero in mezzo a una folla di ragazzi, in pieno giorno, un tale che ben conoscevo mi assali con un lungo coltello. Mi salvai per miracolo, fuggendo in camera mia e sbarrando la porta.
Don Borel sfuggì per miracolo a un colpo di pistola. Sfuggì anche ad alcune coltellate assassine un giorno che fu scambiato per un'altra persona. Era difficile calmare e far cambiare idea a quei giovani scatenati.
I luoghi di lavoro diventano pericolosi
Mentre si verificava quel pervertimento generale, cercai di dare ospitalità al maggior numero possibile di giovani lavoratori. Affittai altre stanze e ne ospitai quindici: tutti giovani senza famiglia e in pericolo di mettersi per una cattiva strada.
C'era però una grossa difficoltà. Non avevamo laboratori interni, e i nostri giovani andavano al lavoro a Torino. Questo creava pericoli seri per la loro vita cristiana: i compagni di lavoro, i discorsi che sentivano, quello che vedevano, molte volte distruggevano le convinzioni cristiane che cercavamo di costruire nell'Oratorio.
E’ in questo tempo che ho cominciato a fare un discorsetto brevissimo alla sera, dopo le preghiere. Esponevo o rafforzavo qualche verità cristiana che era stata messa in discussione durante la giornata.
Ciò che capitava ai giovani lavoratori, capitava anche agli studenti. Non avevamo classi interne, quindi i più avanzati nello studio si recavano dal professor Giuseppe Bonzanino a frequentare grammatica, e gli altri dal professor don Matteo Picco a scuola di retorica. Erano scuole ottime, ma nell'andare e nel tornare anche gli studenti incontravano le loro difficoltà.
Solo nell'anno 1856 potemmo avere tutte le scuole e i laboratori nella casa dell'Oratorio, con grande vantaggio.
Scodellare la minestra e dire una buona parola
Nell'anno 1848 ci fu un tale pervertimento di idee e di azioni che non potevo più nemmeno fidarmi dei collaboratori domestici. Ogni lavoro casalingo doveva quindi essere fatto da me e da mia madre. Toccava a me fare cucina, preparare la tavola, spazzare la casa, spaccare la legna, confezionare camicie, calzoni, asciugamani, lenzuola, e rammendarli quando si strappavano. Sembrava una perdita di tempo, e invece trovai in quelle attività una possibilità grande di aiutare i giovani nella loro vita cristiana. Mentre distribuivo il pane, mentre scodellavo la minestra, potevo con calma dare un buon consiglio, dire una buona parola.
I primi Esercizi Spirituali e perché
Sentivo sempre più necessità che qualcuno mi desse una mano nella gestione della casa e nell'aprire scuole all'Oratorio. Con questo pensiero cominciai a invitare qualcuno a passare le ferie con me nella casa dei Becchi. Altri li invitavo a tenermi compagnia a pranzo o alla sera. Venivano a leggere, a scrivere, a studiare, e intanto discutevamo le opinioni velenose che circolavano in quei giorni contro la religione. Tutto questo durò dal 1841 al 1848. Lo facevo avendo in mente lo scopo che ho già detto: osservare, conoscere, scegliere alcuni individui adatti alla vita comune, e proporre loro di rimanere con me.
Puntando sempre in questa direzione, nel 1848 ho tentato un piccolo corso di Esercizi Spirituali. Raccolsi una cinquantina di ragazzi. Facevano pranzo e cena con me, ma poiché non c'erano letti per tutti, alcuni andavano a dormire a casa e tornavano al mattino seguente. Quell'andare e venire alla sera e al mattino, però, metteva a rischio il clima di raccoglimento e di riflessione che le prediche e il silenzio creano in quei giorni. Gli Esercizi cominciarono domenica sera e terminarono sabato sera.
Riuscirono molto bene. Diversi ragazzi, attorno ai quali avevo lavorato inutilmente per tanto tempo, cominciarono una seria vita cristiana. Alcuni seguirono la vocazione religiosa. Altri rimasero laici, ma divennero modelli di vita cristiana per i loro compagni dell'Oratorio. Di questo parlerò più distesamente nella Storia della Società Salesiana.
La parrocchia dei ragazzi senza parrocchia
Alcuni parroci (ricordo quelli di Borgo Dora, del Carmine e di Sant'Agostino) espressero nuovamente all'Arcivescovo la loro preoccupazione perché negli Oratori si amministravano i Sacramenti. L'Arcivescovo rispose con un decreto con cui ci autorizzava a dare la Comunione anche nei giorni di Pasqua e a preparare alla Cresima i ragazzi che frequentavano i nostri Oratori. Ci rinnovò pure la facoltà di fare tutte le funzioni religiose che si fanno in una parrocchia. «Gli Oratori - disse l'Arcivescovo - saranno la parrocchia dei ragazzi senza parrocchia ».
10. LEZIONI CORAGGIOSE DI VITA CRISTIANA
Il primo coro di voci bianche
La vita religiosa e morale dei giovani era esposta a seri pericoli. Occorreva moltiplicare gli sforzi per aiutarli. Accanto alla scuola serale e diurna, alla scuola di musica vocale, aprimmo anche la scuola di pianoforte, di organo e di altri strumenti musicali. Divenni così maestro di musica vocale e strumentale, di organo e pianoforte, senza esserne mai stato un vero allievo. La buona volontà suppliva. Preparammo un piccolo coro di voci bianche, che si esibì prima nella chiesetta dell’oratorio, poi a Torino, Rivoli, Moncalieri, Chieri e in altri luoghi. I nostri cantori erano preparati e diretti dal canonico Luigi Nasie da don Michelangelo Chiatellino. Finallora non si erano mai ascoltati cori di ragazzi. Le sue esecuzioni erano una grande novità. Dappertutto si parlava della nostra musica, il coro di voci bianche era desiderato e invitato alla solennità. Don Nasi e don Chiatellino divennero anche gli accompagnatori ufficiali della nostra nascente “società filarmonica”.
Andavamo ogni anno al Santuario della Consolata a celebrare una funzione religiosa. Quell’anno ci recammo in processione partendo dall’Oratorio. I nostri canti risuonarono per le strade e attirarono una vera folla di gente. In chiesa celebrai la messa. I ragazzi fecero la Comunione e cantarono. Poi scendemmo nella cappella sotterranea e dissi a tutti una buona parola. Gli oblati di Maria ci ringraziarono offrendo ai ragazzi una splendida colazione sotto i portici del Santuario.
Il Municipio dà una mano e mille lire
Così i giovani imparavano a mostrare francamente la loro fede, e altri ragazzi si univano a noi. Erano manifestazioni in cui, pur con la massima prudenza, davamo lezione di vita cristiana, rispetto alle autorità e frequenza ai santi Sacramenti. Erano avvenimenti insoliti, che facevano parlare e discutere.
Il Municipio di Torino, per verificare ciò che si diceva di noi, mandò in quell'anno una commissione composta dal cavaliere Pietro Ropolo del Capello, detto Moncalvo, e dal commendatore Duprè. Esaminarono la nostra attività, ne furono soddisfatti, e scrissero una buona relazione sulla vita dell'Oratorio. Risultato: un premio di lire mille e una lettera di elogi.
Da quell'anno il Municipio ci mandò un sussidio annuale fino al 1878. Dopo quell'anno (come ho già detto) ci fu tolto il sussidio. Cessava così ciò che quei saggi amministratori avevano messo in bilancio per sostenere una scuola serale che istruiva i figli del popolo.
Pure l'Opera della Mendicità, che aveva iniziato scuole serali e musicali adottando i nostri metodi, mandò una delegazione a farci visita. La capeggiava il cavaliere Gonella. Come segno di simpatia e di sostegno ci diede anch'essa un premio di mille lire.
Pellegrinaggio di ragazzi coraggiosi
Ogni anno, nel giorno del Giovedì santo, i nostri giovani si recavano nelle varie chiese di Torino per venerare e ammirare i « santi sepolcri ». Ma in quei tempi difficili, gruppi di giovinastri prendevano in giro i ragazzi dell'Oratorio, li insultavano. Alcuni avevano paura, non osavano più entrare in una chiesa. Allora presi una decisione coraggiosa. Per dare a tutti la forza di vincere il disprezzo, tutto l'Oratorio si recò in processione alle varie chiese, cantando lo Stabat Mater e il Miserere.
Il risultato superò le mie previsioni: molti ragazzi piccoli e grandi, ricchi e poveri, lungo la strada si unirono a noi, e vennero con noi ad adorare l'Eucaristia. Abbiamo potuto pregare e cantare con ordine e tranquillità.
La sera di quel Giovedì santo (era la prima volta per l'Oratorio) ripetemmo la « lavanda dei piedi » fatta da Gesù. Furono scelti dodici ragazzi, che ricevettero il titolo di « dodici apostoli ». Dopo la lavanda, dissi alcune buone parole ai giovani e alla gente che si era unita a noi. Quindi invitai i « dodici apostoli » a partecipare alla nostra povera cena, e diedi a ciascuno un piccolo regalo, che accettarono con gioia.
Pure in quell'anno, lungo le pareti della cappellina, collocammo le « stazioni della Via Crucis », e le benedicemmo con grande solennità. Ad ogni stazione dicevo una breve parola, e i ragazzi cantavano la strofa di un canto sacro.
Così il nostro povero Oratorio si irrobustiva poco alla volta, mentre si verificavano gravi avvenimenti che dovevano cambiare l'aspetto politico dell'Italia e forse del mondo.
11. 1849. TRENTATRE' LIRE PER PIO IX
All'Oratorio i seminaristi sbandati
Sarà difficile dimenticare quell'anno. La guerra del Piemonte contro l'Austria, cominciata l'anno prima, aveva messo sottosopra tutta l'Italia. Le scuole pubbliche furono sospese. I seminari, in particolare quelli di Chieri e di Torino, furono chiusi e occupati dai militari. Per conseguenza, i seminaristi della nostra diocesi rimasero senza sede e senza maestri. Spinto da questa situazione, presi in affitto tutta la casa Pinardi. Non era molto, ma era tutto quello che potevo per fare del bene in quel momento così triste. Con tutta la casa a disposizione potevo moltiplicare le classi scolastiche, ingrandire la chiesa, raddoppiare lo spazio per i giochi, e portare il numero dei ragazzi ospitati giorno e notte a trenta.
Lo scopo principale, però, era di poter accogliere i chierici della diocesi. Questo scopo fu raggiunto, e si può dire che per quasi vent'anni la casa dell'Oratorio divenne il Seminario diocesano.
Quando chiesi di affittare tutta la casa Pinardi, gli inquilini protestarono rumorosamente. Fecero minacce a me, a mia madre, allo stesso Pinardi. Dovetti sborsare molto denaro, ma alla fine tutto l'edificio fu messo a nostra disposizione. Così, tutto quell'ambiente malfamato, che per vent'anni era stato luogo di vizio e di peccato, divenne nostro. Potevo disporre di tutta la zona dove ora sono il cortile e la casa dietro la chiesa di Maria Ausiliatrice.
Colletta per il Papa
Verso la fine dei 1848 gli avvenimenti politici costrinsero Pio IX a fuggire da Roma e a rifugiarsi a Gaeta. Questo grande Papa aveva molte volte dimostrato bontà e simpatia verso di noi. Quando si sparse la notizia che a Gaeta si trovava in difficoltà finanziarie, a Torino si fece una questua sotto il nome di Obolo di San Pietro.
Una commissione composta dal canonico Francesco Valinotti e dal marchese Gustavo Cavour venne all'Oratorio a chiedere anche il nostro contributo. La questua tra i ragazzi risultò di 33 lire. Era una cosa da poco, e noi cercammo di renderla gradita al Papa con una lettera di auguri che gli piacque molto. Manifestò il suo gradimento con una lettera indirizzata al cardinale Antonucci, allora Nunzio di Torino e poi arcivescovo di Ancona. Il cardinale veniva incaricato di dirci quanto l'aveva commosso la nostra offerta, e più ancora le parole che l'accompagnavano. Ricambiava mandandoci la sua benedizione papale e un pacco di 720 corone del Rosario. Furono distribuite solennemente ai giovani il 20 luglio 1850.
Il terzo Oratorio
I giovani che affollavano gli Oratori di Valdocco e di San Luigi erano sempre più numerosi. Passammo allora ad un terzo Oratorio. Fu quello dell'Angelo Custode, in borgo Vanchiglia, poco distante dal luogo dove la Marchesa Barolo fece poi costruire la chiesa di Santa Giulia.
Quell'Oratorio era stato fondato anni prima da don Giovanni Cocchi, e aveva più o meno lo stesso scopo dell'Oratorio di Valdocco. Ma don Cocchi, infiammato di amor patrio, aveva creduto bene di insegnare ai suoi giovani l'uso del fucile e della spada. Aveva marciato alla loro testa per partecipare alla guerra contro gli Austriaci.
L'Oratorio di don Cocchi rimase chiuso per un anno. Poi l'abbiamo affittato noi. Ne prese la direzione don Giovanni Vola, di cara memoria. Rimase funzionante fino al 1871, quando fu trasferito presso la chiesa parrocchiale. La marchesa Barolo lasciò un legato a favore dell'Oratorio, a patto che la cappella e il locale fossero a servizio dei ragazzi della parrocchia. Così si è fatto.
Il primo chierico dell'Oratorio
All'Oratorio di Valdocco, in quel tempo, arrivò una commissione di Deputati, incaricati dal Ministero degli Interni di visitare la nostra opera. Con gentilezza e amicizia videro tutto e tutti. Poi fecero una consistente relazione alla Camera dei Deputati. La relazione fu seguita da una lunga e vivace discussione, riportata dalla Gazzetta Piemontese dei 29 marzo 1850. A seguito di questa visita, la Camera dei Deputati ci assegnò un sussidio di lire 300. Urbano Rattazzi, in quel tempo Ministro degli Interni, ci fece assegnare lire 2000.
Alla fine dell'ottobre di quell'anno,' uno dei miei allievi, finalmente, vestì l'abito dei chierici. Si chiamava Ascanio Savio, e divenne poi Rettore del Rifugio. Fu il primo chierico dell' Oratorio.
12. « VOGLIO TENERMI FUORI DALLA POLITICA »
Panciotti patriottici
In quei giorni venne a disturbare pesantemente la nostra vita un fatto strano. Si voleva che il nostro povero Oratorio prendesse parte alle manifestazioni pubbliche che si ripetevano nei quartieri della città e nei paesi sotto il nome di « feste nazionali ». Chi vi prendeva parte e voleva dimostrare pubblicamente il suo amor patrio, si divideva i capelli sulla fronte e se li lasciava cadere inanellati sulle spalle, indossava un panciotto attillato e variopinto, poneva sul petto una coccarda azzurra e una medaglia, impugnava la bandiera tricolore. Così abbigliati si partecipava ai cortei cantando inni all'unità della nazione.
Dialogo con il marchese
Il marchese Roberto d'Azeglio, principale promotore di quelle manifestazioni, ci fece un invito formale perché vi partecipassimo. Rifiutai, ma ciò nonostante ci procurò tutto quello che occorreva perché potessimo fare la nostra bella figura. In Piazza Vittorio era preparato un posto per noi accanto a tutti gli istituti di Torino.' Che fare? Rifiutare era come dichiararsi nemico dell'Italia. Acconsentire significava accettare certi principi che io consideravo molto pericolosi.
- Signor marchese - risposi al d'Azeglio - questo non è un istituto, ma una famiglia. I giovani che si raccolgono nella mia casa non sono un ente morale. Mi farei prendere in giro se presentassi come mia un'opera che invece è affidata alla carità cittadina.
- Proprio per questo lei deve intervenire. La carità pubblica deve sapere che quest'opera non è contraria alle istituzioni moderne. Ciò vi farà del bene. Aumenteranno le offerte. Il Municipio e io stesso saremo generosi nei vostri riguardi.
- Signor marchese, è mio fermo sistema tenermi fuori da ogni cosa che si riferisce alla politica. Mai in favore, mai contro. - Che cosa vuol fare allora?
- Fare tutto il bene possibile ai ragazzi abbandonati. Adoperare tutte le forze perché diventino buoni cristiani di fronte alla religione e onesti cittadini in mezzo alla società civile.
- Capisco ciò che vuol dire. Ma lei si sbaglia. Se persiste in questo principio sarà abbandonato da tutti, e la sua opera diverrà insostenibile. Bisogna scrutare il mondo, conoscerlo, e rendere le istituzioni antiche e moderne adeguate ai tempi.
- La ringrazio della sua buona volontà e dei consigli che cerca di darmi. Mi inviti a qualche cosa dove il prete possa esercitare concretamente l'amore del prossimo, e mi vedrà pronto a sacrificare tutto ciò che possiedo, anche la vita. Ma io voglio essere ora e sempre estraneo alla politica.
Quell'uomo celebre e potente se ne andò senza essere riuscito a farmi cambiare parere. D'allora in poi non ebbe più relazioni con noi. Anche molti laici ed ecclesiastici, dopo di lui, mi abbandonarono. Dopo il fatto che adesso narrerò, rimasi praticamente solo.
13. PRETI E GIOVANI SE NE VANNO
Un giornale fatto a pezzi
La domenica dopo, alle due pomeridiane, ero in cortile con i ragazzi. Un tale, accanto a me, leggeva il giornale l'Armonia. Ed ecco arrivare i preti che mi aiutavano nel lavoro tra i giovani. Li guardai sbalordito: avevano coccarde e medaglie sul petto, tricolore in mano. E tra le mani avevano anche un giornale anticlericale, l'Opinione.
Uno di essi, che stimavo assai per l'intelligenza e l'impegno tra i giovani, viene accanto a me e mi dice aspro, indicando colui che teneva in mano l'Armonia:
- Vergogna! è tempo di finirla con questi nostalgici! Così dicendo, gli strappa dalle mani il giornale, lo fa a pezzi, lo getta in terra, ci sputa sopra, lo calpesta. Sfogata così la sua rabbia politica, torna verso di me e mi agita sotto il naso l'Opinione.
- Questo sì che è un buon giornale. Questo si deve leggere dai cittadini veri e onesti.
Rimasi sbalordito da quel modo di parlare e di comportarsi. Non volendo aumentare lo scandalo tra i ragazzi, in quel luogo dove si doveva dare solo buon esempio, pregai lui e i suoi colleghi di rimandare quegli argomenti a quando saremmo stati solo noi, in privato.
- Nossignore - mi rispose -. Non ci deve essere più niente di privato o di segreto. Ogni cosa dev'essere fatta e detta alla luce del sole.
Fuga in massa
In quel momento il campanello chiamò tutti in chiesa. Uno di quei preti era stato incaricato di dire una buona parola ai giovani. Ma la sua fu una parola cattiva. Egli tenne un discorso squillante di libertà, emancipazione, indipendenza.
In sacrestia, aspettavo impaziente di poter parlare io, e di mettere fine a quel disordine. Ma il predicatore, terminato il discorso, diede la benedizione, e subito dopo invitò preti e giovani a seguirlo. Cantando a pieni polmoni inni nazionali e facendo sventolare freneticamente la bandiera, andarono fino al Monte dei Cappuccini. Là fecero tutti una promessa solenne: sarebbero rientrati all'Oratorio solo se fossero stati invitati e ricevuti «in forma nazionale».
Tutto questo accadde senza che io potessi dire una parola. Ma non provai nessuna paura. Sapevo qual era il mio dovere. Feci dire a quei preti che proibivo severamente il loro ritorno all'Oratorio. Quanto ai giovani, quelli che volevano rientrare dovevano venire a parlare con me uno alla volta.
La faccenda si concluse bene. Nessuno di quei preti tentò di tornare. I giovani chiesero scusa, riconobbero di essere stati ingannati, e promisero obbedienza e disciplina.
14. IL PESO DELLA SOLITUDINE
« Anche i chierici se ne andarono »
Ma io rimasi solo. Nei giorni di festa dovevo cominciare le confessioni al mattino presto. Alle 9 celebravo la Messa e facevo la predica. Poi scuola di canto e di italiano fino a mezzogiorno. All'una dopo pranzo c'era la ricreazione dei ragazzi, quindi il catechismo, il canto dei vespri, l'istruzione, la benedizione. Quindi giochi, canti e scuola fino a notte. Nei giorni feriali, lungo la giornata dovevo badare al lavoro dei piccoli artigiani e far scuola a una decina di studenti. Alla sera dovevo pensare alla scuola di francese, aritmetica, canto, musica, pianoforte e organo. Non so come abbia potuto reggere. Dio mi aiutò.
Un grande conforto e un notevole aiuto lo ebbi in quei momenti da don Borel. Quel meraviglioso prete, sebbene carico di mille altre occupazioni, approfittava di ogni ritaglio di tempo per venirmi in aiuto. Sovente rubava le ore al sonno per venire a confessare i ragazzi, rinunciava a un poco di riposo per predicare.
Questa posizione difficile durò finché non ebbi l'aiuto dei chierici Savio, Bellia e Vacchetta. Ma anch'essi mi abbandonarono presto: senza dirmi una parola, esortati da qualcuno, en-trarono tra gli Oblati di Maria.
Rosmini fa catechismo ai ragazzi dell'Oratorio
Una domenica ricevetti la visita di due sacerdoti. Era l'ora del catechismo, e tutti i giovani erano in movimento per dividersi nelle varie classi. I due preti, con grande cortesia, mi vennero vicino, si rallegrarono con me per quello che vedevano, e cominciarono a domandarmi notizie sull'origine e sul sistema dell'Oratorio. Riuscii solo a rispondere:
- Abbiate la bontà di darmi una mano. Lei venga dietro l'altare: le affido la classe dei più grandi. A lei - dissi al più alto in statura - do il gruppo dove ci sono i più dissipati.
Mi accorsi che facevano catechismo a meraviglia. Subito dopo pregai uno di dire una buona parola ai ragazzi, e l'altro di dare la benedizione col Santissimo. Tutti e due accettarono molto gentilmente.
Il più alto in statura era il canonico De Gaudenzi, poi Vescovo di Vigevano. L'altro era l'Abate Antonio Rosmini, fondatore dell'Istituto della Carità. D'allora in poi entrambi furono amici e benefattori dell'Oratorio.
15. COMPRARE UNA CASA E AFFITTARE UNA BETTOLA
« Centomila di multa a chi si tira indietro »
L'anno 1849 fu spinoso e sterile, sebbene mi sia costato grandi fatiche ed enormi sacrifici. Ma fu una preparazione all'anno 1850, meno burrascoso e molto più ricco di buoni risultati.
Cominciamo da casa Pinardi. Quelli che avevano perso l'alloggio non riuscivano a rassegnarsi. Dicevano in giro:
- Era una casa di sollievo e di allegria. E adesso guarda! È finita nelle mani di un prete, per di più di un prete intollerante! Al Pinardi fu proposto un affitto due volte maggiore di quanto gli davo io. Ma era un brav'uomo: non si sentiva di far denari dando la sua casa per usi equivoci. Più volte mi propose di comprare tutto, per farla finita. Ma il prezzo che proponeva era esagerato. Chiedeva 80 mila lire per un edificio che valeva un terzo. Ma Dio dimostra sovente che è lui il padrone dei cuori. Ed ecco quello che avvenne.
Un giorno festivo, mentre don Borel predicava, stavo sulla porta del cortile per impedire che qualcuno entrasse a disturbare. Ed ecco il signor Pinardi:
- Altolà! - mi dice scherzosamente - Don Bosco deve comprare la mia casa.
- Altolà - risposi con lo stesso tono -. Io la compro se il signor Pinardi me la dà per il suo prezzo.
- Per il suo prezzo io gliela do. - Quanto?
- Gliel'ho già detto molte volte.
- Quella cifra non posso prenderla in considerazione.
- Perché?
- Perché è esagerata! Non voglio offenderla facendo un'offerta inferiore di molto.
- Faccia l'offerta.
- Mi dà questa casa per il suo prezzo? - Parola d'onore: gliela do.
- Mi stringa la mano e faccio l'offerta. - Dica la cifra.
- L'ho fatta stimare da un amico mio e suo. Mi assicura che nello stato attuale il suo valore è tra le 26 e le 28 mila lire. Io, per farla finita, gliene do 30 mila.
- Regalerà in più a mia moglie una spilla da 500 lire? - Va bene.
- Mi pagherà in contanti? - In contanti.
- Quando facciamo l'atto? - Quando lei vuole.
- Fra quindici giorni, in un solo pagamento? - Come lei vuole.
- Centomila lire di multa a chi si tira indietro! - Va bene.
L'affare fu combinato in cinque minuti. Ma dove trovare 30 mila lire in quindici giorni? Ci pensò la Provvidenza. Quella sera stessa don Cafasso (cosa insolita nei giorni di festa) viene a farmi visita, e mi dice che una pia persona, la contessa Casazza Riccardi, l'aveva incaricato di darmi diecimila lire da spendersi in quello che avrei giudicato meglio nel Signore. Il giorno dopo giunse un religioso rosminiano, che veniva a Torino per impiegare 20 mila lire. Mi domandò consiglio su come spenderle. Gli proposi di imprestarle a me, ad interesse (del quattro per cento) per pagare la casa Pinardi. La somma era completa. Le tremila lire di spese accessorie furono aggiunte dal cavalier Cotta, nella cui banca venne stipulato l'atto, tanto sospirato.
La bettola dei buontemponi
Acquistata la casa Pinardi, cominciai a pensare alla cosiddetta «Giardiniera». Era una bettola dove ogni festa si radunava un bel numero di buontemponi. Nella giornata, a soste-nere l'allegria, si succedevano suonatori di organetto, piffero, clarino, violino, chitarra, basso e contrabbasso. Sovente si ritrovavano tutti insieme a sostenere una specie di concerto, a cui si univano i canti degli avvinazzati.
L'edificio in cui si trovava la bettola, casa Bellezza, era separato dal nostro cortile solamente da un muretto di cinta. Così, sovente, i canti della nostra cappella erano disturbati e soffocati dagli schiamazzi, dalla musica e dal fracasso di bottiglie della Giardiniera. Inoltre davanti a casa Pinardi era un continuo viavai di gente diretta alla bettola. È facile immaginare il disturbo che ci dava, e anche il pericolo che correvano i nostri ragazzi.
Per risolvere la faccenda ho tentato di comprare la casa. Non ci riuscii. Cercai di prenderla in affitto. La padrona della casa era d'accordo, ma la padrona della bettola no: reclamava il risarcimento di danni favolosi. Allora proposi di rilevare l'osteria. Avrei pagato l'affitto, avrei comprato tavole, panche, sedie, bancone, attrezzatura di cantina e di cucina.
Dovetti pagare tutto a carissimo prezzo, ma potei finalmente chiudere quella bettola infame e destinare il locale ad un uso ben diverso. Procedeva così il risanamento di quella zona malfamata.
Nella cappella-tettoia i ragazzi svenivano
I disagi morali che ci davano casa Pinardi e la Giardiniera erano finiti. Ora bisognava pensare a una chiesa più decorosa per le celebrazioni liturgiche e più adatta alla quantità sempre crescente di giovani.
La cappella-tettoia era stata ingrandita un poco, ma era sempre troppo piccola e troppo bassa. Chi vi entrava doveva scendere due gradini, e così, quando fuori pioveva, l'acqua vi entrava e ci allagava. D'estate eravamo invece soffocati dal caldo e dall'odore sgradevole. In ogni festa c'era qualche ragazzo che sveniva. Dovevamo portarlo fuori a braccia, come un asfissiato.
Era quindi necessario costruire un edificio arioso, salubre e proporzionato al numero dei giovani. Il disegno fu fatto dal cavalier Blachier. Comprendeva l'attuale chiesa di S. Francesco di Sales e il rifacimento completo della casa Pinardi. Impresario era il signor Federico Bocca. Furono scavate le fondamenta. La prima pietra fu benedetta il 20 luglio 1851 dal canonico Moreno, economo generale della diocesi, e collocata dal cavalier Giuseppe Cotta. Il celebre padre Barrera, commosso dalla vista di un gran numero di gente venuta per quella circostanza, montò su un rialzo del terreno e improvvisò uno stu-pendo discorso.
Una pietra come un granello
Le sue prime parole furono: « Signori. La pietra che abbiamo benedetta e collocata a fondamento di questa chiesa, ha due grandi significati. Significa il granello di senapa che crescerà in albero, presso cui verranno molti ragazzi a rifugiarsi. Significa che questa opera si fonda sopra una pietra angolare che è Gesù Cristo. I nemici della fede cercheranno di abbatterla, ma i loro sforzi saranno vani ».
Poi padre Barrera svolse queste due affermazioni tra l'attenzione rispettosa degli ascoltatori, che sentivano in lui un predicatore ispirato.
Quella festa allegra e rumorosa attirò giovani da tutte le parti. Molti venivano ormai all'Oratorio a ogni ora del giorno, altri mi pregavano di dare loro ospitalità come interni. Il loro numero, in quell'anno, superò i cinquanta. Si cominciò qualche laboratorio in casa, perché l'uscita dei ragazzi a lavorare in città si dimostrava sempre più pericolosa.
La costruzione della chiesa era ormai a livello del terreno quando mi accorsi che non avevo più soldi. Con la vendita di case e terreni avevo messo insieme 35 mila lire, ma esse erano sparite come neve al sole. L'Economato (della città) ci assegnò un aiuto di 9 mila lire, ma ce le avrebbe versate quando l'opera fosse quasi terminata. Il Vescovo di Biella, poiché nell'Oratorio erano ospitati e aiutati molti giovani lavoratori biellesi, diramò una circolare ai suoi parroci, invitandoli a raccogliere offerte. Ecco le sue parole.
La lettera del Vescovo di Biella
«Molto Reverendo Signore,
l'egregio e pio sacerdote don Bosco, animato da una carità veramente angelica, cominciò a raccogliere nei giorni festivi i giovani che incontrava, abbandonati e dispersi per le piazze e le strade, nella zona grande e popolosa che si estende tra Borgo Dora e il Martinetto. Li ha raccolti in un luogo adatto ai ragazzi, per farli divertire e per educarli cristianamente. Ne ha raccolti così tanti che la cappellina di cui dispone è diventata troppo piccola. Non contiene nemmeno un terzo dei seicento e più ragazzi che vi accorrono. Spinto dall'amore, don Bosco ha iniziato la difficile impresa di costruire una chiesa corrispondente al bisogno dei ragazzi. Si è rivolto alla carità dei Cattolici per poter sostenere le spese' gravi che la costruzione esige.
Con particolare fiducia egli si rivolge per mio mezzo alla nostra Diocesi e provincia, poiché tra i seicento e più che si riuniscono attorno a lui e frequentano il suo Oratorio, più di un terzo (oltre duecento) sono giovani biellesi. Parecchi di essi sono anche ospitati in casa sua, e sono forniti gratuitamente di vitto e vestito, per poter imparare una professione. Egli chiede quindi a noi un aiuto non solo per carità, ma anche per giustizia.
La prego quindi di informare i suoi buoni parrocchiani su questa opera così interessante, di insistere presso le persone più benestanti, e di destinare la questua di una domenica a questo fine. Il ricavato della questua verrà mandato in Curia con un mezzo sicuro e con un biglietto che indichi la somma e il luogo da cui proviene. Mentre i protestanti tentano di aprire un tempio per insegnare l'errore che porterà alla perdizione i loro fratelli, i cattolici non saranno capaci di contribuire alla costruzione di una chiesa in cui sarà insegnata la verità e la via della salvezza a loro, ai loro fratelli, ai loro compatrioti? Ho la viva speranza di poter sostenere degnamente l'opera dell'uomo di Dio con le offerte che ci perverranno. Spero pure di toccare con mano un segno della buona volontà illuminata e riconoscente dei miei diocesani verso un'opera che è santa, utile, anzi necessaria ai tempi in cui viviamo. Colgo questa opportunità per riaffermarvi la mia stima e il mio affetto.
Biella 13 settembre 1851. Dev.mo Giovanni Pietro vescovo ».
La prima lotteria
La questua fruttò mille lire. Ma furono gocce d'acqua su un terreno riarso. Quindi mi misi a pensare a una lotteria pubblica. Riuscimmo a raccogliere 3300 doni. Il Papa, il Re, la Regina Madre, la Regina Consorte e tutta la Corte Sovrana si segnalarono mandando doni.
Lo spaccio dei biglietti (ciascuno costava mezza lira) fu portato a termine. Quando si fece la pubblica estrazione al Palazzo di Città, molti cercavano ancora di comprare biglietti, disposti a pagarli dieci volte il loro prezzo.
(A questo punto, don Bosco suggerisce all'eventuale trascrittore delle sue memorie. « Si può mettere il Programma e il Regolamento di questa Lotteria». Ma mi sembrano documenti aridi e burocratici, senza particolare interesse).
Molti vincitori lasciarono il loro premio a vantaggio della chiesa. Questo ci procurò un ulteriore aiuto. Le spese furono ingenti, ma la somma netta ricavata fu di lire 26 mila.
16. UNA CHIESA E UNA LOTTERIA
Nella cappella-tettoia i ragazzi svenivano
I disagi morali che ci davano casa Pinardi e la Giardiniera erano finiti. Ora bisognava pensare a una chiesa più decorosa per le celebrazioni liturgiche e più adatta alla quantità sempre crescente di giovani.
La cappella-tettoia era stata ingrandita un poco, ma era sempre troppo piccola e troppo bassa. Chi vi entrava doveva scendere due gradini, e così, quando fuori pioveva, l'acqua vi entrava e ci allagava. D'estate eravamo invece soffocati dal caldo e dall'odore sgradevole. In ogni festa c'era qualche ragazzo che sveniva. Dovevamo portarlo fuori a braccia, come un asfissiato.
Era quindi necessario costruire un edificio arioso, salubre e proporzionato al numero dei giovani. Il disegno fu fatto dal cavalier Blachier. Comprendeva l'attuale chiesa di S. Francesco di Sales e il rifacimento completo della casa Pinardi. Impresario era il signor Federico Bocca. Furono scavate le fondamenta. La prima pietra fu benedetta il 20 luglio 1851 dal canonico Moreno, economo generale della diocesi, e collocata dal cavalier Giuseppe Cotta. Il celebre padre Barrera, commosso dalla vista di un gran numero di gente venuta per quella circostanza, montò su un rialzo del terreno e improvvisò uno stu-pendo discorso.
Una pietra come un granello
Le sue prime parole furono: « Signori. La pietra che abbiamo benedetta e collocata a fondamento di questa chiesa, ha due grandi significati. Significa il granello di senapa che crescerà in albero, presso cui verranno molti ragazzi a rifugiarsi. Significa che questa opera si fonda sopra una pietra angolare che è Gesù Cristo. I nemici della fede cercheranno di abbatterla, ma i loro sforzi saranno vani ».
Poi padre Barrera svolse queste due affermazioni tra l'attenzione rispettosa degli ascoltatori, che sentivano in lui un predicatore ispirato.
Quella festa allegra e rumorosa attirò giovani da tutte le parti. Molti venivano ormai all'Oratorio a ogni ora del giorno, altri mi pregavano di dare loro ospitalità come interni. Il loro numero, in quell'anno, superò i cinquanta. Si cominciò qualche laboratorio in casa, perché l'uscita dei ragazzi a lavorare in città si dimostrava sempre più pericolosa.
La costruzione della chiesa era ormai a livello del terreno quando mi accorsi che non avevo più soldi. Con la vendita di case e terreni avevo messo insieme 35 mila lire, ma esse erano sparite come neve al sole. L'Economato (della città) ci assegnò un aiuto di 9 mila lire, ma ce le avrebbe versate quando l'opera fosse quasi terminata. Il Vescovo di Biella, poiché nell'Oratorio erano ospitati e aiutati molti giovani lavoratori biellesi, diramò una circolare ai suoi parroci, invitandoli a raccogliere offerte. Ecco le sue parole.
La lettera del Vescovo di Biella
«Molto Reverendo Signore,
l'egregio e pio sacerdote don Bosco, animato da una carità veramente angelica, cominciò a raccogliere nei giorni festivi i giovani che incontrava, abbandonati e dispersi per le piazze e le strade, nella zona grande e popolosa che si estende tra Borgo Dora e il Martinetto. Li ha raccolti in un luogo adatto ai ragazzi, per farli divertire e per educarli cristianamente. Ne ha raccolti così tanti che la cappellina di cui dispone è diventata troppo piccola. Non contiene nemmeno un terzo dei seicento e più ragazzi che vi accorrono. Spinto dall'amore, don Bosco ha iniziato la difficile impresa di costruire una chiesa corrispondente al bisogno dei ragazzi. Si è rivolto alla carità dei Cattolici per poter sostenere le spese' gravi che la costruzione esige.
Con particolare fiducia egli si rivolge per mio mezzo alla nostra Diocesi e provincia, poiché tra i seicento e più che si riuniscono attorno a lui e frequentano il suo Oratorio, più di un terzo (oltre duecento) sono giovani biellesi. Parecchi di essi sono anche ospitati in casa sua, e sono forniti gratuitamente di vitto e vestito, per poter imparare una professione. Egli chiede quindi a noi un aiuto non solo per carità, ma anche per giustizia.
La prego quindi di informare i suoi buoni parrocchiani su questa opera così interessante, di insistere presso le persone più benestanti, e di destinare la questua di una domenica a questo fine. Il ricavato della questua verrà mandato in Curia con un mezzo sicuro e con un biglietto che indichi la somma e il luogo da cui proviene. Mentre i protestanti tentano di aprire un tempio per insegnare l'errore che porterà alla perdizione i loro fratelli, i cattolici non saranno capaci di contribuire alla costruzione di una chiesa in cui sarà insegnata la verità e la via della salvezza a loro, ai loro fratelli, ai loro compatrioti? Ho la viva speranza di poter sostenere degnamente l'opera dell'uomo di Dio con le offerte che ci perverranno. Spero pure di toccare con mano un segno della buona volontà illuminata e riconoscente dei miei diocesani verso un'opera che è santa, utile, anzi necessaria ai tempi in cui viviamo. Colgo questa opportunità per riaffermarvi la mia stima e il mio affetto.
Biella 13 settembre 1851. Dev.mo Giovanni Pietro vescovo ».
La prima lotteria
La questua fruttò mille lire. Ma furono gocce d'acqua su un terreno riarso. Quindi mi misi a pensare a una lotteria pubblica. Riuscimmo a raccogliere 3300 doni. Il Papa, il Re, la Regina Madre, la Regina Consorte e tutta la Corte Sovrana si segnalarono mandando doni.
Lo spaccio dei biglietti (ciascuno costava mezza lira) fu portato a termine. Quando si fece la pubblica estrazione al Palazzo di Città, molti cercavano ancora di comprare biglietti, disposti a pagarli dieci volte il loro prezzo.
(A questo punto, don Bosco suggerisce all'eventuale trascrittore delle sue memorie. « Si può mettere il Programma e il Regolamento di questa Lotteria». Ma mi sembrano documenti aridi e burocratici, senza particolare interesse).
Molti vincitori lasciarono il loro premio a vantaggio della chiesa. Questo ci procurò un ulteriore aiuto. Le spese furono ingenti, ma la somma netta ricavata fu di lire 26 mila.
17. « GUAI A TORINO IL 26 aprile! »
Lo scoppio della polveriera
Il 26 aprile 1852, mentre gli oggetti della lotteria erano esposti al pubblico, avvenne lo scoppio della polveriera che si trovava presso il cimitero di San Pietro in Vincoli. L'urto che seguì fu violentissimo e terribile. Molti edifici, vicini e lontani, furono scossi come da un terremoto, e riportarono gravi danni. Tra i lavoratori della polveriera, ventotto rimasero uccisi. Il danno sarebbe stato molto maggiore se un sergente di nome Sacchi, esponendo la vita a grave pericolo, non avesse impedito al fuoco di raggiungere un altro deposito di polveri, di proporzioni molto maggiori. Se fosse esploso anche quel secondo deposito, l'intera città di Torino avrebbe potuto essere rovinata.
La casa dell'Oratorio, che era stata costruita male, ne soffrì molto. I deputati, per aiutarne la riparazione, ci mandarono un'offerta di lire 300.
Voglio raccontare a questo proposito un fatto che riguarda un nostro ragazzo artigiano, Gabriele Fascio. L'anno precedente questo ragazzo si era ammalato gravemente, ed era arrivato in fin di vita. Smaniando sotto l'effetto della febbre alta, ripeteva: - Guai a Torino! Guai a Torino!
I compagni che l'assistevano gli domandarono: - Ma perché?
- Perché è minacciata da un grave disastro. - Quale?
- Un orribile terremoto.
- Quando avverrà?
- L'anno prossimo. Guai a Torino il 26 aprile! - Che cosa dobbiamo fare?
- Pregare San Luigi che protegga l'Oratorio e quelli che vi abitano.
Fu allora che, per iniziativa dei ragazzi, aggiungemmo alle preghiere che recitavamo mattino e sera, un Pater, Ave e Gloria in onore di San Luigi. In realtà la nostra casa, pensando al pericolo che corremmo, subì danni poco gravi, e nessun giovane rimase. ferito.
Poesie e feste per la nuova chiesa
Intanto i lavori della Chiesa di San Francesco di Sales progredivano velocemente. In undici mesi giunsero al termine. Il 20 giugno 1852 ci fu la consacrazione, con una festa che per noi fu più unica che rara.
All'entrata del cortile avevamo elevato un arco di altezza colossale. Sopra di esso, con lettere cubitali, avevamo scritto:
In caratteri dorati scriveremo in tutti i lati
« Viva eterno questo dì ».
Il maestro Giuseppe Blanchi, che ricordo con gratitudine, aveva musicato alcuni versi che divennero l'inno ufficiale di quei giorni. Si sentivano cantare in ogni angolo della casa:
Prima il sole dàll'occaso
fia che torni al suo oriente,
ogni fiume a sua sorgente
prima indietro tornerà,
che da noi ci si cancelli
questo dì, che tra i più belli
tra di noi sempre sarà.
Si recitò e si cantò con entusiasmo anche un'altra poesia:
Come augel di ramo in ramo
Va cercando albergo fido,
per poggiare ansiosoil nido
e tranquillo riposar;
Così noi oltre dieci anni
questo nido abbiam cercato,
né dal ciel mai ci fu dato
di poterlo ritrovar.
Ora un prato, or un giardino,
or cortile, stanza o strada,
talor piazza oppur contrada
Oratorio era per noi.
Quando alfin pietoso Iddio
volse a noi benigno un guardo,
e due lustri di ritardo largamente compensò.
Compensò... ci dié le scuole,
un giardino per trastulli,
quasi nido per fanciulli
una casa apparecchiò.
Molti giornali parlarono della nostra festa.
Terminata la chiesa, occorrevano arredi di ogni genere. La carità dei cittadini ci venne in aiuto. Il commendator Giuseppe Duprè fece abbellire la cappella dedicata a San Luigi, e comperò l'altare di marmo che adorna ancora la cappella. Un altro benefattore fece costruire l'orchestra, su cui fu collocato il piccolo organo che avrebbe rallegrato le funzioni dei giovani esterni. Il signor Michele Scannagatti comprò tutti i candelieri occorrenti. Il marchese Fassati fece costruire l'altare della Madonna, lo fece adomare di candelieri di bronzo, e più tardi procurò la statua della Madonna. Don Cafasso fece costruire il pulpito. L'altare maggiore fu procurato dal dottor Francesco Vallauri, e completato da suo figlio, il sacerdote don Pietro. Così la nuova chiesa, in breve tempo, ebbe tutto il necessario per le celebrazioni private e per le feste solenni.
La Società di Mutuo Soccorso
Il primo giugno di quello stesso anno cominciammo la « Società di Mutuo Soccorso », per impedire che i nostri giovani lavoratori andassero ad iscriversi alla società chiamata « degli Operai », che fin dall'inizio manifestò carattere antireligioso. Servì molto bene per i nostri scopi. Più tardi (nel 1857) si mutò in « Conferenza di San Vincenzo de' Paoli annessa », che oggi, nel 1875, continua ad esistere.
18. UN TERRIBILE CROLLO NELLA NOTTE
Il diluvio sui muri freschi
La nuova chiesa di San Francesco di Sales con la sua sacrestia e il suo campanile era proprio ciò che ci voleva per le celebrazioni festive dei ragazzi. Era anche un ottimo luogo per le scuole serali e diurne. Ma rimaneva un altro problema da risolvere: dove ospitare tutti i ragazzi poveri che ogni giorno mi chiedevano di accettarli come interni? Il problema era aggravato dal fatto che lo scoppio della polveriera, avvenuto un anno prima, aveva mezzo rovinato la casa comprata da Pinardi.
In quel momento di necessità urgente presi la decisione di costruire un nuovo fabbricato. Per continuare a utilizzare i vecchi locali, si cominciò a costruire il nuovo braccio come un prolungamento della casa Pinardi. (È il tratto che, dalla scala che ora é al centro della casa, va fino alle « camerette di don Bosco »). Si era in autunno inoltrato, ma i lavori procedettero con molta sveltezza, e presto si giunse al tetto. Erano già state collocate al loro posto le travi del tetto, i listelli erano stati inchiodati, le tegole erano ammucchiate sulle travi e stavano per essere collocate, quando un violento acquazzone fece interrompere i lavori. L'acqua diluviò più giorni e più notti, e scorrendo e colando rose la calcina fresca, lasciando le mura di soli mattoni e ciottoli lavati.
Ognuno fugge senza sapere dove va
Era circa la mezzanotte. Tutti eravamo a riposare. Ed ecco: si ode un rumore violento, che si fa di momento in momento più intenso e spaventoso. Ognuno si sveglia e, non sapendo cosa stia capitando, pieno di terrore si avvolge nelle coperte o nelle lenzuola e esce dal dormitorio. Nella confusione, ognuno fugge senza sapere dove, solo con il desiderio di allontanarsi dal pericolo che incombe. Cresce il disordine, il fracasso. L'arma-tura del tetto, le tegole, i muri cadono rovinosamente, con immenso disastro. La nuova costruzione poggiava contro il muro dell'edificio basso e vecchio, e c'era pericolo che tutti rimanessero schiacciati sotto le rovine cadenti. Ma non ci fu nessuna disgrazia personale, al di fuori di quell'orrendo frastuono che tanto ci spaventò.
Arrivato il mattino, giunse una commissione di ingegneri inviati dal Municipio per un sopralluogo. Il cavalier Gabbetti, vedendo un alto pilastro che era stato scalzato dalla sua base e pendeva sopra un dormitorio, esclamò:
- Andate pure a ringraziare la Madonna Consolata. Quel pilastro si regge per miracolo. Se fosse caduto avrebbe sepolto sotto le rovine don Bosco e i trenta ragazzi che dormivano nel camerone sottostante.
I lavori erano a carico dell'impresa, e chi ricevette maggior danno fu il capomastro. Il danno nostro fu valutato in lire 10 mila. Il fatto avvenne alla mezzanotte del 2 dicembre 1852.
In mezzo agli avvenimenti tristi che accompagnano la vita umana, c'è sempre la mano del buon Dio che mitiga le nostre sventure. Se quel disastro fosse capitato due ore prima, avrebbe sepolto gli allievi delle scuole serali. Queste terminavano alle dieci, e gli alunni, quando uscivano dalle classi, scorrazzavano per oltre mezz'ora sotto le volte dell'edificio in costruzione. Erano circa trecento. Il disastro iniziò un paio d'ore dopo che se n'erano andati.
E adesso, che fare?
La stagione era molto inoltrata. Non si poteva né terminare né ricominciare i lavori. Cosa fare per risolvere la nostra situazione? Dove alloggiare tanti ragazzi in una casa piccola e mezzo rovinata?
Abbiamo fatto di necessità virtù. Rafforzammo i muri dell'antica cappella-tettoia e la trasformammo in dormitorio. Le scuole le trasferimmo nella chiesa nuova, che cominciò ad essere chiesa nei giorni festivi, e collegio nel resto della settimana. In quell'anno fu pure costruito il campanile che fiancheggia la chiesa di san Francesco di Sales. Il signor Michele Scannagatti, nostro benefattore, ci regalò tutti i candelieri dell'altare maggiore, che formano ancor oggi uno degli ornamenti più belli di questa chiesa.
19. 1853. NASCONO LE « LETTURE CATTOLICHE »
65 ragazzi e molti benefattori
Appena la stagione lo permise, si ricominciò la costruzione. I lavori progredirono alacremente, e in ottobre l'edificio era compiuto. Avevamo un bisogno urgente di locali, e siamo volati a occuparli. Io per primo andai ad occupare la camera che occupo ancor oggi, grazie a Dio. Potemmo stabilire un posto definitivo e conveniente per il refettorio, il dormitorio e le scuole. Il numero degli allievi fu portato a 65.
Molti benefattori continuarono ad aiutarci. Il cavalier Giuseppe Duprè fece abbellire l'altare e stuccare la Cappella di San Luigi. Procurò pure la balaustra di marmo per la stessa cappella. Il marchese Domenico Frassati regalò i candelieri in bronzo dorato e la piccola balaustra per l'altare della Madonna. Il conte Cays, nostro insigne benefattore, eletto per la seconda volta Priore della Compagnia di San Luigi, ci pagò un vecchio debito col panettiere che minacciava di non fornirci più il pane: milleduecento lire.
Comprò pure una campana per il nostro campanile. Quella campana fu occasione di una piccola festa. A benedirla venne don Gattino, il nostro parroco, che fece anche un breve discorso alla gente venuta dalla città. Dopo la funzione sacra fu rappresentata una commedia che portò allegria a tutti. Lo stesso conte Cays ci regalò in quell'anno il baldacchino (per la processione col Santissimo Sacramento) adornato di preziosi drappi, e altri attrezzi per la chiesa.
Tempo per incontrarsi con Dio
Ora la chiesa di San Francesco di Sales aveva finalmente le cose più necessarie alle celebrazioni. Potemmo così realizzare un desiderio che da tanto tempo portavamo nel cuore: la celebrazione delle Quarantore (l'esposizione solenne dell'Eucaristia per quarant'ore consecutive, accompagnata da letture della parola di Dio, predicazioni, adorazione). Non c'era grande ricchezza di addobbi, ma ci fu uno straordinario intervento di fedeli.
Per dare a tutti la possibilità di incontrarsi con Dio, dopo le Quarantore organizzammo una settimana di predicazione e di confessioni. Venne a confessarsi una vera moltitudine di persone. Il successo spirituale di quell'iniziativa fu così straordinario che anche negli anni seguenti continuammo le Quarantore, la predicazione e la disponibilità per le confessioni. La gente partecipò sempre numerosissima.
Gli ebrei e i protestanti iniziano la propaganda
Quell'anno, nel mese di marzo, cominciò la pubblicazione mensile delle Letture Cattoliche. Nel 1847, quando iniziò l'emancipazione degli ebrei e dei protestanti, divenne necessario mettere in mano alla gente, e specialmente ai giovani, qualche mezzo di difesa. Con l'atto di emancipazione, sembrava che gli ebrei e i protestanti ricevessero dal governo soltanto la libertà di fede, non quella di danneggiare la religione cattolica.
Ma i protestanti non la pensavano così. Per la loro campagna di proselitismo pubblicavano tre giornali (La buona NoVélla, La luce evangelica, il rogantino piemontese) e molti libri sulla Bibbia e su altri argomenti. Usarono pure altri mezzi concreti: impieghi e posti di lavoro, aiuti in denaro, abiti, viveri per chi frequentava le loro scuole, le loro conferenze, il loro tempio.
II governo sapeva tutto e lasciava fare, e col suo silenzio li proteggeva. Da parte loro, i protestanti erano forniti di molti mezzi finanziari, ed erano preparati a una massiccia campagna di propaganda. I cattolici, invece, confidando nelle leggi civili che fino allora li avevano protetti e difesi, possedevano soltanto qualche giornale, qualche opera di cultura. Nessun periodico, nessun libro da mettere in mano alla gente semplice.
Don Bosco inizia la sua «battaglia»
Spinto dalla necessità, in quei mesi ho cominciato a scrivere alcune pagine schematiche sulla Chiesa Cattolica, poi alcuni manifestini intitolati Ricordi per i Cattolici. Mi misi a distribuirli tra i giovani e tra gli adulti specialmente durante gli Esercizi Spirituali e le Missioni popolari. Quei fogli e libretti furono accolti con avidità, e in breve se ne distribuirono migliaia di migliaia.
Questo fatto mi persuase che era necessario inventare qualche mezzo popolare con cui diffondere la conoscenza facile delle verità fondamentali della religione cattolica. Feci quindi stampare un libretto dal titolo Avvisi ai Cattolici,' che aveva lo scopo di mettere in guardia i cattolici dalle insidie protestanti. La diffusione di quel librettino fu straordinaria: in due anni più di duecentomila copie. Questo successo fece piacere ai buoni, ma infuriò i protestanti, che pensavano di non avere concorrenti nella propaganda religiosa. 88
« Io non metto la mia firma lì sotto »
Mi persuasi sempre di più che era urgente preparare e stampare libri per il popolo, ed elaborai il progetto delle Letture Cattoliche. Preparati i primi fascicoli volevo pubblicarli subito, ma sorse una difficoltà che non avevo né previsto né immaginato. Nessun vescovo voleva tenere a battesimo questa iniziativa. Quelli di Vercelli, Biella e Casale rifiutarono dicendo che era pericoloso lanciarsi in campo aperto contro i protestanti. L'arcivescovo mons. Fransoni, che risiedeva in quel tempo a Lione, approvava e raccomandava l'iniziativa, ma nessuno voleva mettere il suo nome nemmeno come « revisore ecclesiastico ».
Dietro richiesta dell'Arcivescovo, solo il canonico Giuseppe Zappata, Vicario generale, lesse e rivide metà del primo fascicolo. Poi mi restitui il manoscritto dicendomi:
- Si riprenda il suo lavoro. Io non me la sento di mettere la mia firma lì sotto. L'assassinio di Ximenes e di Palma sono fatti troppo recenti. (L'abate Ximenes, direttore del giornale cattolico « Il Labaro », era stato assassinato. Monsignor Palma, scrittore di quel giornale, era stato pure ucciso con un colpo di fucile nelle stanze del Quirinale, [palazzo del Papa. Entrambi i delitti erano stati compiuti nel 1848]). Lei sfida i nemici, li attacca frontalmente. Io invece preferisco lasciare aperta una strada per un'eventuale ritirata strategica.
D'accordo con il Vicario Generale esposi ogni cosa all'Arcivescovo. In risposta ebbi una lettera da portare a monsignor Moreno, vescovo di Ivrea. In essa l'Arcivescovo lo pregava di prendere sotto la sua protezione le Letture Cattoliche, di esserne il revisore ecclesiastico e di metterle sotto la sua autorità. Mons. Moreno accettò volentieri. Delegò l'avvocato Pinoli, suo Vicario generale, per la revisione ecclesiastica, ma non mise in pubblico il suo nome.
Organizzammo insieme un programma, e con il primo marzo 1853 usci il primo fascicolo di Il Cattolico Istruito nella sua Religione.
20. 1854. A TU PER TU CON I PROTESTANTI
« Scendevano a turno a Valdocco a disputare con me »
Le Letture Cattoliche furono accolte con consensi vastissimi. Il numero dei lettori fu straordinario. Ma questo suscitò l'ira dei protestanti. Provarono a combatterle con i loro giornali, con le loro Letture Evangeliche, ma non trovarono lettori. Allora passarono ad ogni sorta di attacco contro il povero don Bosco. Scendevano a turno a Valdocco, a disputare con me, persuasi che nessuno potesse resistere ai loro argomenti. I preti cattoli-ci, secondo loro, erano tutti gonzi, e con due parole si potevano mettere nel sacco.
Venivano a volte da soli, a volte in due, altre volte a gruppi. Io li ascoltavo sempre, e siccome non sapevano rispondere alle mie. domande imbarazzanti, raccomandavo che si facessero rispondere dai loro ministri, e poi mi riferissero le risposte.
Vennero Amedeo Bert, Meille, l'evangelicó Pugno, poi tanti altri. Cercavano di persuadermi a non parlare, a interrompere la stampa dei nostri libretti. Ma non ottennero nulla. Questo accese la loro ira. Credo opportuno riferire alcuni fatti.
« Lasci stare le Letture Cattoliche »
Una domenica sera del mese di maggio mi furono annunciati due signori che venivano per parlarmi. Entrarono e si complimentarono a lungo con me. Poi uno cominciò a dire:
- Lei, signor Teologo, ha dalla natura un grande dono: quello di farsi capire e leggere dal popolo. Perciò dovrebbe sfruttare questo dono prezioso in cose utili per l'umanità, mettendosi al servizio della scienza, delle arti, del commercio.
- Il mio tempo è tutto assorbito dalle Letture Cattoliche, a cui voglio dedicare ogni mia forza.
- Sarebbe molto meglio che scrivesse qualche buon libro per la gioventù: un volume di storia antica, un trattato di geografia, o di fisica, o di geometria.
- E perché, secondo voi, non dovrei dedicarmi alle Letture Cattoliche?
- Perché sono argomenti fritti e rifritti.
- Questi argomenti sono già stati trattati in opere di cultura, è vero. Ma nessuno li ha affrontati in maniera popolare. Ed è proprio questo lo scopo delle Letture Cattoliche.
- Questo lavoro, però, non le porta nessun vantaggio materiale. Se si mette invece a scrivere i libri che le abbiamo suggerito, avrà un notevole guadagno da impiegare nel meraviglioso istituto che la Provvidenza le ha affidato. Possiamo addirittura anticiparle una buona somma (mi porsero quattro biglietti da mille lire). E le assicuriamo che non sarà la nostra ultima offerta: le porteremo somme maggiori.
- Perché volete darmi tanto denaro?
- Per incoraggiarla a scrivere le opere che abbiamo suggerito, e per collaborare al suo splendido Oratorio.
- Scusatemi, signori, se non accetto il vostro denaro. Io non scriverò nessun altro libro. Continuerò a lavorare alle Letture Cattoliche.
- Ma è un lavoro inutile.
- Se è un lavoro inutile, perché preoccuparsi tanto? Perché spendere denaro per farmi smettere?
«Se esce di casa, è sicuro di rientrare?»
- Pensi bene a quello che fa. Rifiutando lei danneggia la sua opera, si espone a conseguenze e a pericoli...
- Signori, capisco molto bene quel che volete dirmi. Ma vi dico chiaro e tondo che quando sto dalla parte della verità non ho paura di nessuno. Facendomi prete, mi sono consacrato al bene della Chiesa e della povera gente. E intendo continuare a lavorare per questo, anche scrivendo e stampando le Letture Cattoliche.
- Lei fa male - dissero con voce minacciosa alzandosi in piedi. - Lei fa male, lei ci insulta. Se esce di casa, è sicuro di rientrare?
- Voi non conoscete i preti cattolici, signori. Finché vivono, lavorano per compiere il loro dovere. Se per far questo dovessero morire, per loro sarebbe la più grande fortuna, la massima gloria.
In quel momento li vidi così irritati che temevo mi picchiassero. Mi alzai, misi una sedia tra me e loro, e aggiunsi:
- Se volessi usare la forza, non avrei nessuna paura di voi. Ma la forza dei preti è la pazienza e il perdono. Andatevene. Aprii la porta della camera:
- Buzzetti, dissi, conduci questi signori fino al cancello. Non conoscono bene la strada.
Rimasero confusi. Borbottarono:
- Ci rivedremo in un momento più opportuno.
Se ne uscirono con la faccia e gli occhi rossi di sdegno. Questo fatto fu pubblicato da alcuni giornali, e fu riferito in lungo e in largo dall'Armonia.
21. CONGIURATI BALORDI AL « CUOR D'ORO »
Vino e veleno
Sembrava ci fosse una congiura segreta contro di me, ordita dai protestanti o dalla massoneria. Racconterò in breve altri fatti.
Una sera, mentre ero in mezzo ai ragazzi a fare scuola, due uomini vennero a chiamarmi in fretta: all'osteria del Cuor d'Oro c'era un moribondo. Ci andai subito, ma volli essere accompagnato da alcuni dei giovani più grandi.
- Non occorre che disturbi i suoi allievi - mi dissero. - La condurremo dal malato e poi la riaccompagneremo a casa. La persona malata probabilmente non gradirà la presenza di estranei.
- Non preoccupatevi - risposi. - Questi giovani faranno una breve passeggiata e si fermeranno ai piedi della scala mentre io confesserò il malato.
Giunti però alla casa del Cuor d'Oro mi dissero:
- Entri un momento. Si riposi un istante. Intanto andiamo ad avvertire il malato del suo arrivo.
Mi condussero in una stanza a pian terreno, dove parecchi buontemponi, dopo aver fatto cena, stavano mangiando castagne. Mi accolsero con gesti e parole di grande ammirazione. Vollero che mi servissi e mangiassi con loro qualche castagna. Rifiutai, dicendo che avevo appena finito la mia cena.
- Almeno berrà un bicchiere del nostro vino - protestarono. - Le piacerà, viene dalle parti di Asti.
- Non me la sento. Non bevo mai fuori pasto. Mi farebbe male.
-Un sorso non fa male a nessuno.
« Deve bere per amore o per forza »
Versarono vino per tutti, ma giunti a me, uno si recò a prendere una bottiglia diversa. Era evidente il loro disegno malvagio. Tuttavia presi il bicchiere in mano, dissi « Salute », ma invece di bere lo rimisi sulla tavola.
- Non faccia questo! è un dispiacere! - disse uno.
- è un insulto - aggiunse un altro. - Non può rifiutare. - Ma io non ho voglia di bere.
- Bisogna che beva a qualunque costo!
Ciò detto, uno mi bloccò la spalla sinistra, un altro la spalla destra.
- Non possiamo tollerare questo insulto. Deve bere per amore o per forza.
- Se volete assolutamente che beva, lasciatemi almeno libere le braccia. E siccome io non posso bere, lo darò a uno dei miei giovani, che berrà al mio posto.
Pronunciando queste parole, feci un lungo passo verso la porta, la spalancai e invitai i miei giovanotti ad entrare.
- Non occorre. Andiamo subito ad avvisare il malato. Ma dica a questi giovanotti di tornare in fondo alla scala.
Non avrei certo dato a nessuno dei miei ragazzi quel bicchiere, ma feci tutta quella commedia per evitare che mi facessero bere quel vino avvelenato.
Mi condussero poi in una camera al secondo piano, dove vidi coricato nel letto non un malato, ma quello stesso farabutto che mi era venuto a chiamare. Dopo aver ascoltato alcune mie domande, scoppiò a ridere sgangheratamente, e disse:
- Mi confesserò poi domani mattina. Ce ne tornammo a casa.
Una persona amica. fece delle indagini intorno a quella gente e alle loro intenzioni, e mi riferì che un tale aveva loro pagato una buona cena a patto che mi avessero costretto a bere del vino che aveva preparato per me.
22. « VOLEVANO FARMI LA FESTA »
160 lire per uccidere don Bosco
Sembrano favole gli attentati che racconto, ma purtroppo sono tristi verità, ed ebbero moltissimi testimoni. Eccone un altro più strano ancora.
Una sera di agosto, alle sei pomeridiane, ero presso il cancello dell'Oratorio circondato dai miei giovani, quando si alza un grido:
- Un assassino! Un assassino!
Un tale che io conosco benissimo, e al quale ho fatto del bene, corre verso di me furioso, in maniche di camicia, brandendo un lungo coltello. Grida:
- Voglio don Bosco! Voglio don Bosco!
Tutti si misero a fuggire. Nel parapiglia, quel tale mi confuse con un chierico che portava la veste nera come me, e si mise ad inseguirlo. Quando si accorse dello sbaglio, si girò infuriato a cercarmi. In quell'attimo avevo avuto il tempo di rifugiarmi su per le scale di casa Pinardi. Avevo appena fatto scattare la serratura del piccolo cancello che faceva da porta, quando giunse quel tale. Si mise a battere, a gridare, a mordere le sbarre come un pazzo. Ma era tutto inutile: io ero in salvo. I miei giovani volevano gettarsi insieme contro quel miserabile e farlo a pezzi, ma io gridai che lo lasciassero stare, e mi obbedirono. Mandai alcuni ad avvertire la pubblica sicurezza, la questura, i carabinieri. Non arrivò nessuno. Solo alle 21,30, finalmente, arrivarono due poliziotti che catturarono quel farabutto e lo portarono in questura.
Il giorno dopo, il questore mandò un poliziotto a domandarmi se perdonavo quello sciagurato. Risposi che perdonavo come sempre, ma che, in nome della legge, chiedevo alle autorità di tutelare meglio le persone e le abitazioni dei cittadini. Sembra incredibile, eppure il giorno dopo, alla stessa ora, quel delinquente mi aspettava di nuovo, a poca distanza dalla mia casa.
Un mio amico, vedendo che le autorità non volevano difendermi, cercò di parlare a quel disgraziato. Rispose:
- Io sono pagato. Datemi ciò che mi danno quelli che mi mandano, e lascerò in pace don Bosco.
Gli furono pagate 80 lire di fitto scaduto e altre 80 di fitto anticipato, e quella triste commedia finì. Ma ne cominciò subito un'altra, che sto per raccontare.
Nel buio una grandine di bastonate
Circa un mese dopo, una domenica sera, fui chiamato urgentemente in casa Sardi, vicino al Rifugio. C’era da confessare una malata in fin di vita. Messo in allarme dai fatti precedenti, invitai ad accompagnarmi parecchi giovani tra i più grandi.
Chi era venuto a chiamarmi diceva:
- Non occorre, l’accompagneremo noi. Lasci che i giovani vadano a giocare.
Ma queste parole mi fecero sospettare di più. Lasciai alcuni giovani ai piedi della scala. Giuseppe Buzzetti e Giacinto Arnaud, invece, mi accompagnarono al primo piano, sul pianerottolo della scala, a poca distanza dall’uscio dell’ammalata.
Entrai, e vidi una donna ansante, come se stesse per mandare l’ultimo respiro. Invitai le quattro persone presenti ad allontanarsi per iniziare la confessione.
- Prima di confessarmi – strillò la vecchia – voglio che quel bestione mi domandi scusa delle calunnie che ha detto su di me.
- No! – rispose uno dei presenti.
- Silenzio! – gridò un altro alzandosi in piedi. Anche gli altri si alzarono, e cominciò una litigata furibonda.
- Sì, no, ti strozzo, ti scanno – e mescolate a quelle parole orrende imprecazioni e bestemmie. Nel bel mezzo di quella colata di parole diaboliche, si spensero i lumi. Mentre il fracasso continuava, una pioggia di bastonate si abbattè nella mia direzione. Capii al volo il tranello: volevano farmi la festa. Non avevo il tempo né di pensare né di riflettere. Afferrai una sedia, me la misi in testa per parare le bastonate e mi precipitai verso la porta. I colpi di bastone grandinavano sulla sedia.
Uscito da quella casa del diavolo, mi lanciai tra le braccia di miei giovani, che avvertiti dal rumore e dagli schiamazzi stavano tentando di forzare la porta. Non riportai gravi ferite. Solo una bastonata mi colpì il pollice della mano sinistra che stringeva lo schienale della sedia, e mi portò via l'unghia con mezza falange. Conservo ancora la cicatrice. Il male peggiore fu lo spavento.
Non ho mai potuto sapere il vero motivo di quegli attentati. Ma penso che l'intenzione era di farmi smettere - come essi dicevano - di calunniare i protestanti.
Circa un mese dopo, una domenica sera, fui chiamato urgentemente in casa Sardi, vicino al Rifugio. C'era da confessare una malata in fin di vita. Messo in allarme dai fatti prece-denti, invitai ad accompagnarmi parecchi giovani tra i più grandi. Chi era venuto a chiamarmi diceva:
- Non occorre, l'accompagneremo noi. Lasci che i giovani vadano a giocare.
Ma queste parole mi fecero sospettare ancora di più. Lasciai alcuni giovani ai piedi della scala. Giuseppe Buzzetti e Giacinto Arnaud, invece, mi accompagnarono al primo piano, sul pianerottolo della scala, a poca distanza dall'uscio dell'ammalata. Entrai, e vidi una donna ansante, come se stesse per mandare l'ultimo respiro. Invitai le quattro persone presenti ad allontanarsi per iniziare la confessione.
- Prima di confessarmi - strillò la vecchia - voglio che quel bestione mi domandi scusa delle calunnie che ha detto su di me.
- No! - rispose uno dei presenti.
- Silenzio! - gridò un altro alzandosi in piedi. Anche gli altri si alzarono, e cominciò una litigata furibonda.
- Sì, no, ti strozzo, ti scanno - e mescolate a quelle parole orrende imprecazioni e bestemmie. Nel bel mezzo di quella colata di parole diaboliche, si spensero i lumi. Mentre il fracasso continuava, una pioggia di bastonate si abbatté nella mia direzione. Capii al volo il tranello: volevano farmi la festa. Non avevo il tempo né di pensare né di riflettere. Afferrai una sedia, me la misi in testa per parare le bastonate e mi precipitai verso la porta. I colpi di bastone grandinavano sulla sedia.
Uscito da quella casa del diavolo, mi lanciai tra le braccia di miei giovani, che avvertiti dal rumore e dagli schiamazzi stavano tentando di forzare la porta. Non riportai gravi ferite. Solo una bastonata mi colpì il pollice della mano sinistra che stringeva della scheda, e mi portò via l’unghia con mezza falange. Conservo ancora la cicatrice. Il male peggiore fu lo spavento. Non ho mai potuto sapere il vero motivo di quegli attentati. Ma penso che l’intenzione era di farmi smettere – come essi dicevano – di calunniare i protestanti. 93
23. IL GRIGIO
« Quando mi vedo accanto un grosso cane »
Il cane Grigio è stato oggetto di molte discussioni e di varie supposizioni. Non pochi di voi l'hanno visto e anche accarezzato. Ora io lascio da parte le strane storie che si raccontano su questo cane, ed espongo ciò che è la pura verità.
I frequenti brutti scherzi da cui ero preso di mira mi consigliavano a non camminare da solo nell'andare e venire dalla città di Torino. A quel tempo l'ospedale psichiatrico era l'ultimo edificio della città. Di lì, scendendo verso l'Oratorio, c'era un lungo tratto di campagna ingombra di cespugli e di acacie. Una sera oscura, piuttosto sul tardi, venivo a casa solo soletto, non senza un po' di paura, quando mi vidi accanto un grosso cane che a prima vista mi spaventò. Ma non ringhiò contro di me, anzi mi fece le feste come se fossi il suo padrone. Abbiamo fatto amicizia e mi accompagnò fino all'Oratorio. Ciò che avvenne quella sera si ripeté molte altre volte. Posso dire che il Grigio mi ha aiutato parecchie volte in maniera straordinaria. Esporrò alcuni fatti.
Sul finire del novembe 1854, una sera nebbiosa e piovosa, venivo solo dalla città. Per non percorrere un lungo tratto disabitato, discendevo per la via che dal santuario della Consolata porta all'Opera del Cottolengo. A un tratto mi accorsi che due uomini camminavano a poca distanza da me. Acceleravano o rallentavano il passo ogni volta che io acceleravo o rallentavo. Tentai di portarmi dalla parte opposta per evitare di incontrarli, ma essi lestamente si riportarono davanti a me. Provai a tornare indietro, ma era troppo tardi: con due balzi improvvisi, in silenzio, mi gettarono un mantello sulla testa. Mi sforzai di non lasciarmi avviluppare nel mantello, ma non ci riuscii. Uno tentò di turarmi la bocca con un fazzoletto. Volevo gridare, ma non ci riuscivo più. In quel momento apparve il Grigio. Urlando si lanciò con le zampe contro la faccia del primo, poi azzannò l'altro. Ora dovevano pensare al cane prima che a me.
- Chiami questo cane! - gridarono tremanti. - Lo chiamo se mi lasciate andare in pace. - Lo chiami subito! - implorarono.
Il Grigio continuava a urlare come un lupo arrabbiato. Andarono via lesti, e il Grigio, standomi a fianco, mi accompagnò fino all'Opera del Cottolengo. Mi ripresi dallo spavento, e gradii molto una bevanda che i religiosi del Cottolengo mi offrirono con carità. Quindi, ben scortato, tornai a casa.
« Non fategli del male. È il cane di don Bosco »
Tutte le sere in cui non ero accompagnato, entrato tra gli alberi, vedevo spuntare il Grigio da qualche punto della strada. I giovani dell'Oratorio lo videro molte volte. Una sera entrò nel cortile e fu il protagonista di una lunga scena. Qualcuno lo voleva allontanare con un bastone, altri con dei sassi.
Giuseppe Buzzetti intervenne:
- Non fategli del male. È il cane di don Bosco.
Allora si misero ad accarezzarlo e a fargli festa. Lo accompagnarono da me. Ero in refettorio e facevo cena con alcuni preti e con mia madre. Lo guardarono tutti sbigottiti.
- Non temete, dissi, è il mio Grigio. Lasciatelo venire. Difatti, compiendo un largo giro intorno alla tavola, mi venne vicino tutto festoso. Gli feci una carezza e gli offrii minestra, pane e companatico. Rifiutò tutto.
- Allora cosa vuoi? - mormorai. Egli mosse le orecchie e agitò la coda. -- Se non vuoi mangiare, va' in pace - dissi. Egli, sempre festoso, appoggiò la testa sulla mia tovaglia co-me volesse parlare e augurarmi buona sera. Poi si lasciò accompagnare dai ragazzi, allegri e meravigliati, fuori della porta. Mi ricordo che quella sera ero venuto a casa tardi, e un amico mi aveva portato nella sua carrozza. 94
Il Grigio non c'era più
L'ultima volta che vidi il Grigio fu nel 1866, mentre mi recavo da Morialdo a Moncucco a casa di Luigi Moglia, mio amico. Il parroco di Buttigliera mi aveva voluto accompagnare per un tratto di strada, e così la notte mi sorprese a metà cammino. - Se ci fosse qui il mio Grigio - dissi tra me - sarei molto più tranquillo.
Subito dopo mi arrampicai su per un prato ripido, per godermi l'ultimo sprazzo di luce. In quel momento il Grigio mi venne incontro con gran festa, e mi accompagnò per il resto della strada, cioè per tre chilometri.
Giunto alla casa dei Moglia, dov'ero atteso, videro il mio cane e mi pregarono di passare dietro la casa, perché il Grigio non facesse baruffa con i due cani che erano nel cortile.
- Si sbranerebbero a vicenda - mi disse Luigi Moglia. Parlai a lungo con tutta la famiglia, poi andammo a cena, e il mio Grigio fu lasciato in un angolo. Quando finimmo di cenare, Luigi disse:
- Bisogna portare da cena anche al Grigio.
Preso un poco di cibo, lo portammo al cane. Lo cercammo in ogni angolo della casa, ma non c'era più. Si meravigliarono tutti, perché le porte e le finestre erano chiuse, e i cani nel cortile non avevano dato alcun segno della sua uscita. Cercammo anche nelle stanze dei piani superiori, ma nessuno lo trovò. È questa l'ultima notizia che ebbi del Grigio, il cane che è stato argomento di tante ricerche e discussioni. Non potei mai conoscere il suo padrone. So soltanto che quell'animale, in tanti pericoli, fu per me una vera provvidenza.
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