«Sono gli altri che non lo comprendono... Quel professore non sa valorizzare mio figlio... Se avesse un allenatore più intelligente allora sì che giocherebbe sempre da titolare...»
Il problema non è suo; sono gli altri che non lo comprendono. Quel professore non sa valorizzare mio figlio. Se avesse un allenatore più intelligente allora sì che giocherebbe sempre da titolare…
Gli esempi potrebbero essere infiniti e tutti ci direbbero che, se davanti alle difficoltà di nostro figlio la colpa è sempre degli altri, forse qualche dubbio sulla nostra impostazione educativa è lecito averlo.
In uno dei libri che ho letto recentemente, lo psicologo Pietropolli Charmet sostiene una tesi molto interessante e cioè che negli ultimi anni sembra essere cambiato il modo in cui gli adulti si rappresentano i propri figli, sin da quando essi sono bambini molto piccoli. In particolare, i genitori sembrano essere sempre più convinti che il bambino sia una creatura buona, innocente, che non solo vada rispettata ma anche capita e interpretata. Il bambino non è più solo una persona da formare, educare, crescere, orientare con regole che lo aiutino a “diventare ciò che è“, come ci direbbe il poeta greco Pindaro. Il figlio, sostiene Charmet, è visto come un “interlocutore attivo e propositivo di una relazione che lui per primo stimola continuamente. In pura contemplazione del bambino idolatrato e ammirato, padri e madri restano affascinati dai suoi alti livelli di competenza relazionale e affettiva. Gli sguardi dei genitori verso il proprio bambino nella culla si rivolgono non a un piccolo selvaggio da civilizzare, a cui imporre le leggi, i valori dell’etica, ma ad un cucciolo già naturalmente orientato verso la relazione.”
Quella di Charmet è una tesi interessante e potrete approfondirla accuratamente leggendo i suoi testi. In questa sede mi limiterò a tirarla in ballo come una possibile causa del “figliocentrismo” di cui a volte si ammala il genitore postmoderno.
Diverse sono le origini di questo fenomeno, ma una mi sembra essere più influente rispetto a tutte le altre. Oggi molti studiosi della famiglia sostengono che le dinamiche relazionali al suo interno sono basate su una struttura affettiva, piuttosto che su quella etico-normativa, tipica di qualche decennio fa e che è entrata in crisi a partire dagli anni sessanta. Fino ad allora era diffuso un modello basato sulla trasmissione delle regole, soprattutto da parte della figura paterna. L’obiettivo era quello di preparare i figli affinchè fossero capaci di entrare nella società e seguirne le norme sociali. Negli anni – soprattutto quelli della contestazione – questo modello è via via entrato in crisi per lasciare spazio ad un modello che si basa soprattutto sugli affetti. La famiglia affettiva mette al centro le relazioni tra i suoi membri, ed ha spesso come obiettivo la loro gratificazione affettiva.
Questi cambiamenti hanno avuto delle ripercussioni importanti sul piano educativo. Rispetto alla famiglia delle regole, quella affettiva può contare su relazioni più ricche dal punto di vista umano, e su una comunicazione più sentita tra i diversi membri della famiglia e questo è un dato senz’altro positivo. Il rovescio della medaglia è però l’indebolimento della dimensione educativa e la difficoltà a dotare i figli di quella autonomia necessaria per tagliare il cordone ombelicale con la famiglia ed entrare nella società; in questo modello di famiglia è facile osservare un forte atteggiamento protettivo dei genitori e un’impostazione dei rapporti più di tipo orizzontale, per cui i genitori spesso finiscono per fare gli amici dei figli, ponendosi al loro livello e tradendo così la loro funzione educativa.
Questa metamorfosi nelle relazioni tra i membri di una famiglia, ha probabilmente favorito il fenomeno di cui parla Charmet: un bambino che agli occhi dei genitori finisce per essere valorizzato ben al di là delle sue effettive competenze e capacità. Si tratta di un problema che, se non affrontato in tempo, finisce per esplodere in tutta la sua drammaticità nell’adolescenza. Un adolescente che negli anni della sua infanzia ha nutrito – o meglio, è stato incoraggiato a nutrire – delle aspettative troppo elevate nei propri confronti, finirà per crollare di fronte ai primi fallimenti che inevitabilmente arrivano a questa età. E la sua reazione potrebbe essere non solo di scoraggiamento e di chiusura nei confronti di un mondo che non lo capisce, che non lo sa valorizzare, che non lo accetta; ma potrebbe anche sfociare in comportamenti violenti e rabbiosi verso chi, a suo modo di vedere – ma molto spesso a modo di vedere dei suoi genitori – , lo mortifica e lo umilia ingiustamente.
Quante volte i genitori si scagliano contro un docente incolpandolo di essere stato troppo esigente nei confronti del proprio figlio? Ma quante di queste volte il problema è del docente e non invece del ragazzo che, oggettivamente, viaggia molto al di sotto delle sue possibilità? E allora, viene da chiedersi, cosa vogliamo da nostro figlio? Quali mete gli mettiamo davanti? E come sappiamo collaborare con chi assieme a noi vuole portarlo, con la giusta esigenza, ad una meta elevata e adeguata alle sue potenzialità?
Porre ai propri figli paletti, ostacoli, regole e obiettivi da raggiungere è sicuramente una sfida ardua e impegnativa ma è uno dei modi migliori per aiutare i ragazzi a prendere consapevolezza che non è il mondo che deve piegarsi verso di loro, che essi non sono sempre il centro dell’universo, che la realtà a volte è diversa da come se la immaginano, che le strade che la vita mette loro davanti non sono sempre in discesa.
Si tratta di aiutarli a riposizionare alla giusta distanza il baricentro del loro rapporto con la realtà. In questo modo li aiuteremo anche a fare lo stesso lavoro quando la realtà prenderà la forma di una persona da amare, comprendere, perdonare, stimare: azioni impossibili per chi è cresciuto con la costante convinzione di essere al centro del mondo.
Saverio Sgroi
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