Benedetto XVI è il più vecchio Pontefice regnante dai tempi di Leone XIII. Rivendica di essere spiritualmente libero di abdicare. Noterelle apologetiche sul significato del gesto.
Le dimissioni del Papa regnante non sono all’ordine del giorno. La chiesa è l’ordine dei secoli, non dei giorni. Quando Giovanni Paolo II portò alle estreme conseguenze la sua teologia del corpo offrendo la misura del dolore personale come pegno universale di sofferenza e riscatto scrivemmo contro le vociferazioni più o meno curiali intorno alla imminenza o auspicabilità delle dimissioni del Pontefice. Non è questione di diritto divino, come per i monarchi, ma il vicariato di Gesù Cristo in terra è tema troppo delicato per affidarlo alle cure della medicina, alle diagnosi, alle fasi terminali dell’esistenza di un regno e del suo titolare per diritto elettivo assistito, letteralmente o metaforicamente, dallo Spirito Santo. L’afasia o l’immobilità di un Papa sono un modo di parlare e di muoversi, sono una modulazione omiletica, una via di predicazione e conversione, e questo ci sembrava appena ovvio nel caso di Karol Wojtyla, atleta di Dio impedito nelle facoltà fisiche e indebolito nella pratica della lucidità, ma di singolare, potentissimo e (forse) irrinunciabile carisma. Le dimissioni del Papa sono state messe all’ordine del giorno, nonostante le note esplicative e avversative appena esposte, da una autorevolissima ed esplicita dichiarazione in tal senso affidata da Benedetto XVI a Peter Seewald in un recente libro-intervista, e sono state esplicitamente collegate alla capacità psico-fisica (ma non solo) di guidare la chiesa da parte di un vescovo di Roma che è a oggi il Papa più vecchio in carica da cent’anni e oltre a questa parte. Joseph Ratzinger risulta acciaccato dall’età, e non potrebbe essere altrimenti, ma perfettamente vigile, perfettamente in grado di ricoprire il suo incarico pastorale, e tutto il resto di quel che essere Papa significa. E allora, di che cosa stiamo parlando? Il Papa ce la fa a fare il Papa e farà il Papa finché ce la farà a fare il Papa. D’accordo. La risposta di Benedetto a Seewald (“Quindi è immaginabile una situazione nella quale lei ritenga opportuno che il Papa si dimetta?”) suonava così: “Sì. Quando un Papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico affidatogli, allora ha il diritto e in alcune circostanze anche il dovere di dimettersi” (“Luce del mondo”, Editrice Vaticana, pagina 53). Questa è la base di tutto. Indiscutibile e indiscussa.
Però si può superare il pudore diplomatico, e la remora d’amore con la quale il tema è trattato, comprensibilmente, nella stampa cattolica e dentro la chiesa istituzionale. L’affermazione benedettina è molto esplicita e laica, e larga di veduta ecclesiologica, si pone come valida per un Papa, per qualsiasi Papa: parla di una inadeguatezza anche “spirituale”, il che è affidato alla coscienza non alla scienza medica, e di un diritto che in certe circostanze può presentarsi anche come un “dovere”. I cattolici sono una razza splendida e strana, uno di loro, lo storico del Concilio più accreditato, il compianto Giuseppe Alberigo, confessò di aver pregato per la morte di Pio XII in un’epoca in cui la sua coscienza gli dettava di farlo pro bono ecclesiae. Diradare l’ombra, questo era per lui il problema. Non essendo un cattolico osservante e praticante, a me quella preghiera a tutta prima sembrò atto sordido e malevolente, poi ci ho ripensato. Fino a un certo punto, mi sono detto, in una coscienza cristiana incorrotta può farsi largo una preghiera di destinazione provvidenziale alla vita eterna del vicario di Cristo, naturalmente in Cristo per Cristo e con Cristo. Ma non sono comunque affari in cui un laico miscredente innamorato del posto che la fede degli altri ha nel mondo possa minimamente intromettersi. E poi qui non si parla della morte del Papa, tema sempre pigramente rubricato come una branca cinica ma inevitabile della “vaticanistica”, si parla della vita bella e illuminata di un Papa amato, rispettato, degno di devozione e di fiducia. Si parla inoltre di un atto vitale, le dimissioni, che avrebbe conseguenze di incalcolabile importanza nella vita della chiesa moderna. Anzi, della chiesa di tutti i tempi, e per i tempi a venire.
Dunque di qualcosa stiamo parlando, o se volete blaterando. Senza alcuna malizia, senza cincischiare. E non per un gusto di politologia ecclesiale, per dir così, ma per un sano modo di considerare un regno da noi molto amato. Ricordo che all’incrocio tra la traslazione della salma di Giovanni Paolo (che canti meravigliosi), tra i suoi funerali ventosi (che omelia fatale per coscienze e intelletti fu quella di Ratzinger decano del collegio cardinalizio) e la chiusura del Conclave, nello stesso giorno dell’elezione di Benedetto XVI, cambiammo la testata del giornale che state leggendo da “Il Foglio” a “Il Soglio”; e potemmo titolare, dopo la fumata bianca, “La formidabile elezione del professor Ratzinger”, avendo titolato il giorno prima, quello dell’omelia sul relativismo, “La formidabile lezione del professor Ratzinger”. Non rammento questo per vanità giornalistica né per umorismo da oratorio, ma per classificare oltre ogni dubbio queste note nella serie delle apologie piuttosto che nella serie dei pettegolezzi o delle denigrazioni vaticanistiche. Prima di tutto, dunque: è o non è nello spirito di un uomo e di un uomo di chiesa come Ratzinger l’ipotesi di lasciare la sede petrina e destinare ad altri il pallio? Conoscere una persona è arte difficilissima. Intuire il campo del possibile aperto a una personalità superiore, a un’intelligenza e a un carattere provati dal passaggio di due secoli in una carriera apostolica mirabile, piena di cose forti, di svolte, di salti, eppure di robusta continuità teologica e culturale, pastorale ed etica, è impresa arditissima, votata a un quasi sicuro fallimento. Tuttavia all’amore non si comanda; ed è insieme, questo, un proverbio banalissimo e il cuore o uno dei cuori carnali della teologia cristiana e della pratica cristiana. Io penso che, se ci sia un Papa o un uomo capace di considerare possibile e scandalosamente opportuno un proprio ritiro, la dedica ad altro che non sia la cura della chiesa universale del proprio tempo, naturalmente nell’ambito di una successione ordinata e viva, carismaticamente certa di un risultato d’incremento della forza e della sicurezza di tratto nel governo della cattolicità, questo Papa si chiama Benedetto XVI e questo uomo si chiama Joseph Ratzinger. Ho avuto il piacere grandissimo di inchinarmi davanti a lui durante una visita pastorale alla parrocchia del Testaccio, il mio quartiere, e per il resto conosco la persona soltanto dall’interno dell’interesse che porto ai suoi libri, alla sua attività dottrinale e teologica, al suo impegno appassionato, di battaglia, sui temi del moderno, alle sue scelte pontificali nell’assedio rumoroso e spesso molesto che i tempi impongono alla chiesa cattolica. Punto. Troppo poco, o forse abbastanza, chissà, per emettere questo giudizio temerario. Ratzinger è uno che può dimettersi da Papa se ne ravveda le condizioni, anche del tutto a prescindere dalle sue condizioni psicofisiche. Come atto di libertà spirituale. Va bene, dunque. Secondo me potrebbe farlo, quando e come decidesse di farlo, in totale libertà. E’ ovviamente poco, questo “secondo me”, ma è abbastanza per un articolo di giornale di un laico. Per uscire o tentare di uscire dall’astrazione del possibile, ed entrare nell’orizzonte del realistico, bisogna rispondere a una seconda domanda. A che punto è il papato di Benedetto XVI? C’è chi afferma che l’impasse lo minaccia. La corte o l’appartamento, si dice, vive tra le nuvole una vita professorale, intorno a un autore di libri, e le decisioni sono anche ferme talvolta ma rare, i tempi sono lunghi, o lunghissimi, la mano che le esegue, che le giustifica nell’ordinario e quotidiano lavoro è controversa, resa instabile dai problemi di una lunga incuranza della curia, che risale alla sprezzatura del venerato predecessore pellegrino, il beato Giovanni Paolo II, verso i problemi temporalistici intra moenia. C’è chi osserva al contrario la perfetta vitalità del pontificato, la sua agenda di successo nell’incontro con i giovani, la sua felice continuità giovanpaolina nel rapporto con gli ebrei, la sua capacità di fare da baricentro tra il semper reformanda della chiesa e la sua trazione tradizionale particolarmente in fatto di restaurazione liturgica dopo le follie del passato, il suo programma ambizioso sia sul fronte difensivo dell’espiazione e penitenza per i comportamenti peccaminosi di una frazione del clero sia sul fronte offensivo della dottrina, della promozione umana (vicina è la data della giornata della famiglia a Milano), dell’evangelizzazione, del dialogo interreligioso, dell’ecumenismo. Ratzinger giganteggia, altro che, e sta solo a chi lo consideri con atteggiamento sereno capire bene quel che segnalò per tempo l’occhio inquieto e onnivoro di Sandro Magister: la guida della successione petrina è per il Papa riassumibile in uno stile lucidamente bonaventuriano, intelletto e ragione come fonte di luce e persuasione lucana, ma sopra tutto la fede che sa dirsi e dire le sue ragioni. E arriva l’anno della fede, la prossima possibile enciclica dopo la carità e la speranza: tutto dice che c’è ancora tanto lavoro da fare, naturalmente da fare “a suo modo”, con le responsabilità assunte limpidamente, magari anche qualche sconfitta organizzativa messa nel conto, ma chi se ne importa, un gigante non si confronta con le ansie nane del mondo. Incombe anche, e forse come un atto scandaloso, anche questo nell’ambito del possibile, la conversione di Fidel Castro. Vogliamo scherzare con le dimissioni del Papa? Paradossalmente io sono di questa seconda scuola. E dovrei chiudere qui il pezzo. Ma resta invece il punto, oggettivo, delle dimissioni eventuali del Papa, aperto da una terza domanda possibile: quale significato avrebbero? in che cosa potrebbero aiutare la chiesa e anche il mondo, che in un certo senso brillante ma non letterale è una sua dépendance? non sarebbe per assurdo un modo di rinnovare la chiesa, senza lasciarsi imporre la cosiddetta democratizzazione, e di farlo con una specie di raddoppio pericoloso e canonicamente incerto, ma storicamente fecondo, del carisma papale? Lasciamo stare i veleni romani recenti, mediatizzati e dunque impresentabili, sebbene in un mondo virtuale e onnivoro le notizie cattive sulla gestione possano avere una loro influenza maligna. Da non sottovalutare. Però è chiaro che stiamo parlando di un gesto altissimo, prezioso, profetico come dicono gli ecclesiologi, in fondo anche un poco assurdo, un’abdicazione consapevole e controllata che non si può mettere in alcun modo in relazione con le questioncelle sollevate da qualche inchiesta televisiva o da qualche leak di fonte più o meno vaticana. Chissenefrega. Problemi dell’intendenza. Più seria mi sembra la questione cataclismatica dei preti che hanno peccato nei confronti dei bambini, e della trasformazione di una nullità statistica, questa è la mia convinzione, in un processo al clero e in una efficace soperchieria ai danni della cattolicità. Il mondo vuole democratizzare la chiesa, come è evidente, e annullarne il carattere ieratico, sacrale. Sarebbe un bel progresso secolarizzatore per la grande sindrome antireligiosa che pervade la terra da almeno due secoli se non di più, qualcosa di molto simile a una penultima battaglia d’influenza e di destino, con un vantaggio per chi crede che lo spazio pubblico della chiesa sia il mondo com’è, la normalità istituzionale, più la fede privata separata dalla ragione se non opposta alla ragione. Il programma minimo del mondo di cui Ratzinger è sempre stato in teologia e in cultura, a partire dalla radice della sua stessa missione, un antagonista fervoroso, anche dentro la chiesa, intelligente, modernissimo e tradizionalissimo. Non c’è dubbio, a mio giudizio, che le grandi intuizioni di Benedetto e del predecessore, intuizioni sostanzialmente condivise, sono state un trauma per la modernità laica: Cristo unico mediatore di salvezza secondo il deposito della fede cattolica; lo sradicamento della speranza messianica incarnata nella rivoluzione politica (teologia della liberazione e comunismo reale in Europa); l’erezione di un muro della differenza rispetto all’altra grande e vitale religione monoteista riunita in una umma, l’islam analizzato a Ratisbona; la ragione che argomenta la fede e si porta nello spazio pubblico (il dialogo con Habermas); la legittimità della politica riguardo alle questioni non negoziabili dell’umanesimo cristiano (il discorso al Bundestag e molto altro); il diritto culturale della chiesa a una piena interlocuzione con il contemporaneo (discorso ai Bernardini a Parigi); la difesa della vita umana, della famiglia, del matrimonio, di una corporeità e di un eros liberi di fronte all’onnipretesa della scienza bioingegneristica e dell’ideologia a essa afferente; il ritorno della liturgia della croce dopo le rotture conciliari e sopra tutto postconciliari (molti diversi pronunciamenti e atti). A queste faccende di una certa importanza si collegano i problemi della Humanae vitae, della comunione ai divorziati risposati, del sacerdozio femminile, del celibato dei preti, della contraccezione e dell’aborto e molto altro di ciò che fa la chiesa un monstrum ideologico e culturale nel mainstream del pensiero contemporaneo secolarizzato. Concludendo. Un Papa che si dimette perché ritiene spiritualmente un dovere assecondare un rinnovamento e rilancio che non cancelli il suo stesso magistero, ma anzi lo rilanci, ha indirettamente la possibilità di influenzare con maggiore tempra e fondamento la successione (sceglie i tempi, offre un segno grande e terribile di vita extra-ordinaria della sua chiesa). Realizza un sogno personale: la cura, lo studio, la produzione di luce teologica senza i panni del pastore universale. Scombussola certezze tradizionali secolari, innova radicalmente, promuove un’età regnante che renda meno ingovernabile il popolo di Dio riunito nella casa ecclesiale, e toglie ogni lentezza, stanchezza o spirito difensivo alla casa romana di Pietro. L’azzardo è forte, la circostanza anche abbastanza inverosimile, un Pontefice che ha forza spirituale non rinuncia al “compito assegnatogli”, come dice Ratzinger. Chissà che un giorno al Papa non appaia come un raddoppio di quella forza il gesto sovrano e papocentrico delle dimissioni.
Giuliano Ferrara
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