In Malesia, dove i cristiani sono 2,6 milioni su una popolazione di 28 milioni, musulmana per il 60%, l'avversione nei loro confronti è cresciuta negli ultimi anni.
Centinaia di milioni di cristiani sperimentano ogni giorno i tormenti di vivere in ambienti ostili. In Malesia, dove i cristiani sono 2,6 milioni su una popolazione di 28 milioni, musulmana per il 60%, l’avversione nei loro confronti è cresciuta negli ultimi anni. Lo conferma la World Watch List 2014: dei paesi in cui i cristiani sono più perseguitati, la Malesia figura al 40° posto mentre si trovava al 50° nel 2012 e al 42° nel 2013. L’atto di violenza più recente è stato denunciato il 7 febbraio dai responsabili del cimitero cristiano di Tanjung Api, situato vicino a Kuantan, la città capoluogo dello stato di Pahang. Dei vandali si sono accaniti su otto tombe distruggendo le lapidi, spezzando le croci, riducendo in pezzi vasi di fiori e oggetti in pietra. Pochi giorni prima, la domenica del 26 gennaio, in molte chiese dello stato di Penang erano stati affissi da ignoti degli striscioni su cui era scritto: “Gesù è il figlio di Allah”. Contro una di esse inoltre erano state lanciate alcune bombe molotov che per fortuna non hanno ferito nessuno e non hanno provocato seri danni all’edificio.
Gli autori delle profanazioni, degli striscioni e dell’attacco dinamitardo non sono ancora stati individuati, ma si ritiene che a istigarli, così come a far crescere la tensione in tutto il paese, abbia contribuito la controversia, in corso da anni, ma acuitasi di recente, a proposito dell’uso della parola “Allah” da parte dei cristiani. Benché da secoli i fedeli di tutte le religioni praticate in Malesia, per indicare il loro Dio, usino il termine che in lingua malay sta per “Allah”, nell’ottobre del 2013 la Corte d’Appello ha ribaltato una precedente sentenza emessa nel dicembre del 2009, che autorizzava i cristiani a usare il termine, decretando che solo gli islamici hanno il diritto di servirsi di quella parola. In seguito alla sentenza, all’inizio di gennaio, i funzionari del Dipartimento Religioso Islamico dello stato di Selangor hanno fatto irruzione nella sede della Bible Society of Malaysia e hanno sequestrato 320 copie della Bibbia in lingua malay e iban, con la motivazione che in esse Dio è appunto indicato come “Allah”. Il blitz è stato criticato e denunciato come illegale dai leader cristiani: tra gli altri, da padre Lawrence Andrew, il direttore del settimanale cattolico Herald Malaysia, che per questo è stato fermato e interrogato dalle forze dell’ordine e fatto oggetto di minacce di morte. In una lettera pastorale, l’arcivescovo emerito della capitale Kuala Lumpur, Monsignor Murphy Pakiam, si è detto “terribilmente addolorato e dispiaciuto per i fatti occorsi negli ultimi tempi, caratterizzati dall’uso di parole offensive e dal rogo di alcune immagini che ritraggono padre Lawrence Andrew”, fatti che “equivalgono a un attacco complessivo contro l’intera comunità cristiana”.
La Chiesa non si è limitata alle proteste, ma ha deciso di presentare ricorso contro la sentenza. La richiesta d’appello è stata accolta e il 5 marzo si svolgerà la prima udienza. Nell’attesa, cresce il sostegno alla Chiesa malese da parte delle Chiese cattoliche e protestanti di tutto il mondo. Ultimi a esprimere la loro solidarietà sono stati il Consiglio metodista mondiale, Wmc, e la Chiesa evangelica luterana in America, Elca.
Il vescovo Ivan Abrahams, segretario generale del Wmc, ha indirizzato una lettera alla Federazione dei cristiani della Malesia in cui si è detto scioccato e costernato per il verdetto di ottobre. La decisione della corte d’appello – si legge nella lettera – è molto preoccupante perché attribuisce a una religione il monopolio di un termine universale e può portare in Malesia a una pericolosa frattura tra cristiani e musulmani, creando un pericoloso precedente in un mondo già diviso. Il vescovo Abrahams specifica di parlare in qualità di segretario generale di un organismo, il Wmc, che rappresenta più di 80 milioni di fedeli in 130 paesi, “tutti uniti nella preghiera affinché i malesi possano praticare la loro fede liberamente”.
Anche la Elca ha espresso la propria solidarietà con una lettera firmata dal vescovo Elisabeth Eaton che si è detta profondamente rattristata per quanto sta accadendo nel paese e ha posto l’accento sul fatto che il sequestro delle Bibbie, che ancora non sono state restituite, costituisce una violazione della stessa Costituzione malese poiché all’articolo 11 essa afferma di garantire libertà di religione.
Anna Bono
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