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Non c'è un impedimento così grave da rendere impossibile l'educazione

Il cuore dei figli dell'uomo Dio lo fa ancora uguale. Li mette al mondo con lo stesso desiderio, la stessa passione, gli stessi bisogni di sempre.


Non c'è un impedimento così grave da rendere impossibile l’educazione

da Attualità

del 13 settembre 2010

         

          Alcuni di voi sanno che sono tornato a scuola dopo otto anni: avevo lasciato l’insegnamento nel 1999 e per otto anni mi sono occupato – credo seriamente – di riforme varie, ho bazzicato il Ministero, le Commissioni (prima Berlinguer, poi Di Mauro, poi la Moratti, poi questo…) e avevo avuto l’impressione, da là, di un sommovimento notevole, ed ero preoccupato, tornando a scuola, di non essere capace di riorientarmi, di ritrovarmi in una scuola che avesse subìto tante e tali mutazioni.

          Sono andato a scuola e l’è cambiaà nient (lo dice in dialetto – non è cambiato niente) e vi giuro che la cosa mi ha veramente folgorato. Gli amici che sono qui e che mi conoscono, mi sono testimoni che quest’estate un po’ affannato e un po’ intimorito chiedevo: “ma dimmi, ma spiegami…”.

          Invece non è cambiato neanche il registro del professore: è ancora quello che avevo otto anni fa. E guardate che se non cambia il registro, cioè se non cambia la valutazione, vuol dire che non è cambiato veramente niente. Lo dico nel bene e nel male. Lo dico nel bene, perché questo, da una parte, mi ha fatto tirare il fiato, perchè vuol dire che l’esperienza che ho vissuto 10 anni fa e nei 20 anni precedenti, si può ripetere oggi allo stesso modo. Per dirla proprio in positivo: non manca niente perché io domani possa educare.

          Per nessuno di voi, domani, quando entra in classe, c’è un impedimento così grave da rendere impossibile l’educazione, perché non è cambiato niente, cioè non è cambiato l’essenziale. Non è cambiato il nostro impegno di adulti ad essere testimoni di una speranza in questo mondo di disperati, e non è cambiata l’attesa dei ragazzi: è la stessa di 10 anni fa, è la stessa di 30 anni fa quando fui ragazzo io, è la stessa di 100 anni fa, come ha detto bene il Papa a Roma in un incontro a cui io ho potuto partecipare. Il cuore dei figli dell’uomo Dio lo fa ancora uguale.

          Li mette al mondo con lo stesso desiderio, la stessa passione, gli stessi bisogni di sempre. Da questo punto di vista, in barba a tutte le riforme, avvenute o non avvenute, in barba a tutte le promesse, mantenute o non mantenute, in barba anche a tutte le difficoltà che purecontinuano e si aggravano, nulla impedisce al rapporto tra gli uomini di essere educativamente significativo, se no le famiglie farebbero bene a smettere di fare i figli e noi faremmo bene a chiudere tutte le scuole.

          Ma non è così: domani mattina l’educazione – incredibile a dirsi – può avvenire. La seconda cosa la dico in negativo, invece. Che cosa mi colpisce in negativo di questo “non è cambiato niente”? Che vuol dire che la scuola è malata, perché se non è cambiato niente in un mondo che cambia così in fretta vuol dire che la scuola sta andando indietro, sta perdendo terreno, è moribonda. Ora che ho alle spalle questa esperienza, questi otto anni di lavoro in quel contesto, capisco che è una tentazione grave quella di ritenere risolta la mia responsabilità di educatore nel momento in cui mi chiudo la porta della classe alle spalle, cioè di ritenerla risolta nel rapporto personale con gli alunni.

          E’ una tentazione cui non ho mai ceduto del tutto, però devo dire che ci sono stati dei momenti in cui anche io ho pensato così. Oggi non può più essere assolutamente possibile, non ci credo più. Cioè: o l’educazione è una responsabilità condivisa, portata insieme fino alle sue conseguenze civili, sociali e politiche, o non c’è. Non è che fai di meno, non fai proprio. E’ come il papà e la mamma bravi, buoni, sante persone, che chiusa la porta di casa, per il bene che vogliono ai figli, per il bene che si vogliono tra loro, si illudessero di avere risolto il problema educativo. E invece l’efficacia della loro testimonianza sta nel fatto che di fronte a tutto ciò che accade nel mondo reagiscono e giudicano.

Se no i figli, quando diventano grandi, alla lunga, del bene di cui pure hanno goduto non se ne fanno niente. Non hanno un criterio sufficiente per affrontare il mondo intero. L’educazione dei loro genitori deve comprendere una testimonianza e un giudizio dato fino al livello politico. Insomma, la dico come la sento io, io che io sono figlio spirituale, come tanti tra voi, di un prete che a 80 anni, malato e in poltrona, aveva un soprassalto al sentire le notizie di Nassirya o dello Shuttle e prendeva carta e penna e giudicava quel che nel mondo accadeva. Di questo educatore io sono figlio e noi siamo figli.

          E allora due genitori che si illudessero che volersi bene tra loro e volere bene al figlio basta ad educare il figlio, sbagliano. Non sono veri educatori, perché manca una dimensione essenziale e propria dell’educazione che è il giudizio su tutta la realtà. Quel che io capisco, e che mi hanno aiutato a capire in modo decisivo questi otto anni è che non posso illudermi della bontà del rapporto che ho con i miei alunni, non posso illudermi neanche della evocazione positiva che magari riesco a suscitare in loro perché non è ancora educazione, se non è la testimonianza di una passione da adulto all’ambiente in cui lavoro.

          Non è vera educazione se non è una passione testimoniata per tutto il mio ambiente di lavoro, per le sue forme, le sue leggi e le sue regole, se non mi entusiasmo e non giudico la riforma di Formigoni e la proposta e la sfida lanciata da Giovanni e, insomma, se non faccio Diesse – per dirla brutta e per dare soddisfazione anche alla Mariella. Non capisco più il mio mestiere di insegnante se non arrivo fin lì. Cioè se non considero l’opportunità, la necessità di essere insieme ad altri Del resto come faccio a ritenermi autosufficiente? Ho una classe che mi interpella e chiede a me competenze che non ho.. dove le vado a prendere? Bisogna che prenda il telefono e chieda alla Mariella.

          Mi sono ritrovato con un kosovaro, due indiane, due rumene, è arrivata l’altro giorno una peruviana, e poi ci sono 15 bergamaschi: provate voi ad insegnare in una classe multietnica siffatta. Sul bergamasco me la cavo: quel gruppetto etnico lo seguo io e ci sta, ma per parlare con tutti gli altri ho bisogno veramente di strumenti che non ho più. Ho bisogno di voi, ho bisogno di qualcuno che abbia fatto il seminario sull’Islam, ho bisogno di qualcuno che abbia fatto il seminario sull’autonomia… ho bisogno. Diesse è questo bisogno che prende forma e vale per tutti, secondo me: è inevitabile che sia la forma della nostra responsabilità e del nostro lavoro, sia dal punto di vista di un aiuto curriculare e disciplinare sia dal punto di vista di una responsabilità sociale o politica.

          L’assordante silenzio’ cui ha fatto cenno Formigoni prima è terribile! Provate a pensarci: genitori che si inalbererebbero, brucerebbero i cassonetti delle immondizie per le strade se fossero costretti a mangiare la pizza in un certo posto o ad andare al cinema in un certo posto, se ne strafregano del fatto di essere sotto il tallone di uno Stato che stabilisce chi deve educare i loro figli.

          Non posso non rispondere fino a questo livello: fa parte della mia responsabilità di insegnante.

Franco Nembrini

http://www.ricciscuole.it

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