Come appare la malattia alla luce della Scrittura? Essa è essenzialmente una realtà in cui il malato è chiamato ad ascoltare nuovamente, a rileggere la sua condizione e la storia stessa. È un'ottica nuova da cui guardare la realtà. Il libro di Giobbe, il grande malato, lo mostra bene.
del 01 gennaio 2002
Un dato che colpisce leggendo i Vangeli è l’alto numero di malati nel corpo e nella mente (gli «indemoniati») che Gesù ha incontrato nel suo ministero storico. Possiamo supporre che l’incontro con questa umanità sfigurata dalla sofferenza abbia segnato in modo decisivo l’umanità stessa di Gesù nel senso della compassione e dell’attenzione all’uomo nel bisogno. La sua stessa missione viene espressa da Gesù con le parole: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori» (Marco 2,17). Dunque anche il piano teologico è implicato e le guarigioni che Gesù compie appaiono come «Vangelo in atti», come manifestazioni del Regno di Dio, come profezie del tempo in cui «nessuno più dirà: “Io sono malato”» (Isaia 33,24).
Ma come appare la malattia alla luce della Scrittura? Essa è essenzialmente una realtà in cui il malato è chiamato ad ascoltare nuovamente, a rileggere la sua condizione e la storia stessa. È un’ottica nuova da cui guardare la realtà. Il libro di Giobbe, il grande malato, lo mostra bene. La malattia «svela» la realtà, nel senso che la denuda, la spoglia di tutti gli abbellimenti e le mistificazioni e, mentre la mostra nella sua crudezza, la restituisce anche alla sua verità. La malattia ricorda all’uomo che la vita non è in suo potere, non gli è immediatamente disponibile, e che la sofferenza è il caso serio della vita. Certo, gli esiti della malattia sono plurali, mai scontati, sempre imprevedibili, e sono anche i più diversificati: abbrutimento, ribellione, rimozione, indurimento, ma anche semplificazione, ritrovamento del centro e dell’essenziale della vita, affinamento, purificazione... Nella malattia l’uomo è chiamato alla responsabilità di «dotare di senso» la propria sofferenza. La malattia non è portatrice di un senso già dato, anzi, per molti versi, essa distrugge i sensi e le finalità che l’uomo aveva attribuito alla sua vita. E questo vale anche per il cristiano: anch’egli, infatti, «non conosce alcuna strada che aggiri il dolore, ma piuttosto una strada – insieme con Dio che lo attraversi. Le tenebre non sono l’assenza ma il nascondimento di Dio, in cui noi – seguendolo – lo cerchiamo e lo troviamo di nuovo» (Erika Schuchardt).
Forse, la questione umana e spirituale più grave che oggi emerge circa la malattia è quella della sua riduzione a problema tecnico, che nasce dall’ottica esclusivamente clinica con cui la si considera sottraendola, di fatto, al problema del senso. In fondo, la dottrina biblica (ma diffusa anche nel Vicino Oriente antico: si trattava di un elemento culturale comune, non di un dato rivelato) che lega in qualche modo malattia e peccato cercava di rispondere al problema del senso della malattia innestandola in un contesto in cui essa diventava «leggibile»e poteva venire compresa, assunta, personalizzata e inserita in un quadro relazionale. Oggi assistiamo invece a una sorta di rimozione della malattia che si accompagna all’anestetizzazione del dolore: l’individuo è divenuto un formidabile «consumatore di anestesia» (Ivan Il’ic). Questa visione «tecnica» della malattia rischia anche di dimenticare che il malato è una totalità sofferente, e non può essere ridotto a un arto o a un organo sofferente all’interno di una visione parcellizzante che dis-umanizza e de-contestualizza la malattia estrapolandola dal suo innesto biografico. Il malato, e questo lo dovrebbe ricordare anche chi fa accompagnamento e assistenza ai malati, è anzitutto una persona. Appare qui anche la prospettiva ghettizzante di una «spiritualità cristiana dei malati»: «Non abbiamo bisogno di una farmacia spirituale, ma del buon cibo comune. I malati non chiedono una cappella di infermeria, ma la chiesa. Abbiamo bisogno solamente di una spiritualità ecclesiale. Non chiediamo che per noi si apra una nuova scuola di spiritualità, in cui tutti i problemi della vita siano esaminati e adattati alla situazione di coloro che hanno familiarità con il bacillo di Koch o con il morbo di Pott, e in cui tutto sia visto attraverso un’ottica di malati e in un odore di ospedale. Si smetta di rivolgersi a noi e di parlarci “in quanto malati” come se non si volesse sapere null’altro di noi; prima di essere malati, siamo degli uomini e dei figli di Dio». Così, già diversi anni fa, si esprimeva un’associazione cattolica di malati.
Il cristiano, di fronte alla malattia, si trova chiamato ad affrontare tutte le incognite che ogni uomo incontra nella malattia, ad attraversare le fasi che ne accompagnano l’insorgere e l’evolversi (si pensi alle fasi individuate dalla dottoressa E. Kübler-Ross: shock, negazione, collera, trattativa, depressione, accettazione, pace), a vedersi confrontato con reazioni che egli stesso non si sarebbe aspettato (disperazione o titanismo, rassegnazione o rivolta), e inoltre a comporre la sua nuova situazione con la fede. Egli potrà certamente trovare aiuto e conforto nella preghiera e nella fede, ma potrà anche porre radicalmente in crisi la fede e l’immagine di Dio fino ad allora conosciuta: il deperimento del corpo umano diviene anche lo sfaldarsi dell’immagine del Dio che di tale corpo è il creatore. Chi accompagna il malato non ha ricette da dargli, né tanto meno può fare del capezzale del malato il pulpito per una predica o una trattazione teologica. Nessun errore sarebbe più grave di quello di presentarsi al malato con un «sapere» (quel che il malato deve fare) che diverrebbe subito un «potere» che fa del malato non solo una vittima, ma anche un colpevole. L’unico aiuto che l’accompagnatore può dare è il porsi accanto, il mostrarsi presente condividendo la debolezza e l’impotenza del malato e attenendosi al quadro relazionale che il malato stabilisce. È il malato il maestro dell’accompagnatore, non il contrario. È con il malato che si identifica Gesù, non con chi va a trovarlo o con chi lo accompagna: «Ero malato e siete venuti a visitarmi» (Matteo 25,36). Anche nella chiesa, dunque, il malato va visto non in un’ottica semplicemente assistenzialistica, ma assunto come il portatore di un magistero: c’è da porsi al suo ascolto, da imparare da lui, nella sua situazione di debolezza.
Enzo Bianchi
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