A 63 anni dalla morte del grande sacerdote, oggi beato, il racconto di uno dei suoi mutilatini. Grazie a lui tanti bambini compromessi dalla guerra hanno potuto condurre una vita normale
«Don Carlo aveva un grande sorriso. Gli occhi celesti, le braccia sempre aperte all’accoglienza. Noi eravamo un popolo di bambini sofferenti ed è grazie a lui se siamo cresciuti sereni, coraggiosi, fiduciosi nella vita. Lui ci è stato “padre”, nel senso più autentico del termine. E non aveva paura di elemosinare perché potessimo avere l’essenziale. Non provava ribrezzo nell’abbracciarci, noi che eravamo senza gambe, senza braccia, con ferite così profonde da deturpare l’anima, oltre che il corpo. Noi, i suoi mutilatini…».
Mario D’Alessandro, oggi, ha 79 anni. Vive a Chieti, in Abruzzo, circondato da un esercito di amore, composto da fratelli, sorelle, cognati, nipoti, bisnipoti e qualche bis-bis nipote. Aveva 5 anni quel 12 ottobre del 1944. In Abruzzo si contavano ancora i danni della Battaglia del Sangro, il conflitto armato tra partigiani e le ultime resistenze tedesche, che vide risaltare le imprese della Brigata Majella e che si concluse con la liberazione della regione. «La devastazione, in quel periodo», spiega Mario, «era ovunque. Con altri bambini stavo giocando per i prati di Selva d’Altino, un piccolo paese in provincia di Chieti, dove abitava a quei tempi la mia famiglia. Vidi un oggetto luccicare in mezzo all’erba, ne fui affascinato. Mi inginocchiai per raccoglierlo e quell’oggetto mi scoppiò in faccia». Era una bomba inesplosa. E Mario ricorda il sangue, il dolore, la corsa verso il vicino ospedale di Guardiagrele («Mi salvarono gli antibiotici, portati dagli Americani»), fino alla diagnosi: semiparesi della parte sinistra del volto e ustione di terzo grado. «Ero rimasto sfigurato per sempre», racconta.
«Pochi anni dopo l’incidente», continua Mario, «la mia famiglia si trasferì in un paese vicino, San Martino sulla Marrucina. L’allora parroco, che ci aveva aiutato a compilare i moduli per la richiesta di invalidità di guerra, ci informò che, al Nord, esistevano dei collegi per bambini con i miei stessi problemi». Allora, l’Italia era unita, era una Repubblica ma, per un bambino dell’Abruzzo, il Nord continuava a essere qualcosa di lontano e di misterioso, un punto non meglio identificabile nella cartina geografica. «Presi il treno, con la mia valigia, la mia incoscienza, i miei sogni di fanciullo e una nostalgia enorme per la mia famiglia. Arrivai a Milano 36 ore dopo, tutto nero di carbone, curioso e attonito mentre quel serpentone a vapore, di ben 50 carrozze, entrava nella Stazione Centrale, sbuffando il suo fumo denso». Mario fu condotto ad Erba, dove sorgeva Villa Irma Vaccari, un’istituzione nata nel 1947 per opera dell’Unione per la protezione dell’infanzia di Ginevra, diretta dalla pedagogista svizzera Claire Wenner che, presto, iniziò a collaborare con don Gnocchi: il sacerdote, che era stato cappellano militare in Grecia e in Russia, ad Arosio, già nel 1944, fu chiamato a dirigere l’Istituto Grandi Invalidi di Guerra. In pochi anni, in varie strutture lombarde, creò una vera “rete” per accogliere i mutilatini, che sfocerà poi nella Fondazione Pro Juventute, nata per coordinare gli interventi assistenziali dei bambini.
«Oggi ricorrono i 63 anni dalla sua morte, ma mi sembra di averlo incontrato ieri per la prima volta ad Erba, in sella al suo “galletto”»: don Carlo scorazzava per la provincia guidando quel primo scooter “a ruote alte” della Guzzi, il mezzo preferito dei preti di campagna e dei medici condotti. «Girava per le varie case di accoglienza che aveva fondato, o contribuito a far crescere», dice Mario, «ma viaggiava anche alla ricerca di finanziatori. Perché lui, per noi, era davvero un padre, un sacerdote nel vero senso della parola: generoso e attento, anche alle nostre esigenze materiali. E non aveva remore a chiedere: se ci servivano le scarpe, ci portava tutti a Vigevano, nelle aziende, per convincere i responsabili a donarcele; per le maglie, andavamo a Milano… Pensava anche a farci divertire: un giorno ci portò alla partita di calcio del Torino, un altro giorno a un concerto, un altro ancora al cinema, a vedere Bamby… insomma, faceva di tutto per trasmetterci serenità e fiducia, piccoli come eravamo e con la vita già devastata per sempre…».
Quando don Carlo si ammalò, Mario era a Roma, dove frequentò il ginnasio in un Collegio “gemello” a quello di Erba: «Pregammo per un mese, tutte le mattine. E, quando ci dissero che era morto, ci raccontarono anche che aveva voluto compiere un ultimo gesto di generosità. Lo aveva annunciato già un anno prima: "Se dovessi morire, voglio che cerchiate di dare i miei occhi a due dei miei ragazzi. Mi restano solo gli occhi, anche questi sono per i miei mutilatini"». In piazza Duomo, a Milano, il 25 ottobre (giorno della sua nascita) del 2009, don Gnocchi fu proclamato beato: «C’erano più di 40 mila persone», afferma Mario, che per arrivare dall’Abruzzo ha preso di nuovo il treno: «La tratta è rimasta la stessa, ma decisamente ci vogliono meno ore…». Ad acclamare il sacerdote, c’erano tanti dei suoi ragazzi: la stessa innocenza negli occhi, le cicatrici un po’ sbiadite dal tempo, ma il medesimo amore per quel prete che fu padre, amico, compagno. «E se nella mia vita ho cercato sempre di aiutare gli altri», conclude Mario, che oggi porta orgoglioso i suoi segni sul viso, di poco mitigati da ben 60 interventi chirurgici, «lo devo al suo esempio. E spero, a breve, di vederlo canonizzato».
di Agnese Pellegrini
Tratto da famigliacristiana.it
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