Intervista all'Arcivescovo di Trieste e presidente dell'Osservatorio Cardinale Van Thu√¢n, Giampaolo Crepaldi, sui temi della scuola.
Due motivi per cui è quasi d’obbligo dedicare questo colloquio alla scuola: prima di tutto per il Messaggio che voi Vescovi del Triveneto avete pubblicato nei giorni scorsi a proposito proprio dell’educazione (vedi il numero scorso di Vita Nuova); secondariamente perché la Chiesa italiana si prepara all’incontro del prossimo 10 maggio con Papa Francesco proprio sulla scuola. Al centro c’è il problema della libertà di educazione delle famiglie.
«Parlo volentieri della scuola. L’emergenza educativa era stata segnalata con grande preoccupazione da Benedetto XVI. Alla sua origine — aveva detto — c’è la crisi antropologica: non sappiamo più chi sia l’uomo che vogliamo educare. L’Osservatorio Cardinale Van Thuân, di cui sono presidente, aveva poi avvertito che abbiamo superato l’emergenza educativa e siamo ormai arrivati all’allarme educativo, in quanto sta facendo irruzione nella scuola un’ideologia che pretende di educare un bambino o un giovane astratto, né maschio né femmina, privo di un’identità naturale sessuata con la scusa di rispettare tutti gli orientamenti sessuali. Infine siamo intervenuti noi vescovi del Triveneto per segnalare il grave problema e per mettere in guardia da un’ondata che rischia di stravolgere il senso dell’educazione dei nostri bambini e giovani. È logico che, dato questo contesto, riemerga con forza straordinaria il problema della libertà di educazione delle famiglie».
Libertà di educazione vuol dire dare la possibilità alle famiglie di essere realmente protagoniste dell’educazione dei loro figli, che non sono sudditi di uno Stato che impone un pensiero unico, ma persone aperte alla verità. Come vede questo grande problema?
Se l’integrazione avviene nell’unica scuola di Stato il progetto educativo di quest’ultima deve abbassarsi e diluirsi, come oggi avviene; se l’integrazione avviene nella società civile con la partecipazione delle famiglia, l’integrazione avviene al rialzo, In cui le famiglie spirituali della società possano elaborare proposte educative secondo le loro legittime aspirazioni. La più grande rivoluzione da farsi in Italia è quella della scuola. E si tratterebbe di una rivoluzione non solo educativa, ma politica nel senso più profondo del termine. Sprigionerebbe entusiasmo, partecipazione, impegno, adesione a ideali, confronto e, soprattutto, la capacità di dare risposte, che poi si riverserebbero positivamente in altri campi della vita sociale. Favorirebbe l’iniziativa culturale, la circolazione delle idee, la mobilitazione dal basso, l’assunzione di responsabilità, la sana disputa ideale».
In Italia si continua a pensare che la sintesi debba avvenire nello Stato. Lei propone invece la centralità della società civile. Ma la società civile è pronta? Le famiglie sono in grado di assumersi spazi di sussidiarietà responsabile?
«Nulla in Italia sarebbe come prima se fosse attuata questa rivoluzione scolastica ed educativa. I modelli attuati già in altri Paesi e che possono essere applicati sono i più vari. È la sostanza che conta: la sintesi non avviene più nello Stato ma nella società civile. In questo modo anche la società civile si riqualifica. Per fare sintesi bisogna esserne in grado, ma finché non la si mette in grado non potrà mai farlo. La società civile rimarrà sempre subordinata, rilevante a parole ma nella sostanza in funzione ancillare rispetto allo Stato e, quindi, alla politica strettamente intesa. La liberazione e la maggiore età della società civile passa prima di tutto ed essenzialmente dalla responsabilità educativa. È dalla capacità di dare una proposta ai nostri figli, per il loro futuro, che si demarca la nostra assunzione di responsabilità e si definisce la stessa nostra identità di famiglie e di gruppi sociali. Se la proposta la fa solo lo Stato, le identità culturali si indeboliscono e la società civile diventa fluida e inconsistente».
In che senso il monopolio statale dell’educazione è negativo?
Quanti atteggiamenti da gregari, anziché da protagonisti, sono legati alla persistenza del monopolio statale sull’educazione! Burocrazia, uniformismo e conformismo, inerzia, attendismo, rivendicazionismo, dipendenza dalle circolari e dalle graduatorie, prevalenza degli aspetti quantitativi su quelli qualitativi. Quante energie civiche sarebbero invece espresse dalla libertà di educazione. Sarebbero premiati il merito e l’impegno, verrebbe valorizzata la formazione permanente e l’aggiornamento, si trasferirebbe nelle famiglie la valutazione sostanziale dell’insegnamento. Legata strettamente al monopolio scolastico statale c’è una gran quantità di gruppi corporativi e di rendite di posizione. Cambiare la situazione è cosa difficilissima proprio per queste enormi resistenze, ma i cattolici dovrebbero porsi questo obiettivo, ancorché difficile, come primario. Questo mio discorso non riguarda le singole persone. Molti dirigenti e insegnanti sono fortemente impegnati sul piano personale, ma il sistema presenta questi limiti».
Lei ha appena accennato ai cattolici. Perché i cattolici dovrebbero impegnarsi per la libertà di educazione?
«Perché se non si dà un luogo in cui la libertà dei nostri bambini e ragazzi si incontra con la verità, diventa impossibile che essi possano incontrare Cristo. Questo luogo deve essere un luogo pubblico perché la verità è di tutti e la libertà implica la relazione. Pubblico ma non solo statale. La scuola di Stato non è propriamente pubblica, perché è costretta a ridurre la portata del suo rapporto con la verità. La prima libertà è la libertà di educare, quando ci è tolto quella ci è tolto tutto. Senza questa libertà è compromesso anche il ruolo pubblico della fede cattolica, che sarebbe proponibile solo in ambiti ristretti o addirittura privati».
Però tra i cattolici ha ancora molto consenso la scuola unica di Stato.
«Non si tratta di smantellare la scuola di Stato, significa fare in modo che non sia più unica. Se l’integrazione avviene nell’unica scuola di Stato il progetto educativo di quest’ultima deve abbassarsi e diluirsi, come oggi avviene; se l’integrazione avviene nella società civile con la partecipazione delle famiglia, l’integrazione avviene al rialzo, nella sana competizione e nella progettualità».
Maggiore autonomia e libertà darebbe anche una educazione qualitativamente superiore? Perché?
«È tutto il Paese ad avere bisogno di questa rivoluzione politica. L’arretratezza della nostra scuola è sotto gli occhi di tutti sia per quanto riguarda la capacità di preparare e orientare i giovani alle professioni, sia per la caduta del livello qualitativo e strettamente formativo. Una maggiore flessibilità, la creazione di esperienze di eccellenza che facciano da traino e pilota, un vero rapporto con il territorio anche per un sano reperimento di fondi, una maggiore oculatezza nella amministrazione fatta in autonomia, una contrattualità sindacale differenziata sono tutti elementi di innovazione che farebbero respirare il sistema educativo nel nostro Paese».
Le difficoltà nell’educazione scolastica dipendono anche dalla frammentarietà del sapere trasmesso. Gli studenti sono spesso disorientati piuttosto che formati.
«Oggi abbiamo una organizzazione fortemente accentrata e una pluralità molto ampia di percorsi formativi sia nella scuola superiore che nell’università. Si tratta di rovesciare lo schema: pluralismo educativo e riordino maggiormente unitario del quadro del sapere, moltiplicazione sussidiaria dei soggetti educativi e raccordo tra le discipline. L’inseguimento delle microspecializzazioni va lasciato alle ultime fasi dell’istruzione universitaria e alla ricerca specialistica, per il resto il quadro del sapere deve venire semplificato e riorganizzato in modo più omogeneo. L’eccessiva specializzazione, l’artificiosità dei percorsi di istruzione, la libertà di insegnamento intesa individualisticamente producono smarrimento educativo in quanto il giovane ha bisogno sì dei particolari, ma dentro un quadro di senso unitario. Tale quadro di senso unitario non può essere dato dallo Stato, ma deve essere dato dai singoli progetti educativi liberamente assunti dai soggetti educativi della società civile dentro un quadro di riferimento valido per tutti che sopra abbiamo chiamato patto costituzionale sostanziale».
Anche l’Università avrebbe bisogno di sussidiarietà?
«L’Università ha bisogno, in modo particolare, di questa autonomia e libertà, in quanto è il livello di istruzione-educazione di maggior potenziale costruttivo per il Paese, con impatti molto importanti anche sull’economia e la vita sociale in genere. Il pluralismo educativo va applicato anche ad essa e questo libererebbe molte energie culturali e intellettuali a vantaggio di tutta la nazione».
Le rivoluzioni non si fanno però in un giorno…
«Si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione, dall’impatto molto forte sulle strutture, le normative, gli occupati, l’utenza. Serve quindi un progetto di lungo termine e graduale, che preveda interventi progressivi e lo spostamento di risorse materiali e umane dallo Stato ai nuovi soggetti della società civile, privati e del privato-sociale».
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