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Missionari, non supereroi

Negli ultimi mesi tre vicende di cronaca - due tragiche, una fortunatamente dall'esito positivo - hanno richiamato l'attenzione dell'opinione pubblica italiana su altrettante figure di missionari...


Missionari, non supereroi

da Teologo Borèl

del 11 ottobre 2007

Negli ultimi mesi tre vicende di cronaca - due tragiche, una fortunatamente dall'esito positivo - hanno richiamato l'attenzione dell'opinione pubblica italiana su altrettante figure di missionari: don Andrea Santoro, sacerdote fidei donum ucciso in Turchia il 5 febbraio 2006, suor Leonella Sgorbati, assassinata in Somalia il 17 settembre dello scorso anno, padre Giancarlo Bossi, rapito il 10 giugno nelle Filippine e liberato 39 giorni dopo.

 

Le loro storie - e quelle di molti altri missionari, italiani e non - sono la dimostrazione più drammatica, ma anche più «alta», che quella del martirio è una prospettiva tutt'altro che scomparsa dall'orizzonte dell'esperienza cristiana e che l'invito di Gesù a «dare la vita» per il Vangelo, a volte in senso letterale, vale anche nel XXI secolo. E pure chi, tra i missionari inviati «agli estremi confini della Terra», non è chiamato a versare il proprio sangue, manifesta una radicalità che suscita ammirazione (pensiamo solo a cosa significhi lasciare la propria terra e le agiatezze di un mondo ricco per immergersi in contesti spesso di forte degrado materiale).

 

Detto questo, ci pare vada evidenziato un rischio nascosto tra le pieghe di un certo «trionfalismo» cattolico: il rischio di mitizzare la figura del missionario, creando così una distanza tra un inarrivabile ed eroico modello e la quotidiana esperienza di testimonianza e annuncio del Vangelo a cui ogni cristiano è chiamato. Missionario, cioè, sarebbe solo colui (o colei) che parte, lascia tutto e si trova ad agire in contesti di estrema rischiosità o precarietà.

 

Missione equivarrebbe a un compito assegnato a una task force di pochi specialisti (colpisce, tra l'altro, il parallelismo terminologico con le «missioni spaziali» o le svariate mission impossible della cinematografia).

 

Tutto il contrario di quanto la riflessione teologica e il magistero della Chiesa vanno ribadendo da non poco tempo. Limitandosi ai soli Messaggi per le annuali Giornate missionarie mondiali (quella di quest'anno si celebra il 21 ottobre), si osserva la costante sottolineatura dei pontefici riguardo alla corresponsabilità e all'universalità della missione. Scrive, ad esempio, Benedetto XVI nel messaggio di quest'anno: «Per i singoli fedeli, non si tratta più semplicemente di collaborare all'attività di evangelizzazione, ma di sentirsi essi stessi protagonisti e corresponsabili della missione della Chiesa».

 

È ormai chiaro (ma non per questo acquisito) che, complici i processi di globalizzazione, la cosiddetta missio ad gentes assume nuove dimensioni, si muove su nuove frontiere, non per forza geograficamente lontane. Ci riferiamo in particolare all'urgenza di (ri)trovare la capacità di dialogare con il pensiero laico e con le grandi religioni, mettendo da parte ogni anacronistico desiderio di «conquista», impegnandosi invece nel proporre e condividere con gli uomini, tutti gli uomini, un cammino autentico di ricerca di senso. Partendo, come sempre, dalla propria personale conversione. Scriveva provocatoriamente Enzo Bianchi su queste pagine (Popoli, n. 10/2005): «Sappiamo mostrare una fede che plasmi la nostra vita a imitazione di quella di Gesù fino a far apparire in noi la differenza cristiana? La nostra vita propone una forma di uomo, un modo umano di vivere che racconti Dio, attraverso Gesù Cristo?».

Stefano Femminis, Direttore di Popoli

http://www.popoli.info

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