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Legami familiari e vita nello Spirito. Per una spiritualità della famiglia.

Intervento di Don Andrea Bozzolo, salesiano, per approfondire il tema della famiglia e della sua dimesione spiriuale. «“Raccontare l'amore” e “condividere i sentimenti” sono diventati i nuovi imperativi che accomunano, in una forma che dovrebbe suscitare qualche sospetto, le forme più spregiudicate della comunicazione mediatica (i Talk Show) e...».


Legami familiari e vita nello Spirito. Per una spiritualità della famiglia.

da Teologo Borèl

del 28 gennaio 20061. L’appello alla “spiritualità”

 

Il sorgere di un interesse specifico per la spiritualità coniugale e familiare risale all’immediato Dopoguerra, prima del Concilio, grazie alla fioritura vasta e variegata di “gruppi di spiritualità coniugale”, di cui il più famoso è probabilmente quello promosso dall’Abbè Caffarel, le Equipes Notre Dame, la cui fondazione ufficiale risale all’8 dicembre 1947. L’appello alla spiritualità aveva in quel momento storico prevalentemente il significato di “sottrarre l’esperienza del matrimonio cristiano all’egemonia, considerata negativa e repressiva, della morale – evidentemente una morale datata, nella fattispecie polarizzata sulla questione lecito/illecito –, per orientarla verso una prospettiva positiva, che in ultima analisi propone di considerare il matrimonio come possibile via di santificazione”.[1] In effetti, bisogna riconoscere che nel linguaggio della teologia, della predicazione e della catechesi dell’epoca, il matrimonio era presentato fondamentalmente in termini oggettivi e istituzionali, con scarsa considerazione per le dimensioni soggettive del vissuto personale (il matrimonio come comunione interpersonale di amore) e per le molteplici variabili storiche (sociali, culturali, economiche …) che plasmano l’esperienza effettiva della vita familiare. Nel suo momento iniziale, dunque, la proposta di una spiritualità familiare, di là della maggiore o minore consapevolezza critica con cui era avanzata, aveva obiettivamente il senso di allargare gli orizzonti del pensiero, per recuperare, oltre i limiti del diritto, l’autentico fondamento teologico dell’esperienza familiare.

Oggi il contesto storico è profondamente diverso. L’attenzione per le dinamiche relazionali e i vissuti soggettivi è divenuto preponderante, fino a generare una nuova koiné linguistica, in cui sentimentalismo romantico ed egualitarismo libertario si mescolano nell’esaltazione della reciprocità e degli affetti, della compassione e della tolleranza, del dono e della relazione. “Raccontare l’amore” e “condividere i sentimenti” sono diventati i nuovi imperativi che accomunano, in una forma che dovrebbe suscitare qualche sospetto, le forme più spregiudicate della comunicazione mediatica (i Talk Show) e il linguaggio più spirituale della comunicazione della fede. Solo che oggi, in nome dei sentimenti e della realizzazione affettiva, non solo ci si sposa, ma anche ci si separa; non solo si promuove la stabilità dei legami, ma anche si rivendica la loro continua precarietà; non solo si fonda la verità del matrimonio, ma anche si mette in discussione la grammatica di base della famiglia. Il primato dell’amore, in altre parole, nella Babele della lingua postmoderna funziona come copertura ideologica per la rimozione delle grandi questioni etiche relative alla famiglia e come principio che estenua il problema della verità trascendente che è in gioco in ogni rapporto umano.

In questa situazione, il richiamo alla “spiritualità”, se non è avveduto teoricamente, se cioè pensa di poter scavalcare per via intuitiva i complessi chiarimenti imposti dalle trasformazioni culturali in atto, rischia facilmente di essere attratto nel vortice di un’ingenua retorica della relazione e di contribuire a quell’inflazione del linguaggio amoroso, che dovrebbe scandalizzare piuttosto che sedurre la riflessione cristiana. In effetti, a fronte di una “teologia della famiglia” – e ancor più di una “filosofia della famiglia” – piuttosto scarna, la letteratura concernente la spiritualità del fidanzamento, del matrimonio e della famiglia è semplicemente debordante, in una proliferazione di testi che non può che sorprendere. Le categorie più frequentate (la “ministerialità dei coniugi”, la “sacramentalità della coppia”, la famiglia “immagine della Trinità” o rispettivamente “della Chiesa”…) hanno spesso più un valore allusivo e ispirativo, che un’effettiva capacità di favorire il discernimento quotidiano delle situazioni vitali.

Affrontando dunque il tema della spiritualità familiare oggi, è indispensabile anzitutto affermare che il richiamo alla spiritualità non può e non deve assecondare la tentazione di una scorciatoia “mistica”, che scavalcando la fatica del concetto, conduca con minor sforzo a movimentare i cammini comunitari e orientare percorsi pastorali. Esso deve piuttosto operare nel senso di alimentare il chiarimento paziente e sapienziale della riflessione, per cogliere come la vita nello Spirito si plasmi nella grammatica degli affetti, attraverso la benedizione e il giudizio che la Parola del Vangelo pronuncia sulle forme della prossimità umana. Tornare ad esercitare il giudizio morale sulle forme quotidiane della convivenza familiare è la strada più sicura per abilitarsi all’autentica spiritualità, ossia a discernere la differenza tra l’amore che viene da Dio e le mille forme della sua quotidiana contraffazione. In questo don Bosco ha veramente qualcosa da insegnarci: tanto amorevole verso i suoi, quanto pudico nel parlare dei suoi affetti; tanto espansivo nell’intessere relazioni, quanto rigoroso nel porre ai suoi giovani la questione morale come linea di demarcazione dell’autentica spiritualità.

 2. La radice sacramentale della famiglia

 

I capisaldi di una spiritualità familiare, evidentemente, devono essere cercati per riferimento al sacramento del matrimonio. È attraverso di esso, infatti, che i coniugi ricevono il dono dello Spirito Santo in vista di un’esperienza coniugale e familiare conforme al mistero pasquale di Gesù. L’affermazione della sacramentalità del matrimonio apre uno dei capitoli più complessi della teologia, poiché richiede di pensare il rapporto che sussiste tra la storia di Gesù, culminata nella sua Pasqua di morte e risurrezione, e la figura di un’esperienza di vita, qual è quella matrimoniale, che ha origine non con Gesù, ma con Adamo. Non è questa evidentemente la sede in cui affrontare le complesse questioni relative a questo tema, la cui ricaduta sul modo di vivere l’esperienza coniugale peraltro è determinante. Dobbiamo semplicemente limitarci ad affermare che la sacramentalità del matrimonio cristiano non deve essere pensata come una sorta di aggiunta estrinseca ad una realtà naturale autosufficiente – come se “prima” esistesse il matrimonio/la famiglia e “poi” il mistero di Gesù –, ma piuttosto come il compimento di un’intenzione oggettiva, una tensione originaria, un appello segreto inscritti strutturalmente in ogni matrimonio della storia.

L’insegnamento biblico che culmina in Efesini 5, attesta, infatti, che nel rapporto tra l’uomo e la donna è implicato un “grande mistero”, che giunge a chiarimento soltanto nel gesto pasquale con cui il Signore Gesù dona il proprio Corpo per l’umanità. Ciò significa che il livello in cui si costituisce l’esperienza affettiva che conduce al matrimonio e alla famiglia non può essere compreso nel suo spessore umano, se non riconoscendo che esso riguarda i significati ultimi dell’esistenza: il senso del nascere e del morire, la direzione in cui investire tutte le proprie risorse e il fondamento che rende possibile il farlo. Il modo in cui avviene l’esperienza dell’innamoramento, ossia l’accadere sorprendente e promettente di una grata prossimità tra due giovani, attesta immediatamente alla coscienza l’irriducibilità di ciò che vi è in gioco a uno dei molteplici aspetti della vita, perché ciò che vi è chiamato in causa è il livello radicale della persona. Pur non essendo l’esito di una propria iniziativa e decisione (non si può decidere di innamorarsi, né di chi innamorarsi), l’innamoramento risponde sorprendentemente ad un desiderio inespresso della persona, suscitando in essa un vero risveglio di tutte le sue energie e ponendola di fronte all’esigenza di una decisione radicale.

Il libro della Genesi descrive con estrema precisione quest’esperienza, mostrando la novità assoluta che è in gioco nell’apparire di Eva. Adamo ha avuto modo di mettere alla prova il suo desiderio con tutto il reale, assegnando alle cose il loro nome, cioè, fuori di metafora, imparando a conoscerle, a servirsene, a dominarle. Ma quando egli sa ormai tutto del suo mondo, si rende conto che non ha ancora nulla di ciò che può rendere veramente rilevante una vita. Egli è così pronto per incontrarsi con una differenza che appartiene completamente ad un altro ordine, rispetto a quello della ragione tecnica e funzionale: una differenza che egli non può possedere e dominare, come lascia intendere l’immagine del suo misterioso torpore, ma da cui piuttosto deve lasciarsi istruire e sorprendere. E così di fronte alla comparsa meravigliosa di Eva, Adamo fa sentire per la prima volta in diretta la sua voce, passa dalla terza persona del racconto alla prima, diventa un “io”. Il suo sguardo si posa non solo più sulle cose, ma su un altro sguardo che gli consente di accedere all’esperienza della soggettività. Non si può essere soggetti, infatti, se non in mezzo e grazie ad altri soggetti. E ciò avviene in modo tale che, quando Adamo apre gli occhi, uscendo dal torpore affettivo – è questo il senso del risvegliarsi della risonanza affettiva negli anni della giovinezza, dopo la latenza degli anni precedenti – egli trova di fronte a sé Eva e insieme Jahvè che gliela porta, così da vedere entrambi con un solo e unico sguardo.

Come appare da questi cenni sintetici, che avrebbero bisogno di ben altri sviluppi fenomenologici, il mistero di Dio non è una presenza aggiuntiva rispetto al vissuto umano dell’affezione amorosa, ma è il contenuto obiettivamente messo in gioco fin dal suo primo destarsi. Così che dove gli affetti sono mantenuti nel suo cono di luce, essi sono custoditi nella loro verità (che è appunto teologica); mentre, come il testo della Genesi registra subito dopo, dove essi sono sottratti a quel grembo, si capovolgono nel loro opposto: colei che appariva come la promessa sorprendente, diviene la responsabile del fallimento, con un meccanismo di scarico della colpa che viene ad investire Dio stesso (“la donna che tu mi hai posta accanto…”).

La sacramentalità del matrimonio attesta dunque che l’uomo e la donna (non solo l’uomo e la donna cristiani, ma qualunque Adamo e Eva della storia!) non possono comprendere la sostanza quotidiana del loro rapporto, se non guardando al mistero di Dio e non possono decidere che cosa fare del loro legame se non pronunciandosi, con la stessa decisione, su quel mistero. Su questa base, il rapporto che Paolo (proprio citando il testo della Genesi) riconosce tra il mistero pasquale di Gesù e le nozze umane diviene più comprensibile. Lì dove un uomo e una donna devono decidere del loro innamoramento, il dono di sé che Gesù ha compiuto sulla Croce, e che si partecipa ai credenti nell’eucaristia, si pone come fondamento che autorizza ad avviarsi nella vita coniugale come cammino di donazione reciproca.

Si comprende così perché i cristiani si sposano di fronte all’altare. La loro comprensione del matrimonio, infatti, è completamente indirizzata dall’eucaristia, al punto che la stessa sacramentalità del matrimonio, in fondo, non è altro che una sorta di espansione, di irradiazione dell’eucaristia. Si può, pertanto, affermare che “nel dono reciproco, i due coniugi cristiani esprimono e mettono in evidenza, ciascuno, la propria comunione al Cristo dell’eucaristia, cioè il Cristo che dona tutto se stesso per compiere la salvezza degli altri. La stessa ‘carità’ dell’eucaristia alimenta la carità del matrimonio; la stessa ‘grazia’ dell’eucaristia opera nel matrimonio; lo stesso ‘Spirito’ dell’eucaristia anima e vivifica il matrimonio”.[2] Attraverso il sacramento del matrimonio, dunque, Gesù con l’effusione del suo Spirito abilita un uomo e una donna a partecipare del dono di sé che Egli ha compiuto una volta per tutte, in modo tale che la loro vita coniugale e familiare sarà vera partecipazione alla dinamica del Regno. Attraverso un uomo e una donna che si amano così, il Regno si compie e il volto di Dio diviene visibile.

Da ciò deriva che la spiritualità del matrimonio, ossia il matrimonio vissuto nello Spirito di Gesù, non è pensata dal cristiano come una delle tante dimensioni dell’esperienza matrimoniale a fianco delle altre (secondo una rappresentazione piuttosto diffusa, ma teologicamente infondata), ma come il principio e la verità fondante di tutti gli aspetti della vita familiare. La spiritualità non è un ambito parallelo, un significato di seconda istanza, un supplemento angelico per i momenti forti: è il reale colto nel massimo della sua concretezza e corposità, dove si giocano le energie degli affetti e la qualità delle intenzioni che fanno semplicemente umana la nostra vita.

Da ciò deriva ulteriormente che vivendo il matrimonio nello Spirito di Gesù il cristiano avverte, insieme alla grandezza del dono, la responsabilità di manifestare al mondo il senso originario e il destino ultimo dell’esperienza familiare, contribuendo a liberarla dalle diverse patologie che può conoscere, in particolare dalla tendenza tipica di tutte le ideologie a strumentalizzare la famiglia, rendendola funzionale ad altro: la proprietà, la razza, lo stato, l’economia ecc.

 3. Vita spirituale della famiglia e sfide del presente

 

Chiarite, seppur brevemente, le radici sacramentali della spiritualità familiare, possiamo ora prendere in considerazione alcuni punti su cui oggi la famiglia cristiana è chiamata a testimoniare con particolare vigore la vita nello Spirito di Gesù. Ognuno di questi punti richiederebbe un’analisi accurata, per poter identificare con precisione delle linee pastorali praticabili, ma lo spazio a disposizione consente soltanto alcuni cenni introduttivi.

 

3.1. Secolarizzazione e identità religiosa del matrimonio

      La tendenza secolarizzante, che moltiplica le famiglie basate non sul sacramento del matrimonio, ma su una scelta realizzata in forma soltanto civile, pone di fronte alle famiglie la grande sfida di recuperare lo spessore religioso degli affetti. Oggi, anche tra i cristiani, quando si parla di relazione e di sentimenti, di emozioni e di affetti, viene più in mente lo psicologo che lo Spirito Santo, la realizzazione di sé e l’armonia interiore che non la rivelazione del volto di Dio e il servizio del Vangelo.

      Di là da qualsiasi moralismo, il guaio serio è che gli affetti lasciati a se stessi sono capaci non solo delle cose più belle, ma anche delle più terribili. Non comprendere la loro radice teologica, significa esporsi pericolosamente al rischio di assolutizzarli. Quanti matrimoni falliscono perché nell’entusiasmo dell’innamoramento ciascuno dei due aveva fatto dell’altro il Messia della sua vita! Come scrive un autore, “la mortificazione e la colpa si incontrano proprio là dove gli affetti cedono alla tentazione di ‘essere come Dio’, di cercarsi come si cerca Dio, di viversi come vive Dio, di farsi seguire come si segue Dio: nell’amore dell’uomo e della donna, nella proprietà dei figli, nella complicità dell’amicizia, nel lavoro della propria mente e delle proprie mani […] In tal caso la corruzione degli affetti – anche i più cari e sacrosanti – è sempre inevitabile”.[3]

Per questo il recupero dello spessore religioso dell’esperienza familiare significa opporsi tanto alla banalizzazione dei legami familiari, come se fossero puramente oggetto di un ragionevole contratto sociale, quanto alla loro assolutizzazione, ricordandosi che mentre la Scrittura benedice l’esperienza nuziale, ricorda anche che chi ha moglie e marito “sia come non l’avesse”, disponendo la coppia a non far centro su di sé.

Concretamente, sotto il profilo del vissuto spirituale, ciò significa per le famiglie porsi il problema dell’unificazione dell’esperienza familiare. La signoria di Gesù in una famiglia ha bisogno di tradursi in tempi e luoghi in cui si percepisce che si è legati da un’esperienza di Dio fatta insieme (la preghiera in comune, l’eucaristia, la domenica…). La fatica di trovarli e di custodirli, in mezzo a ritmi che facilmente sono condizionati da esigenze di vario genere, sarà così percepito anche come esercizio spirituale che reagisce al rischio che qualcos’altro nella famiglia pretenda di avere la signoria che spetta solo a Gesù.

 

3.2. Cultura dell’autorealizzazione e oblatività familiare

La cultura del mondo occidentale è oggi fortemente caratterizzata dalla sensibilità per il soggetto, con un’enfasi del tutto peculiare sulla prospettiva della sua realizzazione. Gli stessi strumenti legislativi e giuridici, trattando della famiglia, tendono ad assumere come punto di osservazione la prospettiva della libertà individuale piuttosto che quella dei legami familiari. In questo contesto si pone per la famiglia la sfida di mostrare che la riuscita della libertà non consiste nella ricerca narcisistica di una promozione di se stessi, ma nel passaggio pasquale alla prospettiva oblativa dello spendere la propria vita per il bene dell’altro.

Questo deve essere oggi particolarmente richiamato, perché un giusto rinnovamento della reciprocità tra marito e moglie (che, tra l’altro, rappresenta l’esito della cultura cristiana in cui la moglie è considerata “compagna” del marito) non si areni nelle secche della rivendicazione di diritti in base alla logica della realizzazione di sé. “Se, in nome dell’eguale dignità di ciascuno, l’uomo (o la donna) si aspetta dal matrimonio un’affermazione, una rivendicazione finale, di quel che ritiene sia la propria personalità e che in effetti altro non è se non egocentrismo, l’individuo prepara per se stesso un inferno di delusione e di amarezza: perché senza amore, senza l’amore, cioè, genuinamente umano, il matrimonio è uno stato di schiavitù; e perché l’amore, l’amore genuinamente umano, è essenzialmente donazione di sé: il che è per così dire l’opposto di ogni rivendicazione egoistica ed egocentristica, l’opposto del godimento della propria individualità”.[4]

 

3.3. Fragilità dei legami e valore della fedeltà

La precarietà dei legami familiari è oggi legata ad una ricorrente difficoltà nel percepire la scansione temporale dell’amore. Essa si manifesta esemplarmente nel fatto che i fidanzati, sotto il profilo dell’intimità sessuale, vogliono fare come se fossero già sposi, mentre gli sposi, di fronte alle difficoltà della vita coniugale, tendono a rivendicare il diritto alla loro libertà, come fossero soltanto fidanzati. Rispetto a questa mentalità, che tende ad appiattire i tempi della vita e illude di poter sempre ricominciare da una pagina bianca, senza che la storia personale si radichi in rapporti definitivi, occorre con molta urgenza rilanciare il significato spirituale autentico della fedeltà.

L’impegno per la fedeltà non significa soltanto adempimento leale di un obbligo, ma mantenimento di uno sguardo, di una volontà di cammino, di una capacità di rinnovamento di fronte agli inesorabili traumi della vita. In ogni storia di amore, infatti, deve essere messo nel conto fin dall’inizio che, anche se non ci saranno grosse burrasche, prima o poi passerà sotto gli occhi qualcuno/a che sembrerà più attraente o interessante di lui/di lei. Per questo bisogna aver già scelto fin da principio dove orientare gli sguardi e gli apprezzamenti del cuore: “si è fedeli perché si sceglie di vedere l’oggetto del proprio impegno in modo tale da eludere la tentazione di tradirlo”.[5]

 

3.4. L’accoglienza della vita

Un’altra delle sfide principali che oggi sono posto di fronte alla famiglia riguarda l’accoglienza della vita. Si tratta di un discorso molto importante, ma anche molto delicato, perché coinvolge moltissimi fattori, che qui non possono essere presi adeguatamente in considerazione. Limitandosi a qualche breve accenno, occorre anzitutto restituire centralità all’idea che l’apertura alla vita non costituisce un’eventualità ipotetica rispetto alla scelta matrimoniale, che può essere in qualche modo estrapolata e rimandata a tempi da stabilirsi.

La scelta di formare stabilmente una coppia nuziale porta immediatamente inscritta in sé l’esigenza di un’apertura reale alla procreazione. Vale, infatti, sul piano simbolico dei significati ciò che è iscritto radicalmente nella natura dell’uomo: l’atto che in forma incomparabile esprime il dare la vita l’uno per l’altra, è anche l’atto che compie il dare vita l’uno nell’altra ad una nuova creatura umana. Il figlio è la testimonianza simbolica che nella coppia coniugale c’è una novità irriducibile alle due singole persone e che la fecondità presuppone radicalmente un gesto di dedizione.

La pretesa di stabilire in modo troppo diretto quando è il momento per l’arrivo di un figlio, di là da ciò che è realmente implicato in una paternità e maternità responsabili, tradisce facilmente la mentalità con cui l’uomo moderno pensa di poter tutto disporre e programmare secondo i suoi tempi e i suoi schemi. Ma in questo modo si perde proprio il messaggio di cui la nascita di un figlio è portatrice. “Dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo”, dice il Salmo 127. Proprio per contrasto a tutto ciò che l’uomo può affannarsi a costruire mangiando pane di sudore, il figlio appare completamente in un’altra logica, come un dono ricevuto e sorprendente, come una benedizione irriducibile agli artifici umani e come una freccia nella faretra che difende l’uomo di fronte al minaccioso incombere della morte, come la promessa di un senso della vita che non viene meno.

 

3.5. L’idea di educazione

Il frazionamento culturale in cui viviamo, con l’indebolimento del consenso etico sui fondamenti dell’esistenza, ha una forte ricaduta nel modo di intendere l’educazione. Se nella tradizione del pensiero la pedagogia era un capitolo della filosofia morale, sulla base della convinzione che l’educatore attingeva alla propria competenza etica gli orientamenti essenziali alla sua pratica educativa, oggi la pedagogia è stata sostituita dalle scienze dell’educazione che, di là dell’indiscutibile apporto che offrono, muovono da un accostamento di altro genere e suppongono un altro modello antropologico. La crescita di un ragazzo, nei modelli educativi oggi dominanti, è osservata come lo sviluppo di un soggetto, che deve acquisire gli strumenti necessari alla propria autonoma realizzazione. Non di rado, così, il processo educativo tende a configurarsi fondamentalmente come un sistema abilitante, con un formulario di obiettivi da conseguire e di procedure da attivare, secondo le indicazioni degli esperti.

Ciò che rischia così di restare in ombra, è che questo soggetto da educare è anzitutto un figlio, cioè qualcuno che ha iniziato ad esistere nel corpo e nella storia di altri, la cui libertà è stata donata a se stessa e che solo nel riconoscimento di questi doni può trovare l’accesso al giusto senso dell’esistere. Urge dunque rielaborare un’autentica spiritualità dell’educazione che si fondi su una genuina antropologia cristiana e mostri che educare è fondamentalmente opera di padri e di madri dal cuore maturo, e avviene nella forma del testimoniare una verità che si onora con la propria vita.

 

Resterebbero a questo punto da affrontare altri temi di notevole spessore, come la questione della soggettività pastorale della famiglia, che non può essere assolutamente ridotta al coinvolgimento di alcuni laici negli organismi ecclesiali, o la problematica del ruolo sociale e politico della famiglia, tema certamente non meno “spirituale” di quelli sopra affrontati.

Rimane in ogni caso, come istanza sottesa a qualunque aspetto della vita familiare si voglia prendere in esame, l’esigenza di un pensiero cristiano, che, elaborando pazientemente i complessi nodi antropologici posti in gioco nei vincoli familiari, si mostri all’altezza della testimonianza spirituale che la famiglia, oggi più che mai, è chiamata a dare.

 

[1] G. Colombo, La teologia della famiglia, in Id., Teologia sacramentaria, Glossa, Milano 1997, 547-573, 555.

[2] G. Colombo, Il sacramento del matrimonio, in Id., Teologia sacramentaria, Glossa, Milano 1997, 527-545, 543.

[3] P. Sequeri , L’assoluto affettivo. Primato dell'amore di Dio e religione dei sentimenti, in G. Coffele (ed.), Dilexit Ecclesiam. Studi in onore del prof. Donato Valentini, LAS, Roma 1999, 299-317, 314. E ancora: “Nella relazione dell’uomo e della donna c’è un grande mistero di Dio, che vale la considerazione del corpo – che qui forma ‘una sola carne’ – come tempio dello Spirito. Ma appunto, non dovete desiderarvi e amarvi come si desidera e si ama Dio. L’esperimento è dannoso, e la delusione (spesso inavvertita delle sue reali ragioni) capace di mortificare e rendere detestabile ogni legame. Gli umani affetti si accendono alla luce della rivelazione di Dio, tanto quanto si spengono all’ombra della prevaricazione che li sostituisce a Dio” (ibi, 316)

[4] J. Maritain, Riflessioni sull’America, citato in G. Camapanini (ed.), Matrimonio e famiglia nella riflessione contemporanea, Città Nuova, Roma 1977, 171.

[5] G. Manzone , Il significato etico del legame coniugale indissolubile, “La Scuola Cattolica” 125 (1997) 109-142, 128.

don Andrea Bozzolo

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