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Non chiamiamoli i figli del disagio (Giovani Oggi - 5° e ultima puntata )

Parla lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet: «Tutte le generazioni hanno sempre criticato moltissimo i loro adolescenti: il fatto nuovo è che non si ribellano più, anzi sono contenti di quello che hanno. E amano soprattutto la famiglia». «Difficile dire quale sia il modello educativo migliore, se l'attuale o il precedente. Certo è che oggi i ragazzini crescono più espressivi».


Non chiamiamoli i figli del disagio (Giovani Oggi - 5° e ultima puntata )

da Quaderni Cannibali

del 01 febbraio 2005

 Dice Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e psicologo: «Con la parola giovani, nel nostro Paese, si fa riferimento a una realtà molto complessa che diventa più precisa se si usano i termini adolescente, per riferirsi ai ragazzi che frequentano la scuola media dell'obbligo e le superiori, e giovani adulti, quando si parla di ragazzi fra i 18 e i 23-24 anni, che frequentano l'università o si sono da poco inseriti nel mondo del lavoro. Sono, entrambi, figli di un modello educativo diverso dal passato, e, in maniera diversa dal passato, interpretano il passaggio dall'infanzia all'età adulta».

 

Qual è il cambiamento più significativo?

«Riguarda il modo differente che hanno avuto i genitori, negli ultimi decenni, di guardare al loro cucciolo».

 

E cioè?

«Padri e madri ritenevano di dover civilizzare il piccolo selvaggio, quindi di dovergli somministrare molte regole e confrontare la sua natura, ritenuta avida, ingorda, sregolata, con i valori e i principi della civiltà. Da qualche anno, invece, guardano a lui come a un cucciolo alla ricerca di affetto, di presenza, di tenerezza. È un bambino che nasce molto buono e, nella maggior parte dei casi, i genitori reputano che, essendo unico, sia prezioso, e anche intelligente, o, perlomeno, dotato di capacità che loro debbono aiutare a sviluppare e potenziarsi. Questo cambiamento fa sì che il modello educativo non sia più intenzionato a farsi obbedire per paura dei castighi, delle sanzioni, o per la colpa accumulata nei confronti della trasgressione ai principi e ai valori, ma per amore, in nome della qualità della relazione e della presenza affettiva che il padre e la madre garantiscono. E il bambino diventi una bella persona, capace di giocare ed essere gentile coi coetanei, di inserirsi con successo nell'ambiente scolastico, sportivo, associativo, eccetera: insomma diventi famoso, prima nella famiglia, poi nel condominio, poi nella scuola, eccetera».

 

Come si conciliano qualità della relazione e presenza affettiva con il poco dialogo, o il silenzio, che prevale nelle famiglie?

«Perché dice questo? Tutte le ricerche professionali più serie, convalidate da anni di esperienza, come quelle dello Iard, per esempio, del Censis, dell'Eurisco, mettono in risalto come i giovani siano contentissimi della famiglia, che è sempre al primo posto nelle classifiche delle cose che vanno bene. Siamo il Paese che, in tutto il mondo, fa meno bambini e quello in cui i figli soggiornano all'interno della famiglia più a lungo. Il 62 per cento delle signore e dei signori sopra i 30 anni convive con la mamma e con il papà. La lunga permanenza quanto meno significa che i rapporti sono, non dico buoni, pacifici: se fossero conflittuali, frustranti, insoddisfacenti, fondati su un silenzio opaco e polemico, le separazioni avverrebbero più precocemente, come tutti i sociologi della famiglia si aspettavano».

 

Non incide alcun aspetto socio-economico?

«Può essere. Ma non è così. La lunghissima permanenza all'interno della famiglia consente ai ragazzi di esprimersi e di raggiungere livelli di autonomia, di libertà e di realizzazione sociale molto elevata. La famiglia ha stravinto tutte le battaglie».

 

Il disagio giovanile è un'impressione?

«I ragazzi non pensano affatto di essere disagiati. I docenti, nelle scuole, sono con le mani nei capelli perché hanno difficoltà ad aiutarli a ritrovare la motivazione allo studio. Ma non possono cambiarli: sarà meglio che cambino la scuola. E i genitori sono preoccupati perché si rendono conto che essere adolescenti oggi, nel contesto non solo metropolitano, sia il principale fattore di rischio, rispetto ai disturbi della condotta alimentare (anoressia, bulimia), della tossicodipendenza, della devianza, dei suicidi, eccetera. Hanno generalmente un figlio unico, fatto in tarda età, oggetto di attenzioni, cure, aspettative narcisistiche molto intense, e l'adolescenza, il suo processo di emancipazione, la gruppalizzazione, la conquista della notte, del movimento sul territorio, li sgomenta perché hanno l'impressione, del tutto fondata, che i figli entreranno in contatto con proposte assai pericolose. La distribuzione di sostanze stupefacenti avviene porta a porta, e non c'è ambiente, di studio, di sport, di incontro, ludico, ricreativo, che non rappresenti una specie di supermarket delle offerte; gli ideali di bellezza coincidono con la magrezza, e le ragazze sono esposte al rischio di seguire diete rigidissime che ne compromettono la salute; i ragazzi sono indotti a modellare il loro corpo in palestra usando sostanze dopanti. Ma sono pericoli che i giovani non individuano come tali; affliggono i genitori e i docenti. Allora: dobbiamo ascoltare le preoccupazioni degli adulti oppure l'opinione dei ragazzi?».

 

E com'è, dal suo osservatorio, questa opinione ?

«Positiva: tanto è vero che non contestano la società, il potere, la scuola, tantomeno il padre e convivono con la mamma per più di 30 anni. Il contesto in cui vivono è tutto sommato buono. Non hanno tutti i torti. Genitori e nonni hanno fatto molte battaglie e molti sacrifici perché questa generazione di adolescenti crescesse nella pace, relativa beninteso; in un ambiente di grandi possibilità economiche; di grandissime possibilità espressive. E i genitori consentono che i figli, dopo le scuole superiori, rimangano a lungo in una fase di ricerca di se stessi, della loro vocazione e differiscano, per moltissimi anni, il momento della coniugalità e della generatività: con un rinvio dell'assunzione di quel tipo di responsabilità che è naturale, strutturale, legata alle varianti dell'evoluzione del figlio dell'Uomo».

 

Sta disegnando un quadro idilliaco…

Pietropolli Charmet sorride: «No, no. E' il quadro della fatica e del lavoro che la famiglia ha fatto per uscire da modelli educativi autoritari, repressivi. Molti adulti sono preoccupati perché i giovani, non dovendosi più confrontare con regole rigide, appaiono sregolati e hanno un rapporto con il Potere molto cameratesco, elastico, soft. Ma assistiamo a una diminuzione dei reati minorili e a una scomparsa della costruzione del tossicodipendente, che ha creato tanti lutti e tante disgrazie nel nostro Paese. Adesso i ragazzi dispongono di sostanze che ci daranno del filo torcere perché legittimano l'uso delle droghe leggere. È tuttavia indiscutibile che le controllano meglio che in passato. Ne fanno uso, e si ubriacano, soltanto nel week end».

 

Non hanno angosce, insoddisfazioni, tormenti gravi?

«Non dico questo. Lavoro nell'area delle catastrofi esistenziali da sempre. È cambiato moltissimo il modo di soffrire. Tra il modello educativo etico precedente e il modello attuale più espressivo, relazionale, se vuole affettivo, è difficile dire quale dei due produca maggiore sofferenza. Ogni modello ha pregi e difetti. Ma, soprattutto per la crisi dell'autorità del padre, della scuola, dello Stato, i ragazzini crescono molto più liberi ed espressivi».

 

Ignorando qualsiasi regola, anche perché non ne conoscono nessuna?

«Non le conoscono perché i genitori ritengono che la loro natura debba essere assecondata, non regolata».

 

In conclusione?

«Attorno ai giovani è cambiato tutto: la famiglia, il contesto; ci sono Internet, tanta realtà virtuale, tanti telefonini, che non sono soltanto mode, ma modi di comunicare e di vivere, di soddisfare bisogni... Queste novità fanno interpretare la crescita in maniera differente: quindi una nuova sessualità, una nuova gruppalità, una nuova etica, molto più affettiva che normativa. Gli adulti sono perplessi e un po' spaventati e anche molto critici nei confronti di ragazzi che non sono interessati al potere, alla politica e neanche al denaro, perché ne muovono nel loro insieme masse enormi governando la produzione delle merci. Tutte le generazioni hanno sempre criticato moltissimo i loro adolescenti: quelli che nascevano prima pensavano che quelli che venivano dopo erano peggiori. Se fosse così», sorride Pitreopolli Charmet, «la specie sarebbe imbarbarita al massimo. Invece siamo andati avanti benino, nel complesso. Bisogna vedere quello che fa, questa gioventù, non quello che non fa. E quello che fa è interessante: dimostra che è orientata in una direzione fortemente espressiva. Questo valore dell'espressione del sé è originale e molto positivo».

Luigi Vaccari

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