Usciamo dall'oasi di Gerico ed eccoci di nuovo nel deserto. È l'occasione per un altro incontro, quello con i pastori beduini, con le loro tende e le loro greggi. Un'altra icona evangelica da gustare con gli occhi, perché in questo caso il tempo sembra davvero essersi fermato.
del 18 settembre 2009
 
Il brano che segue è tratto dal libro di Giorgio Bernardelli «Terra Santa.Viaggio dove la fede è giovane», Editrice Ave, maggio 2009.
Usciamo dall’oasi di Gerico ed eccoci di nuovo nel deserto. È l’occasione per un altro incontro, quello con i pastori beduini, con le loro tende e le loro greggi.
Un’altra icona evangelica da gustare con gli occhi, perché in questo caso il tempo sembra davvero essersi fermato. Davide, prima di essere “unto” dal Signore, era un ragazzo che pascolava greggi come quelle che vedi là in fondo. Prova a rileggere la parabola della pecorella smarrita (Lc 15,4-7) e a immaginarla in mezzo a queste colline aride.
L’incontro con i pastori serve anche ad affrontare un’altra domanda che, forse, a questo punto ti è balenata nella testa: ma Gesù era ebreo o palestinese?
Quanti scontri ideologici anche intorno a questo argomento. Perché – è vero – troppo a lungo il cristianesimo ha sminuito l’identità ebraica di Gesù. In nome della “teologia della sostituzione” – la dottrina secondo cui la Chiesa è il nuovo Israele che nel cuore di Dio avrebbe preso il posto del popolo eletto, “reo” di non aver riconosciuto il Messia – tutto ciò che nei Vangeli rimandava alla tradizione giudaica era lasciato sullo sfondo, come un elemento ormai insignificante.
Questo era ovviamente sbagliato: Gesù era ebreo e tale si riteneva, tanto da affermare che neppure uno yod – la lettera più piccola dell’alfabeto ebraico – dovesse andare perduto nell’insegnamento della Torah. Gesù pregava nel Tempio, pregava recitando i salmi, la preghiera che per un ebreo – abbiamo visto ieri al Muro Occidentale – è tuttora la strada maestra per rivolgersi all’Altissimo. Ma non solo: anche la novità del Vangelo, i punti cardine della predicazione di Gesù, rimandano comunque a contenuti che già i profeti di Israele spesso avevano anticipato. Dunque non si può capire davvero Gesù senza prendere sul serio le sue radici ebraiche. Su questo punto, però, bisogna anche intendersi; perché oggi si rischia di cadere nell’estremo opposto, ovvero di considerare l’insegnamento di Gesù una semplice sintesi, magari un po' originale, della tradizione giudaica. Anche questo è sbagliato. Così si prescinde da un dato centrale: la descrizione che nei Vangeli Gesù stesso ci offre del suo rapporto con il Padre. Si proclama Figlio di Dio e questo è un elemento chiaro di discontinuità. Sminuire questo punto o sostenere che sia stata la Chiesa a dipingere così il Maestro, significa – ancora una volta – andare a cercare il “colpo di scena”,la rilettura che ci permetta finalmente di incanalare il cristianesimo dentro i nostri schemi.
Fin qui la teologia. Ma la domanda sul Gesù ebreo o palestinese è molto più insidiosa, perché finisce sempre per sconfinare anche nella politica. Se c’è una cosa che fa letteralmente imbestialire gli ebrei sono le vignette satiriche in cui le sofferenze dei palestinesi sono accostate alle sofferenze di Gesù. È una reazione più che comprensibile, perché – alla fine – quella che ritorna, seppur indirettamente, è l’accusa di deicidio, che è poi la motivazione ideologica alla base di secoli e secoli di antigiudaismo cristiano. Anche su questo atteggiamento la Dichiarazione Nostra Aetate ha detto una parola chiarissima: «Se autorità ebraiche con i propri seguaci – si legge nel testo conciliare – si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo. E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura».
Avendo ben presente tutto questo, quando un ebreo sente dire che Gesù era palestinese, si infuria, sostenendo che questa è un’evidente mistificazione, perché “lo sanno tutti che Gesù era ebreo”. Sottointeso: “oggi, dunque, starebbe con noi”.
Invece, come sempre in Terra Santa, le cose non sono così semplici. Perché, ad esempio, bisognerebbe anche farsi qualche domanda su come vivevano gli ebrei del I secolo d.C. Alla fine si potrebbe anche scoprire che, per certi aspetti, abitudini o tradizioni assomigliavano molto di più agli abitanti di certi piccoli villaggi palestinesi di oggi che a quelli di Mea’ Sherim, il quartiere degli ebrei ultra-ortodossi a Gerusalemme, plasmato sul modello delle comunità della diaspora nell’Europa dell’Est. Se poi vuoi dare un volto alla pagina evangelica in cui Gesù si presenta come il buon pastore (Gv 10,1-16), ti sfido a trovarne uno più adatto dei beduini che da secoli vivono del loro gregge su queste montagne della Giudea.
La verità, ancora una volta, è che non puoi rinchiudere Gesù in un’identità piccola. Era ebreo? Certamente. Ma questo non esclude dalla logica dell’incarnazione tutto ciò che è palestinese. Ha abitato questa terra. Tutta. Ed è nei volti della sua gente, da una parte come dall’altra della barricata, che oggi sei chiamato a riconoscerlo.
 
Giorgio Bernardelli
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