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«Mi chiedo quale è la volontà di Dio su di me».

L'interrogativo è giusto. Tipicamente cristiano, dato che per noi la vita è dialogo con Dio; dialogo che vede in Dio e non in noi il suo iniziatore e interlocutore principale.


«Mi chiedo quale è la volontà di Dio su di me».

da Quaderni Cannibali

del 17 dicembre 2010

  

 L’uso che si fa di tale domanda può essere molto ambiguo e addirittura fuorviante. Quando è così, è meglio distrarre da questa domanda e porre la sua complementare:  «E tu? Che cosa vuoi, tu, da te stesso?». La domanda giusta al momento giusto          Penso che la domanda circa la volontà di Dio su di me vada posta all’inizio di una scelta vocazionale. È la domanda di accesso. Se non c’è, l’inizio neanche c’è. Se un ragazzo o un adulto imposta o continua ad impostare la sua vita su una logica di auto-governo, l’idea che la vita si giochi su una dinamica di risposta a Qualcuno fuori di sé non lo sfiora neanche. E se lo sfiora, nella logica dell’autogestione l’appello divino gli apparirà come una restrizione alla propria libertà.            Dunque, la domanda circa la volontà di Dio è posta bene quando emerge da un modo di prendere la propria vita in chiave di risposta e da un certo modo di esercitare la propria volontà.Se la domanda non parte da questa disponibilità a farsi dono, a fare posto in sé ad un Altro, va a confondersi con il gioco di mosca cieca: indovina, indovinello… E come si può indovinare se si guarda solo al parere di Dio senza interrogare la propria vita passata e futura?            A volte, è proprio così. E allora la ricerca vocazionale si trasforma in un girovagare senza approdo.             Altre volte si presume di trovare la risposta, ma essendo staccata dal proprio contesto di vita, è più l’esito di un sentimento di colpa che del governo di sé a farsi dono.Nel viaggio della colpa la domanda circa la volontà di Dio trova una persona che si sente obbligata (obbligazione soggettiva della «spada di Damocle» anziché interpellata (obbligazione oggettiva di un appello ad incontrarsi). Nell’immediato la colpa funziona, ma con il tempo la persona troverà il modo di ricuperarsi la libertà di disporre di sé.            Dunque, l’attenzione è legare questa domanda circa la volontà di Dio a dinamiche di autogestione oblativa (i due termini non sono in contraddizione) e non di delega passiva, di responsabilizzazione e non di coercizione. Che cosa vuole Dio da te: che tu ti faccia francescano/a piuttosto che domenicano/a, che sposi Maria piuttosto che Ilaria…? Neanche la guida più esperta lo potrà mai sapere. Ciò che possiamo sapere con certezza (per evidenza di Vangelo) è che Lui vuole che tu faccia della tua vita un dono di te all’insegna della totalità dell’amore («con tutto il cuore…») e della sequela (come Gesù ha amato), su questa base ripercorri la tua vita e molto probabilmente vi troverai dei segni sul «che cosa» scegliere.             Quando la domanda su ciò che Dio vuole da me è posta bene? C’è un segno facilmente verificabile: quando la domanda è la conseguenza di una serie di esperienze (anche piccole) di donazione di sé. In questo caso è lo sbocco di una disponibilità a farsi dono già documentata. Invece, pende verso il lato dell’inconcludenza quando si poggia su propositi futuribili la cui realizzabilità trova poca documentazione. C’è già, oggi, qualcosa di quanto mi impegno a fare anche domani? Cercare per non cercare            Sottolineo la partecipazione attiva di chi si domanda perché domandarsi non vuol dire sperare in una risposta. L’esito non appartiene forzatamente o automaticamente alla struttura del cercare. La dinamica del decidersi è più complessa di quanto si pensi. L’ingenuità ci porta a ragionare così: la brava gente fa ciò che dice di voler fare, ossia vive secondo quanto promette. Non è così. Non perché la gente non sia brava, non perché ad un certo punto si rimangia la parola, ma perché il voler cercare non necessariamente contiene la clausola del voler trovare (così come promettere e mantenere la promessa non sono sinonimi).            A volte, quando si trova, si scappa… «Sarò bravo» può soltanto significare «ero stato cattivo»: un’espressione che pone termine ad un passato, ma non inizia un futuro; non dice la volontà di esserlo quando lo si dice in termini di passato, ma non di futuro. «Sarò bravo» può anche riferirsi solo al presente, sebbene declinato al futuro. Può cioè rispondere solo alle esigenze dell’oggi, quelle che servono per rispondere ai bisogni attualmente in azione che non necessariamente saranno gli stessi bisogni che si attiveranno in futuro: ad esempio la ricerca vocazionale che nasce da periodi di tristezza, crisi, delusione, superati i quali si dimentica. Non stiamo parlando dei «bamboccioni», ma di persone serie, con retta intenzione, partecipazione emotiva; eppure manca un motivo addizionale in più: quello di volersi prenotare in anticipo a registrare il proprio futuro sulla risposta che si troverà.  Progetto da gestire

            La parola gestire incomincia, così, a prendere il suo senso corretto, ben lontano dall’invito al soggettivismo o all’arbitrarietà. Gestire la propria vocazione = assumersene la responsabilità. Questa «auto-gestione» - clausola per una gestione in comunione- accompagnerà sempre la ricerca della volontà di Dio, anche quando (nel tempo della cosiddetta seconda chiamata) si dovranno risincronizzare le due volontà, soprattutto se la chiamata si svilupperà in sentieri non previsti.

           All’inizio del cammino la ricerca trova se è una ricerca disponibile al dono di sé. Con il passare del tempo, ciò che si è trovato va vissuto nella attuazione della disponibilità dichiarata. Se la vocazione è dialogo, il dialogo non è mai un monologo, ma contempla sempre entrambi gli interlocutori e, come ogni dialogo, gli interlocutori assumono registri e ruoli diversi. La vocazione è dono, ma anche conquista, frutto dell’azione di Dio, ma anche del nostro contributo, qualcosa di «suo» ma anche di «mio».  Fare la propria parte           So gestire la mia vocazione quando faccio la parte che è mia (Dio mi aiuterà, ma non si sostituirà a me). Faccio la mia parte quando vi metto questi elementi:   Identità personale: nel progetto di vita (cercato e/o trovato) sto giocando la mia dignità, la mia credibilità. Non si tratta di assumere buoni comportamenti e neanche buone virtù. Qui ci sto giocando il mio onore. Qui c’è da rimetterci la faccia!            Occorre, in altre parole, avere un chiaro senso (o rispetto) di sé, di Dio e della differenza fra sé e Dio, il che permette di assumere un debito reciproco. Temporalità: essere consapevoli che qualcosa detto oggi vincola più tardi. Pensare, quindi, in termini di futuro (e non solo – come detto prima – in termini di passato e di presente); prevedere le possibili reazioni alle situazioni in cui ci si potrà trovare; verificare il realismo delle aspettative; prenotarsi fin da ora a vivere in un certo modo domani… Motivazioni: chi si dà un progetto di vita deve essere consapevole che ha e avrà intenzioni conflittuali o ambivalenti per cui può ragionevolmente dubitare delle sue parole di oggi. Di qui, l’impegno per il discernimento personale, la vigilanza, la cura della propria scelta…            Alterità: il progetto si fa davanti a Dio, ma anche davanti agli altri. Contiene un elemento di rischio espositivo. Quindi: fare in modo che anche gli altri possano vedere la serietà di ciò che sto facendo, sapere che mi comprometto anche con loro, prevedere che con loro mi impegno ad essere in un certo modo e non in un altro…La forza della Parola di Dio è nella relazione. 

Alessandro Manenti

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