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Oggi ho visto... l'Amore

Mario Melazzini e Marisa Valesio: le straordinarie testimonianze di due disabili gravi che amano la vita! “Ad un certo punto ho smesso di concentrarmi su quello che non avrei più potuto fare, per pensare a quanto avevo ancora da dare”.


Oggi ho visto... l’Amore

da Quaderni Cannibali

del 24 febbraio 2011

 

 

 

          Febbraio, mese della vita. Nel mio lungo peregrinare su e giù per l’Italia (vita da pro-lifer), mi cullo nell’illusione di andare ai vari convegni, conferenze, incontri nelle parrocchie, per poter donare qualcosa di mio, senza rendermi conto che quello che ricevo dagli altri è infinitamente maggiore.

          Succede sempre, ed è successo ancora qualche giorno fa. Ad un corso di formazione per operatori sanitari, nella giornata che aveva come tema La disabilità e la non autosufficienza, ho potuto ascoltare la profonda esperienza di vita e di fede del dott. Mario Melazzini. Molti già conoscono la sua storia, ma per me è stato un nuovo sentire, più che un sentire nuovamente. Quest’uomo straordinario, che nei suoi primi cinquant’anni di vita ha collezionato successi come medico (oncologo) e come persona, grande sportivo, marito e padre, bello, attivo, pieno di vita, si è ritrovato ad essere prigioniero del suo corpo, vittima di una delle malattie più terribili ed invalidanti del nostro tempo: la sclerosi laterale amiotrofica, altrimenti nota come SLA. Il piombare nella disperazione più nera, il desiderio di morire è stato un percorso doloroso e naturale. L’uscirne fuori, frutto della grazia più pura.

          “Ad un certo punto ho smesso di concentrarmi su quello che non avrei più potuto fare, per pensare a quanto avevo ancora da dare”. Alla faccia di coloro che vivono nell’apparenza e che fondano le loro sicurezze su telefonini di ultima generazione e automobili di lusso…

          “Ho avuto la sfortuna di arrivare un po’ in ritardo a conoscere le persone con disabilità – ha raccontato Melazzini – per quanto le avessi incontrate attraverso il volontariato, e sebbene fossi un credente, le guardavo con una forma di affettuosa superficialità, senza aver cura di relazionarmi in modo profondo con loro”.

          Melazzini ha citato un pezzo del libro Il corpo di Umberto Galimberti, che recita: “Lo sguardo medico non incontra il malato, ma la sua malattia, e nel suo corpo egli non legge una biografia, ma una patologia”; ha commentato questo, ricordando che nella nostra società, parlare di disabilità o malattia crea disagio, perché quando si è sani queste due condizioni non ci appartengono, e anzi suscitano una sorta di malcelato pietismo per quel poverino al quale disgraziatamente è capitato di averle. Ma dobbiamo cominciare ad integrare il pensiero della disabilità e della malattia nel nostro sistema di vita, non soltanto perché potrebbe capitare a chiunque di noi, ma perché non si deve guardare ad un disabile come a qualcosa di anormale, ma come ad uno di noi.

          Affermazione rincarata dall’intervento della dott.ssa Mirella Ricci, vicepresidente della Provincia di Arezzo, grande volontaria della vita, la quale ha ricordato che bisognerebbe iniziare a quantificare non il deficit di una persona, ma la risorsa. Saper quindi entrare in punta di piedi nella vita degli altri, riuscire ad entrare profondamente nel mondo della sofferenza, aiuta ad aver paura di ben poche cose!

          Secondo un’indagine Istat, i disabili in Italia sono circa 2.600.000, cioè il 4,8% della popolazione, non tenendo conto dei minori di 6 anni che sono circa 200.000. Cosa può donare dignità a queste persone fragili, vittime di un’instabilità clinica, spesso di una dipendenza funzionale, oppure di una ridotta sopravvivenza o di percorsi di cura ancora non individuati? L’amore. L’amore di chi ha cura di loro, perché “la dignità sta nello sguardo del datore di cure” (Dignity and the eye of the beholder, H.M. Chocinov JCO 2004). Concetti meravigliosi e fondati che ritroviamo nel libro di Melazzini Ma che cosa ho di diverso? (San Paolo, 2008) che invitiamo caldamente a leggere.

          Ma non è finita lì… dovevo ancora vedere ed ascoltare altro. Ad esempio la presidentessa della AISLA di Arezzo, la grande Marisa Valesio. In quel corpo anziano, oramai completamente prigioniero della malattia, immobile su una carrozzella con tanto di respiratore meccanico, lo sguardo vivo, attento e sorridente di una persona che il cervello ce lo ha sveglio, eccome! Ma soprattutto ha sveglio lo spirito; dinanzi a sé, una speciale macchina che traduce in lettere e poi in parole, lo sguardo che si sposta per dettare quanto vuole dire attraverso il movimento degli occhi. Accanto a sé, l’amore di un marito che si prodiga non per sforzo, né per costrizione, ma per un puro e semplice servizio, reso da un amore che ha qualcosa di sovrumano.

          Quel servire con gioia, che solo un cuore grande può mettere in pratica. Ho immediatamente pensato che essere amate così, pur nella totale impossibilità di cucinare, lavare il bucato, stirare la camicia del proprio marito, essere amate solo perché esistiamo, significa essere amate per davvero.

          Ed ecco la frase di saluto di Marisa, attesa con religioso ed irreale silenzio da oltre cento persone che hanno rinunciato all’allegro cicaleccio per meditare rispettosamente sul paradosso di una vita straordinariamente serena, in totale antitesi con l’effettiva situazione fisica: “Vi saluto tutti con gioia, sono contenta di essere tra voi. Non ero così… la malattia ricevuta è un dono di Dio che porto avanti con la serenità e la forza che mi dà tutti i giorni il Signore, con la quale vado avanti perché mi ha concesso di conoscere quanto è importante la vita”. Silenzio, poi applauso scrosciante… e qualche lacrima. Quanta sapienza, e quanto vuota mi sono sentita io, truccata e funzionante, ma dal cuore spesso privo di questo spessore, di questo amore…

          E poi Marisa è rimasta attenta, con gli occhi incollati al dott. Melazzini, oggi presidente della Aisla-Milano, per lei amico e fratello, compagno di avventura, più che di sventura. Ed ogni tanto, un breve dettato alla macchina, per scrivere “naso”, e subito veder accorrere il marito una, due, tre volte, ad asciugare chi come tutti risente degli sbalzi di temperatura, e si concede il lusso di un normale naso che cola.

          Ecco, quel giorno io ho conosciuto l’Amore, quello vero, quello che non finisce, quello che non si chiede cosa l’altro può dare, ma chi l’altro è, realmente, con la capacità di gioire semplicemente per la sua presenza, senza quantificarne la funzionalità, senza chiedere nulla in cambio. Esattamente come si fa con un dono prezioso.

 

Sabrina Pietrangeli Paluzzi

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