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Natura e Ragione. Saggi di Antropologia

Realizzare che qualcosa non è un oggetto, ma è qualcosa di semplicemente reale, che è un essere in sé, è ciò che nel linguaggio della tradizione filosofica si chiama amore conforme a ragione o amor benevolentiae.


Natura e Ragione. Saggi di Antropologia

da Quaderni Cannibali

del 03 giugno 2010

 

           In cosa consistono la felicità della persona e l’ordine giusto di una società? E’ possibile dare adeguata fondazione al concetto di dignità dell’uomo e all’idea di diritto naturale? Che rapporto c’è tra natura e ragione? Tutti gli essere umani sono persone? Che cosa ha portato alla divisione tra naturalismo e spiritualismo? Che rilevanza ha la concezione evoluzionistica per la comprensione che l’uomo ha di se stesso?

 

           Sono queste alcune delle domande più attuali e urgenti a cui ha cercato di rispondere fin dagli anni Sessanta del XX secolo e nel corso della sua lunga carriera di filosofo, anche militante, uno dei più importanti pensatori tedeschi d’ispirazione cattolica: Robert Spaemann.

           Successore di Gadamer a Heidelberg, esponente di primo piano di quel movimento di pensiero atto a riabilitare, all’interno della filosofia contemporanea, il paradigma aristotelico della ragion pratica, assertore di una concezione della filosofia che debba porsi il compito di essere coscienza critica del proprio tempo, Spaemann si è interessato, in particolare, a problematiche riguardanti la morale e la bioetica, la politica e il diritto. Teorico di una sorta di ontologia sociale, antitetica all’idea di rivoluzione centrata sulla rottura radicale dell’ordine civile, ha rivendicato l’importanza di un concetto di ‘natura’ nei termini di una visione realistica, contrapposta a qualsiasi tentativo o tentazione di tipo utopistico (vedi per es. la critica a Rousseau).

           In Italia, purtroppo, è solo da pochi anni che la figura e le opere di questo grande studioso si stanno lentamente conoscendo e diffondendo. Se disponibili, ad esempio, sono le traduzioni di alcuni suoi testi fondamentali -bisogna ricordare almeno: “Per la critica dell’utopia politica” (1977), Franco Angeli, 1994; “Felicità e benevolenza”(1989), Vita e Pensiero, 1998; “Persone. Sulla differenza tra ‘qualcosa’ e ‘qualcuno’ ”(1996), Laterza, 2004- assai rari sono gli studi critici e sistematici a lui dedicati.

           Di recente pubblicazione in lingua italiana è, invece, un piccolo, ma prezioso testo di Spaemann -“Natura e ragione. Saggi di antropologia”, uscito nel 1987 e oggi tradotto per le Edizioni Università della Santa Croce. Costituito da quattro saggi e dedicato alla chiarificazione di alcuni temi antropologici fondamentali, il volume può certamente considerarsi un efficace invito alla lettura delle maggiori opere del pensatore tedesco e, come tale, può rappresentare un’occasione per introdurci, sia pure in modo del tutto sintetico, alla sua stimolante e articolata riflessione.

           Alla base del pensiero, secondo Spaemann, vi è un’esperienza umana elementare, precedente qualsiasi distinzione di pratico e teorico: l’apertura accogliente della realtà delle cose, nel loro originale e gratuito ‘essere-proprio’. Ovvero: l’atto, nello stesso tempo, di disvelamento e partecipazione verso tutto ciò che è, nel suo intrinseco -finale e non strumentale- valore di essere e di bene. Ora, se manifestazione e riconoscimento definiscono il nostro immediato rapporto con la realtà, da subito, viene alla luce l’intimo nesso tra metafisica ed etica: percepire le cose nel loro ‘essere-proprio’ significa, infatti, riconoscere sia la gratuità del loro essere in sé, sia la finalità della loro ‘natura’. In questo modo, conoscere e amare le cose che sono perché sono, avere nei loro confronti un atteggiamento non di dominio e possesso (amor concupiscentiae), ma di cura e rispetto (amor benevolentiae), risultano momenti strettamente intrecciati di un’unica, ontologica ed etica, esperienza.

           “Realizzare che qualcosa non è un oggetto, ma è qualcosa di semplicemente reale, che è un essere in sé, è ciò che nel linguaggio della tradizione filosofica si chiama amore conforme a ragione o amor benevolentiae”. E’ solo su questa base, che si fonda la possibilità di un’autentica felicità o riuscita dell’essere umano in quanto compimento perfettivo e secondo ragione della sua ‘natura’ finalisticamente strutturata.

           Originaria e fondativa è, dunque, la nozione di ‘natura’ (physis), vista nel suo essenziale carattere di ‘finalità’. Ripercorrendone il concetto all’interno delle vicende della storia del pensiero, Spaemann si richiama ad Aristotele (nonché a Tommaso e a Leibniz): la natura è l’essenza di tutto ciò che ha in se stessa un principio, un inizio di movimento. In analogia con l’essere umano, le ‘cose’ non sono opache, ma sono ‘natura’, cioè, qualcosa che esiste da sé e che, costituito da un ‘tendere a’, un conatus o impulso, è in grado di manifestare qualcosa di sé: la sua intrinseca finalità. In particolare, è la natura umana, in virtù delle sue inclinazioni e tendenze, a rivelare alla razionalità la sua interiore costituzione teleologica, ovvero la sua propria finalità.

           Bisogna, tuttavia, evidenziare e chiarire l’ambiguità del concetto di ‘natura’. “La ‘conformità con la natura’ in effetti non è qualcosa che c’è ‘allo stato naturale’, ma precisamente quello che corrisponde pienamente al concetto di ciò che è secondo ragione”. In questo senso, ciò che è secondo ragione definisce un nomos, una legge. Si impone, di conseguenza, una distinzione: tra ciò che è naturale, nel senso di ‘spontaneità’, e ciò che è naturale in senso ‘normativo’, in quanto le inclinazioni naturali rappresentano delle indicazioni che l’umana ragione disvela ai fini dell’azione. Da questo punto di vista, si potrebbe affermare che l’uomo è il luogo della natura in cui la natura diviene cosciente di sé. Il compimento della natura, infatti, è nella ragione; mentre la ragione coglie e legge le intrinseche potenzialità e inclinazioni insite nella natura.

           O, ancora: la natura giunge a sé solo come ragione; mentre la ragione, d’altra parte, è la forma della vita. “Soltanto ciò che è secondo ragione è il venire alla luce della verità su ciò che è secondo natura e questo venire alla luce si trova esso stesso inscritto nella teleologia della natura”. Tutto ciò è reso possibile dal fatto che la natura umana presenta un originale movimento di ‘autotrascendenza’, manifestativo della sua intrinseca costituzione finalistica. “L’uomo, trascendendo la natura, la conduce in un certo senso per la prima volta a se stessa. Soltanto in lui diviene visibile quello che la natura è davvero per se stessa, perché soltanto in lui la struttura tendenziale che è propria della natura…si presenta come libero volere e libero riconoscimento di un motivo e di un fine non posti da sé”.

           Questo significa che l’essere umano non si dà nei termini di un puro principio trascendentale posto di fronte ad un mondo di fatti esteriori e neutrali. Se così fosse, qualsiasi motivazione all’azione risulterebbe incomprensibile. Piuttosto l’uomo, in virtù di una sua intrinseca finalità, è, nello stesso tempo, soggettività razionale mai del tutto scissa da una certa naturalità ed essere vivente mosso da finalistiche tendenze e inclinazioni a cui subentra successivamente la ragione.

           Come non vi è opposizione tra natura e ragione, allo stesso modo, non ve n’è tra natura e libertà. Se esiste una verità del naturale, ossia, una finalità, già data, inscritta nelle potenzialità della propria natura, la libertà, infatti, non si dà come radicale autosufficienza e totale possibilità di scelta. Essa, invece, consiste nella attuazione delle caratteristiche tendenziali della natura dell’uomo, ovvero, nella realizzazione, razionalmente e intenzionalmente voluta, delle finalità insite nelle proprie inclinazioni. Viene così radicalmente messa in discussione l’idea fondante l’ethos occidentale contemporaneo: la libertà intesa come assoluta autonomia e autodisposizione, sradicata da legami e tendenze naturali, priva di una sua oggettiva finalità. Un’idea, nichilistica, di libertà che sta alla base dei modi oggi prevalenti di considerare la qualità dell’esperienza umana nei diversi ambiti in cui si gioca il suo destino: vita e morte, sessualità e affetti, maternità e paternità, famiglia e genitorialità, etc.

           Secondo Spaemann, dunque, il criterio di senso del vivere umano non può consistere in qualcosa di arbitrario, dipendente dalla libera scelta della volontà, ma, ancorandosi alla ‘natura’, deve basarsi su un oggettivo fondamento ontologico, di tipo finalistico. Più precisamente, su una prospettiva ontologica, nel senso classico del termine: la persona, infatti, non è una somma di qualità empiriche, come pretende una concezione di tipo nominalistico, ma è “una sostanza che non si mostra come tale, rispetto alla quale le qualità empiriche sono soltanto la forma di manifestazione che emerge dall’esterno”.

           Se così non fosse -se la persona non fosse tale in virtù della propria natura, del suo ‘essere-proprio’, ma il suo valore dipendesse da un determinato stato o attributo- riconoscere ‘diritti’ non solo a neonati e malati di mente, a individui affetti da demenza senile e generazioni future, ma, addirittura agli stessi dormienti, come tali privi di consapevolezza razionale, diventerebbe assai problematico, se non impossibile. La ‘natura’, pertanto, è l’unico modo non arbitrario di affermare il valore dell’uomo nel suo essere, in quanto tale. Essa sola è in grado di fondare il riconoscimento della dignità di persona a qualunque uomo, di qualunque condizione, nonché di giustificare, in modo adeguato, il diritto naturale, nelle sue diverse articolazioni.

           Se non esistesse una verità delle cose, ogni nostro discorso, come, infatti, afferma Michel Foucault, farebbe violenza alle cose e sarebbe funzionale alla volontà di potenza di chi lo mette in atto. “Soltanto a questa condizione ha senso parlare di diritti umani. Soltanto a questa condizione non è dato a determinati uomini l’arbitrio di conferire o levare, a loro discrezione, ad altri uomini i diritti umani”. Come già acutamente affermato da C.S. Lewis -nel suo importante saggio “L’abolizione dell’uomo”, citato da Spaemann- rispettare la persona significa, allora, rispettare la sua natura e le sue leggi. Paradossalmente, poi, se l’uomo non fosse considerato come fine a sé stesso sic et simpliciter - se la sua dignità fosse non un valore in sé, ma relativa ai soggetti che esprimono valutazioni, per i quali ogni valore è tale soltanto in quanto frutto di una valutazione -bisognerebbe allora concludere che “non si può dire che sia un delitto la distruzione della totalità dei soggetti capaci di dare giudizi di valore.

           Questi soggetti infatti non hanno subito alcuna perdita se scompaiono”. Scomparsi i soggetti, scompaiono anche i valori che sono relativi ai soggetti che li esprimono.

           Alla luce di queste considerazioni si comprende l’ulteriore, forte, tesi di Spaemann secondo la quale la civiltà moderna, fondata sulla scienza di tipo cartesiano, “rappresenta per la dignità dell’uomo una minaccia quale non è finora mai esistita”. Essa, presentando l’ideale di una radicale oggettivazione del mondo, esclude ogni legame tra soggettività e oggettività e nega alla natura, ridotta a meccanicità materiale, qualsiasi elemento di finalità. Tutto ciò ha accresciuto in modo inimmaginabile il dominio dell’uomo sulla natura, ma ha anche condotto ad una visione di tipo scientistico. Ormai è lo stesso uomo a essere nient’altro che il termine di un’oggettivazione di tipo sperimentale: inteso in quanto essere meramente naturale, viene svuotato delle sue prerogative di soggetto e ridotto a pura esteriorità, osservabile e manipolabile.

           Secondo Spaemann, di fronte a questi rischi di riduzionismo, è necessario garantire la dignità dell’essere umano e per questo, affermando la centralità del concetto di finalità, identificare in essa il criterio base di una lettura unitaria, ontologica ed etica, dell’esperienza umana: essere e bene, intelletto e volontà, persona e natura, ragione e vita, libertà e physis. In questo modo, ciò che la modernità ha diviso a causa di un atteggiamento di ‘inversione della teleologia’, è possibile ora, grazie alla finalità, non separare, ma ritrovare, giustificando, in chiave sintetica, il vissuto umano. E tutto ciò, appunto, sfidando e superando gli opposti e complementari dualismi tipici dell’età moderna. A cominciare dalla frattura cartesiana tra res cogitans e res extensa, proseguendo attraverso l’incommensurabilità di storia e natura in Rousseau, la rottura kantiana tra ragione teoretica e ragione pratica, la scissione tra idealismo e materialismo/positivismo, fino alla più recente dialettica tra spiritualismo e naturalismo, fenomenologia ermeneutica e scientismo.

           E’ all’interno di questo contesto, infine, che Spaemann affronta i problemi relativi alla teoria dell’evoluzione, rispetto a cui, oggi, è prevalente una lettura ideologica in chiave riduzionistica. Innanzitutto, occorre precisare che circa la concezione che l’uomo si fa di sé “il paradigma scientifico dell’evoluzione è neutrale fintanto che non si lega a una determinata interpretazione filosofica … l’evoluzionismo”. D’altra parte, va, tuttavia, evidenziato come i nuovi teorici dell’evoluzione, pretendano, al contrario, “con un certo fervore missionario”, sia di ricostruire, nel quadro di una scienza ateleologica, la ‘genesi’ della soggettività dell’uomo, sia, in questo modo, di rispondere alla domanda circa il ‘valore’ e la ‘validità’ degli imperativi morali. Da un lato, vi è l’olismo scientista di Quine per cui la conoscenza è solo conoscenza scientifica.

           Dall’altro, vi è il mutismo a cui il Wittgenstein del Tractatus condanna ogni soggettività di fronte al tentativo di una sua ricostruzione scientifica. In mezzo, si ha, appunto, uno scientismo di tipo evoluzionistico che riduce in chiave funzionalistica, -in termini, cioè, di utilità alla sopravvivenza- gli stessi contenuti dell’ esperienza etica. Ora, a questo proposito, secondo Spaemann, è necessario distinguere la questione della ‘genesi’ da quella del ‘valore’. “Non comprendiamo meglio le più semplici formule matematiche per il fatto di possedere un’ipotesi verosimile sull’evoluzione del nostro cervello”. Allo stesso modo, “che cosa sia la vita buona non si può dedurre dalle condizioni di tale genesi”. Ciò, d’altra parte, non significa opporre i due punti di vista, i quali anzi possono trovare una loro conciliazione sulla base di una prospettiva platonico-aristotelica.

           “Ovvero concependo l’evoluzione in un modo tale che l’esercizio di certe forme di comportamento, per quanto spiegabile in termini funzionalistici, sia però una condizione perché a un certo momento, improvvisamente, si possa spalancare una dimensione di esperienza affatto nuova”: la dimensione dell’incondizionato, dell’assolutezza dei valori, che una visione di tipo evoluzionistico non può adeguatamente interpretare. Più precisamente, ciò che l’evoluzionismo, in chiave funzionalistica, non è in grado di ricostruire è la genesi della ‘negatività’, nei suoi tre livelli: come dolore; come diversità; e, appunto, come idea dell’ assoluto. Il ‘dolore’, infatti, per il soggetto che lo patisce, è ciò che non dovrebbe essere. Una realtà conosciuta ‘diversa da noi’ non è una nostra funzione, un nostro stato o proprietà.

           La nozione di ‘assoluto’, infine, contiene la negazione di ogni relatività, di tutto ciò che si riferisce a noi. In tutti e tre i casi, contro ogni riduzionismo evoluzionistico, si va al di là di una concezione naturalistica legata al concetto di funzionalità e adattabilità. Questa esperienza della ‘negatività’ si collega, poi, a quella della ‘alterità’: un altro è visto in quanto altro, quando non è in funzione nostra, ma è “un essere tale che non è in sé perché è per me”. In questo modo, affermando l’esistenza delle sostanze individuali, si critica ancora la teoria evoluzionistica laddove essa sostiene non esistano unità discrete che siano identiche a sé e differenti dalle altre: ciò che esisterebbe sarebbe soltanto il continuum del processo del divenire. Secondo Spaemann, invece, è fondamentale valorizzare un’ontologia di tipo sostanzialistico: senza di essa non è possibile concepirci come soggetti propriamente umani e saremmo inevitabilmente condotti alla messa in discussione della stessa nozione di dignità umana.

           Nello stato di generale confusione che caratterizza il tempo presente, il pensiero di Robert Spaemann si distingue per forza e profondità, per la capacità di andare al cuore dei problemi e per il coraggio delle soluzioni che propone, sfidando la corrente relativistica delle posizioni intellettualmente dominanti e della mentalità comune oggi prevalente. Non resta che augurarsi che le riflessioni da lui svolte e le tesi da lui sostenute possano essere, anche da noi, ulteriormente conosciute e discusse, non solo a livello accademico, ma, dentro la società, nel vivo del dibattito culturale e civile.

Guido Rivolta

http://www.culturacattolica.it

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