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Maria Canopi e Giorgio Israel sull'educazione.

Anna Maria Canopi, madre superiora della comunità monastica benedettina da lei fondata sull'isola di San Giulio e Giorgio Israel, insegnante di storia della matematica all'Università “La Sapienza” di Roma parlano di educazione...


Maria Canopi e Giorgio Israel sull'educazione.

da Quaderni Cannibali

del 25 febbraio 2008

L’esperienza di Anna Maria Canopi maturata nella clausura del monastero “Mater Ecclesiae” sull’isola di San Giulio

 

La sapienza libera le persone

 

“Nel silenzio meditativo e orante del mio monastero, su un’isola quasi esclusivamente abitata dalla comunità monastica, non sono al riparo da quanto avviene nel mondo, anzi, percepisco il fremito di tutto il disagio che esiste nella società del nostro tempo, causato dalla perdita dei valori fondamentali che danno senso e orientamento sicuro all’umana esistenza”.

Anna Maria Canopi è madre superiora della comunità monastica benedettina da lei fondata, trentadue anni fa, sull’isola di San Giulio, perla del Lago d’Orta: un perimetro di poche centinaia di metri, scelto fin dall’inizio della storia. Tracce di culti precristiani, e dal IV secolo una chiesa, la centesima, per il Santo greco che navigava sul suo mantello e cacciava serpi e draghi che infestavano il lago. C’era da lottare contro il paganesimo. Oggi, tocca evangelizzare per vincere il nuovo paganesimo.

Anna Maria Canopi è donna colta, studiosa di patristica e autrice di testi di spiritualità, di una memorabile Via Crucis per Giovanni Paolo II, nel 1993. È tra le personalità femminili più stimate e notevoli della Chiesa italiana. Una madre e maestra, per l’ottantina di monache che ogni giorno, nella clausura del Monastero Mater Ecclesiae, svolgono ricerche su testi antichi, traducono, restaurano tessuti preziosi, si adoperano per l’accoglienza e l’ospitalità. Il “mondo” non è lontano, il disorientamento psicologico e spirituale si fanno sentire, si fanno domanda.

 

Il disagio, la sollecitudine per l’emergenza educativa sono oggetto di riflessione continua.

Giustamente il Santo Padre nella sua Lettera ai fedeli di Roma va alla radice delle cause che generano la difficoltà di educare alla vita; vede cioè, oltre alla reale irresponsabilità di molti adulti o la mancanza e inadeguatezza della famiglia, anche quell’“atmosfera diffusa”, quella mentalità e cultura che fanno dubitare del significato della verità e del bene. Sono valori perenni e fondamentali che non si trasmettono automaticamente, ma per essere accolti richiedono sempre nuova capacità di discernere e di decidersi. È qui che entra in gioco la libertà della persona, la responsabilità cui nessuno può sostituirsi. Per rendere viva e rinnovata la tradizione, la visione della realtà nella sua verità assoluta, occorre maturità di giudizio e libertà interiore. Se la persona non è formata rimane in balìa dei propri istinti e della propria inconsistenza. La difficile impresa dell’educazione consiste proprio nel liberare la persona - i ragazzi e i giovani - dai molti condizionamenti dell’ambiente in cui vivono e nel ridare loro motivi di fiducia in se stessi e negli altri.

 

Ci vogliono adulti appassionati e lungimiranti.

Basterebbe essere affezionati. Ricordo sempre quel ragazzino che, mentre veniva esortato ad impegnarsi per essere buono, diceva:  “Tanto tutti dicono che sono cattivo...!”. Gli mancava di sentirsi amato e stimato. Per formare la persona l’unico metodo efficace è proprio quello della fiducia e dell’amore. I giovani, e non solo, sono affamati di dialogo e di amicizia. Soltanto l’amore è liberante, ma l’amore vero, quello illuminato e giudicato dalla fede, che vede nelle persone la presenza di un mistero insondabile, di una sacralità inviolabile. Se nei genitori e negli educatori manca il senso soprannaturale della vita e questa capacità di amare che sprigiona la potenzialità di bene, qualsiasi metodo educativo è inefficace.

 

La libertà riguarda anche il rapporto personale tra educatore e discepolo. Come far comprendere che non è autoritarismo guidare con autorevolezza, non condividere gli errori, “come se fossero le nuove frontiere del progresso umano”, per una presunta ricerca di amicalità?

È ovvio che l’amore vero non è privo di austerità e correzione, non è condiscendenza indiscriminata a tutte le richieste dei ragazzi e nemmeno si dimostra con una familiarità e un cameratismo che tolga autorevolezza a chi ha il compito di insegnare. Penso al “tu” dato dai ragazzi al prete e agli insegnanti; penso al triste fenomeno del bullismo, che denota non solo mancanza di coscienza del peccato, ma persino il gusto del male, del sadico:  e così pure tutti i comportamenti di immoralità nella sfera sessuale.

 

Ogni processo educativo esige rigore, disciplina. Ma sarebbe “ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domanda riguardo alla verità”. Oggi possiamo trovare educatori colti, magari anche amorevoli e giustamente severi, ma imbarazzati a sollecitare questa domanda, come se impedisse la libertà.

Se un diffuso psicologismo suggerisce che la libertà è lasciare a ciascuno l’arbitrio di regolarsi da sé, per non coartare la persona, non mancano le prove dei disastrosi risultati di un tale metodo pedagogico. Infatti, quando si lascia prevalere la naturale inclinazione, facilmente si è trascinati al male. Con estremo realismo il salmista dice:  “Un baratro è l’uomo e il suo cuore un abisso”. (Salmi 64, 7). Purtroppo i veri educatori, tali perché loro stessi ben formati e responsabili, bisogna cercarli con la lanterna di Diogene... Un’insegnante in crisi, piangendo, mi diceva:  “Se i ragazzi imparano dal modo di rapportarci tra noi colleghi, non possono che diventare peggiori...”!

 

Bisogna essere stati molto amati per insegnare ad amare. Chi sono stati i suoi mastri, gli adulti che hanno avuto il coraggio di fare delle proposte, e insieme muovere la libertà della ragione per giudicarle e così farle proprie?

La mia età mi permette di andare agli anni lontani, prima dell’esplosione del progresso (se così si può dire) che ha portato alla situazione attuale. I miei primi educatori furono i miei genitori che, avendo otto figli, ci hanno insegnato, soprattutto con l’esempio del loro amore umile e tessuto di sacrificio, a volerci bene e a vivere gli uni per gli altri. A scuola ho avuto pure insegnanti che hanno saputo appassionarmi al vero, al buono, al bello. E per quanto riguarda la scelta vocazionale, il sacerdote che mi guidava mi poneva semplicemente davanti il Vangelo e la parola di Gesù:  Si vis. Con consapevole e piena libertà ho detto sì senza esitazione né pentimento, perché il valore di una vita donata per amore esercitava il suo fascino su di me, e determinava la mia libera volontà.

 

“Anima dell’educazione può essere solo una  speranza  affidabile”. Perché oggi respiriamo questa crisi di fiducia nella vita?

Perché manca la fede e di conseguenza anche il senso della trascendenza, del necessario superamento dei limiti umani, per approdare alla realtà della vita eterna, alla “beata speranza” dei beni imperituri che il Signore ci promette.

 

Una risposta netta, limpida, una sapienza antica. Di chi osa nominare la Verità, perché l’ha lungamente desiderata e amata. Ma è anche parola di donna, tramandata recitando le orazioni, sera dopo sera. Una sensibilità femminile, materna, con che sguardo coglie le indicazioni del Pontefice?

Riesce a cogliere il tesoro della sapienza del cuore e il frutto di una vita tutta dedita alla ricerca della verità e al servizio della carità. Penso che ogni donna educatrice e formatrice non possa che trovarsi in piena sintonia con il sentire del Santo Padre, proprio perché alla base e al vertice dell’educazione sta l’Amore oblativo, e questo è, per grazia, particolarmente connaturale al “genio femminile”.

 

Lei come madre badessa ha un ruolo di guida, di responsabilità. È necessario un carisma riconosciuto, per essere educatori e maestri, o soprattutto quella “vicinanza e fiducia che nascono dall’amore”?

Infatti. La mia lunga esperienza di formatrice e di guida spirituale alla vita monastica mi conferma sempre più che veramente soltanto l’Amore fa crescere la persona e fa fiorire le anime nella santità, anche quando esse sembrano fili d’erba avvizziti, senza potenzialità di riprendersi. L’educazione è un miracolo dell’amore, dello Spirito Santo che agisce con tutti i suoi doni di grazia. E posso dire, con gratitudine e stupore, che di questi miracoli ne ho visti tanti e ne ho tanti sotto i miei occhi. Davvero, solo davanti all’Amore si spalanca la porta della speranza in un futuro di piena felicità.

 

 

Il ruolo della tradizione: a colloquio col matematico Giorgio Israel

 

I rivoluzionari? Tutti figli della tradizione

 

Giorgio Israel insegna storia della matematica all’Università “La Sapienza” di Roma. Il suo cognome denota l’appartenenza a un popolo, la sua storia familiare ne porta le ferite, e c’è la storia dell’Ebraismo e della sua religione all’apice degli interessi di questo uomo di scienza anomalo, perché osa porre e proporre il problema del significato dell’Essere, del destino, e la sfida esaltante e terribile della libertà dell’uomo. Così leggiamo sul suo blog e sulle pagine del settimanale “Tempi”, del “Foglio” o del “Corriere della sera” l’indignazione per l’impedita visita del Santo Padre alla sua università, in nome della libertà della ragione, perfino la difesa coraggiosa del Pontefice nelle polemiche sulla preghiera per gli Ebrei nel rito liturgico in latino, ricordando una vicinanza culturale e umana di antica data di questo Papa con i “fratelli maggiori”.

 

Gli abbiamo chiesto di confrontarsi con la Lettera sul compito urgente dell’educazione di Benedetto XVI, ancora scoprendo affinità profonde, di sostanza e di linguaggio. Innanzitutto l’importanza della tradizione, di ciò che è dato: e cita Hanna Arendt, che ha ispirato molto del suo prossimo libro intitolato Chi sono i nemici della scienza. Riflessione su un disastro educativo, in uscita da Lindau a fine mese.

La Arendt spiega benissimo l’apparente contraddizione tra tradizione e innovazione. La scuola non può che essere fondamentalmente conservatrice, ma proprio per consentire ai giovani di avere gli strumenti, al limite, per rivoluzionare il mondo. L’errore più grande che possiamo fare è non offrire ai nostri figli un’immagine compiuta della realtà in cui si trovano.

 

Chi gliel’ha offerta? Quale tradizione l’ha formata?

Quella della scuola italiana di allora, infinitamente migliore dell’attuale, come qualità dell’istituzione. E soprattutto l’educazione dei miei genitori, l’influenza di mio padre, che mi ha proposto il suo modo di vedere, e un grande amore per la conoscenza, razionale e scientifica. Era uno scienziato. Ma non aveva, diremmo oggi, una visione positivistica, ristretta, della ragione. Non accettava idee di tipo riduzionistico come quelle ora in voga. Aveva una visione religiosa, aperta. Diremmo ora che era “un ebreo riformato”, attento ai valori morali e alla dimensione universale dell’ebraismo. Ricordo le passeggiata con lui, la domenica pomeriggio, quando recitava a memoria brani delle Scritture. Un insegnamento forse un po’ difficile per un ragazzo, spesso è più semplice entrare nella religione per la via formalistica. Così quel che mi è stato lasciato ha inciso a scoppio ritardato, più che sul momento. Ma era, ed è, la via giusta.

 

Cito la Lettera, che sarà consegnata sabato 23 alla Diocesi di Roma. E cioè a tutte le diocesi:  “Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vano fatti nostri attraverso una, spesso sofferta, scelta personale”.

È chiaro che il richiamo alla tradizione non può essere conservativo, un ricorso al passato per restaurarlo. Ma gli strumenti della tradizione vanno offerti, proprio perché l’insegnamento non diventi pura metodologia. È il dramma che viviamo oggi.

Cartesio, che ha rivoluzionato il pensiero filosofico, è stato formato al collegio gesuita di La Flèche. Galileo era un aristotelico, in fondo. Ora si pensa invece che occorra proiettarsi in avanti, cioè nel vuoto, sostituendo ai contenuti la metodologia, “la scelta dei nullatenenti”, diceva Lucio Colletti.

 

Perché “oggi è più difficile educare”? Di chi è la colpa, se l’educazione è un problema impellente per i genitori e perfino per i loro figli, se è diventata un’emergenza?

Ha influito purtroppo la contestazione degli anni Settanta che ha distrutto la struttura dell’istituzione e il principio di autorità, che è essenziale nell’istruzione. Questi aspetti di antagonismo libertario si sono mescolati di recente con un atteggiamento di tipo tecnocratico per cui si oscilla tra due poli, entrambi sbagliati. Da una parte l’abbattimento del merito, quell’“assecondare negli errori, fingere di non vederli o peggio condividerli come se fossero le nuove frontiere del progresso umano”, come dice il Papa. Penso a una delirante indicazione della legislazione spagnola sulla scuola che afferma il diritto dei bambini a sbagliare. Sbagliamo tutti, sempre, ma bisogna educare al riconoscimento dell’errore, non all’esaltazione dell’errore! Si distrugge così l’idea dell’insegnamento a favore di un autoapprendimento, che riduce l’insegnante a una sorta di animatore culturale. Dall’altra parte si ripropone la scuola come impresa basata su principi di ingegneria gestionale, profitto, concorrenza. Ma la scuola non è fornitura di servizi o prodotti, pur eccellenti, ma qualcosa di peculiare in sé, cioè l’educazione, la conoscenza.

 

Ben povera è l’educazione se lascia da parte “la grande domanda riguardo alla verità”. È una parola invece che fa paura, si preferisce ignorare il suo provocante appello, o negarla.

Dicono che è dogmatismo, o superstizione. Una delle tragedie culturali del nostro tempo è ridurre tutto al problem-solving. Ciò che non è formulabile in termini di problemi risolvibili non è degno di considerazione. Mentre la capacità fondamentale sta nel porre i problemi, più che nel risolverli.

 

La scuola come luogo dove imparare a desiderare, a domandare. È questa la sua dimensione etica.

Qui sta il contenuto fondamentale, che si apprende prima di tutto in famiglia, ma prosegue di pari passo nella scuola. Faccio un esempio della confusione mentale che aleggia nei nostri esperti di istruzione. Si propone, per introdurre una sorta di liberismo, un’istruzione formata sulla domanda delle famiglie. E vengono fuori così i corsi sull’affettività, gli psicologi in classe. Ma è un’inversione di responsabilità grottesca. È nella famiglia che si costruisce la figura etica del ragazzo. Se la famiglia fa difficoltà a dargliela, facciamo allora delle politiche per la famiglia. Ma di per sé, la famiglia è impreparata a definire i percorsi disciplinari di un ragazzo. Deve farlo un’istituzione consolidata come la scuola, che viceversa non deve occuparsi di definire l’affettività, o la figura di “cittadino” del ragazzo. Una tale visione, purtroppo portata avanti anche da chi si dice cristiano, corrisponde invece a un’idea tecnocratica, laicista dell’educazione.

 

“Anima dell’educazione, come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile”. Non abbiamo dove posare la nostra fiducia, se non abbiamo un luogo e una strada per il significato esauriente del vivere, cosa possiamo trasmettere?

Questo è il tema centrale. Mi è capitato di discutere in una scuola con dei ragazzi, di esortarli ad avere un’ampia visione culturale, che tenga conto delle domande fondamentali dell’uomo. Chi può negare che ciò che ci interessa realmente è il tentativo di rispondere a chi siamo, dove andiamo, il senso del nostro essere qui ed ora. Ecco, si è alzato un solo ragazzo, tra più di duecento, dicendomi che non gliene importava nulla. Aveva la fidanzata, la moto, internet, amava la musica, Questo bastava.

 

Mentiva, se ne accorgerà al primo dolore, al primo desiderio insoddisfatto. Ma a volte è più comodo mentire, la ricerca seria ha bisogno di fatica, e di buone compagnie.

Tutti portano con sé queste domande, ma la nostra vita ha troppi stimoli di altro genere, dettati dalla tecnologia. Vere forme di alienazione, come un anestetico che ci fa dimenticare le vere domande e distrugge la capacità di rapporti affettivi, la sensibilità morale. Senza farci guardare le inquietudini che stanno riposte in fondo all’anima. Per questo la scuola in tutti i campi, letterario, scientifico, artistico, deve far emergere le domande che stanno dietro questa grande impresa del conoscere. Domande che forse non troveranno una risposta definitiva, ma solo tenerle vive fa acquistare un senso alla nostra avventura della ragione. Altrimenti, si agitano, latenti, al fondo di noi e si ripropongono semplicemente come incubi, emergono come patologie, da sfogare con la rabbia, o curare con gli antidepressivi.

AA.VV.

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