Un film che non si gloria della tecnica, non abbaglia soltanto con le mille citazioni pittoriche, con i colori che si trasformano in magie strabilianti, ma rimane saldo al suo obiettivo: testimoniare...
del 23 ottobre 2017
Un film che non si gloria della tecnica, non abbaglia soltanto con le mille citazioni pittoriche, con i colori che si trasformano in magie strabilianti, ma rimane saldo al suo obiettivo: testimoniare...
Come tutte le cose preziose Loving Vincent ha una prerogativa: l’unicità. Il film, diretto da Dorota Kobiela e Hugh Welchman, è infatti il primo nella storia del cinema ad essere stato interamente dipinto ad olio, un’impresa titanica che ha coinvolto più artisti (125) che attori (9) e che è stata realizzata a partire da un corto (successivamente finanziato via crowfunding) con la tecnica del rotoscopio, che consiste nel ricalcare a mano le scene a partire da un girato. Ed è un lungometraggio unico anche perché ce l’hanno fatto sperare, soffrire, accatastati sui marciapiedi del cinema, timorosi del sold-out, perché in tutta Italia gli unici giorni per vederlo erano il 16, 17 e 18 ottobre. Poi finalmente la fila scorre, si trova posto, le luci si spengono e s’inizia a sognare.
Loving Vincent, l’espressione con cui Vincent Van Gogh congedava il fratello Theo alla fine delle lunghe lettere che gli scriveva con costanza. A spedirle era il suo postino Joseph Roulin, affezionato amico e soggetto di una serie di ritratti che raffigurano tutti i familiari, incluso il figlio, Armand Roulin, protagonista del film secondo solo a Van Gogh stesso. E’ Armand, incaricato dal padre, a cercare buone mani cui affidare l’ultima lettera di Vincent, essendo il destinatario Theo morto sei mesi dopo il fratello.
Armand è l’osservatore medio, l’annoiato affidatario di una missione che non ha scelto, eppure si trasforma venendo a contatto con una storia che diventa sempre più sua mano a mano che vi s’immerge scoprendone i luoghi e i personaggi: rappresenta quanti sono stati trascinati al cinema dagli appassionati di arte e ne sono usciti con le lacrime agli occhi ed un vago senso di bellezza e gratitudine.
La pellicola si tinge del giallo della sua giacca e del mistero che avvolge la morte di quel Van Gogh che molti giudicano come un pazzo, altri come un depresso suicida (ma c’è anche chi sospetta si tratti di omicidio), chi lo riconosce già in vita come l’artista più talentuoso al mondo, chi ricorda con un sorriso la profonda solitudine celata dietro le sue strane abitudini.
Loving Vincent non teme di affrontare la morte, di diventare noir. Di ricordarti che quella Notte stellata ormai diventata un brand e riprodotta sulle punte delle scarpe, sulle tende, su muri, cuscini, divani, braccia, gambe e persino capelli, quel bellissimo quadro svuotato di qualunque significato volesse dargli l’autore era un grido d’aiuto lanciato da dietro la finestra di un ospedale psichiatrico. E’ un film che non si gloria della tecnica, non abbaglia soltanto con le mille citazioni pittoriche, con i colori che si trasformano in magie strabilianti, ma rimane saldo al suo obiettivo: testimoniare.
Con la stessa umiltà di quell’uomo dai capelli rossi che non aveva venduto che un’unica opera su quasi 900 e che mai avrebbe immaginato di essere un grande, il più grande. Un olandese che “non disdegnava nulla nella natura” perché la considerava preziosa, straordinaria, curativa del suo turbamento interiore. Non possedeva lo snobismo di molti che lo hanno preceduto e seguito, cercava solo un posto che la sua anima potesse con sincerità chiamare casa. Loving Vincent significa “con affetto, Vincent”, ma loving potrebbe essere tradotto anche come “amorevole”, oppure come un gerundio: amando Vincent.
Amare Vincent cos’è? Non avere paura di cercare disperatamente, di sprecare colore, di differire dal mondo.
Sabrina Sapienza
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