La morte del Cristo ci insegna a morire e a vivere. Essa appare non come un fato, un destino subìto, ma come un atto, l'evento culminante della vita. E appare vivificata dall'amore, l'amore di Dio per gli uomini; la divina passione di amore che diviene passione di sofferenza nella morte del Figlio per amore.
del 01 gennaio 2002
«Il mondo moderno è riuscito a svilire la cosa che forse è più difficile svilire in assoluto, perché ha in sé una specie particolare di dignità: la morte.» Queste osservazioni di Charles Péguy (1907) hanno dato da pensare a Theodor W. Adorno nelle sue Meditazioni della vita offesa (Minima moralia).
E fanno riflettere anche noi che, a distanza ormai di quasi un secolo, vediamo che nelle società occidentali la morte appare rimossa e, al contempo, spudoratamente esibita; resa oscena, cioè scacciata dalla scena dei vivi, estraniata dal mondo delle relazioni sociali, e spettacolarizzata, rappresentata impietosamente, quasi in un rito di esorcizzazione collettiva officiato dai mass media. Una società narcisistica cerca di rimuovere la memoria dei limiti, e anzitutto quell’evento, la morte, che ha il potere di annichilire tutti i deliri di onnipotenza dell’uomo. Ma in questa operazione anestetica si dimentica che noi ci priviamo dell’elemento che maggiormente ci aiuta a comprenderci, che costituisce il «caso serio» della vita, l’enigma che, nella sua irriducibilità, può divenire rivelazione, aprire squarci di senso sulla vita e, soprattutto, far uscire l’uomo dalla banalità e dalla mediocrità in cui spesso si rinchiude.
«Quando l’uomo vuol comprendersi, deve interrogarsi sulla morte» (E. Jüngel) e deve lasciar dispiegare la potenza scandalosa dell’interrogativo che la morte pone ed è. L’oblio della morte, il suo occultamento, comportano il rischio della disumanizzazione della cultura e della società. Come non ricordare che la presa di coscienza della morte, attraverso la visione di un uomo morto, è stato l’elemento decisivo, dopo la presa di coscienza della malattia e della vecchiaia, che ha segnato l’iniziazione alla via dell’illuminazione per il Buddha? E anch’egli, allora giovane principe vissuto sempre nei palazzi regali e protetto dalla cura patema che lo voleva preservare dalla visione del male del mondo, ha dovuto superare le barriere frapposte da questa volontà anestetizzante alla sua presa di coscienza della realtà della condizione umana.
Sì, è più che mai attuale il memento mori! E i cristiani, che al cuore della loro fede hanno l’evento della morte del Signore e della sua resurrezione, hanno una responsabilità e una diaconia nel tener viva la memoria mortis tra gli uomini. Non per cinismo, né per gusto del macabro, né per disprezzo della vita, ma per dare peso e gravità alla vita. Infatti, solo chi ha un motivo per cui morire, ha anche motivazioni per vivere! E solo chi impara a perdere, ad accettare i limiti dell’esistenza, sa farsi amica la morte. La morte del Cristo ci insegna poi a morire e a vivere. Essa, infatti, appare non come un fato, un destino subìto, ma come un atto, l’evento culminante della vita. E appare vivificata dall’amore, l’amore di Dio per gli uomini; la divina passione di amore che diviene passione di sofferenza nella morte del Figlio per amore. L’esperienza che noi facciamo della morte è connessa alla morte delle persone amate: con la loro morte muore anche qualcosa di noi.
E se l’amore è ciò che dà senso alla vita, esso ci porta perfino a considerare «evidente e logico» il perdere la vita per amore di un altro. Noi conosciamo e patiamo qualcosa della morte a misura del nostro amore, ma la morte è anche ciò che può mettere fine ai nostri amori, troncandoli da un momento all’altro. La morte è ciò che maggiormente sentiamo come estraneo ed estraniante, ed è anche la nostra proprietà più originaria, tanto che risulta semplicemente disumana l’attuale sottrazione della morte al morente negli ospedali: oggi, annota Norbert Elias, si muore molto più igienicamente che nel passato, ma anche molto più soli.
Il cristiano, che non pone la sua fede nell’immortalità, ma nella resurrezione da morte, sa che la sua fede non salta, ma traversa la lacerazione della morte, e sa che questa lacerazione drammatica è assunta in Dio. Sa che la morte non è solo una fine ma anche un compimento. Ed egli impara a vivere la morte come atto nella preghiera, nel donare tempo, cioè vita, a Dio nella preghiera. È anzitutto lì che la «nemica» morte può essere vissuta come vita per e con Dio così da essere resa «sorella». Vi è una sapienza che nasce dal «contare i giorni» (cfr. Salmo 90,12) cioè dall’assumere serenamente la limitatezza dei giorni, la dimensione della temporalità e la morte. Il credente può arrivare a vivere in modo pacificato e sereno tale accettazione, fondandosi sulla fede nel Dio che, come l’ha chiamato alla vita, così lo chiama a sé attraverso la morte: «Tu fai tornare l’uomo alla polvere quando dici: “Figli di Adamo, ritornate!”» (Salmo 90,3). Sì, la fede cristiana è anche una grande lotta contro la morte, e in particolare contro la paura della morte «che rende schiavi gli uomini per tutta la vita» (Ebrei 2,15).
Una lotta, non una rimozione; una lotta, perché la morte presenta sempre un volto nemico e ostile; una lotta in Cristo, perché molte maniere con cui noi cerchiamo di fuggire l’angoscia della morte sono peccaminose e idolatriche. Una lotta sostenuta dalla fede che non la morte ha l’ultima parola, ma Dio stesso e il suo amore, quell’amore che attraverso la morte introduce alla vita eterna.
Enzo Bianchi
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